• C. 2994-C-ter EPUB PANNARALE Annalisa, Relatore di minoranza

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Atto a cui si riferisce:
C.2994-B [Ddl La Buona Scuola] Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti


Frontespizio Relazione
Testo senza riferimenti normativi
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2994-C-ter


DISEGNO DI LEGGE
APPROVATO DALLA CAMERA DEI DEPUTATI
il 20 maggio 2015 (v. stampato Senato n. 1934)
MODIFICATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA
il 25 giugno 2015
presentato dal ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca
(GIANNINI)
di concerto con il ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
(MADIA)
e con il ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti
Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica il 26 giugno 2015
(Relatrice di minoranza: PANNARALE)


      

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Onorevoli Colleghi! Il disegno di legge autodefinito dal Governo «Buona Scuola» è, dunque, giunto al suo capitolo conclusivo. Un testo confuso, per l'eterogeneità delle norme. Inadatto a rispondere ai tanti bisogni reali del sistema scolastico pubblico e incapace di ribaltare quel processo di progressivo disimpegno dello Stato, che nell'ultimo decennio ha condotto la scuola pubblica ad una condizione di strutturale precarietà, colpendo – da un lato – i soggetti che la animano ogni giorno, docenti, studenti, personale ATA, e, – dall'altro, – delegittimandola nella sua funzione di principale agenzia formativa dei cittadini, che devono essere messi, oggi, nella condizione di saper interpretare i complessi fenomeni che attraversano la società contemporanea. Impossibile, dunque, definirla riforma.
      Più immediata, tuttavia, è la possibilità di coglierne lo spirito essenziale, un messaggio ideologico molto chiaro, autoritario e aziendalista, che si aggancia in modo scientifico agli interventi normativi chiave della politica dell'attuale governo. La scuola pubblica è senza dubbio il pilastro fondante del principio di uguaglianza. Leggendo l'articolo 3 della Carta costituzionale, infatti, risulta impossibile non cogliere quanto esso sia strettamente intrecciato alla funzione rivestita dall'istruzione pubblica: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
      È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
      Nella scuola pubblica convivono studenti provenienti da diverse realtà sociali, economiche, geografiche, religiose, ambientali, che imparano quotidianamente a confrontarsi da protagonisti con una società complessa ed eterogenea; nella scuola pubblica, nei quasi venti anni che accompagnano il percorso di vita dei cittadini di questo paese, ogni individuo forma la sua personalità e, all'interno di una dimensione relazionale plurale, solidale e inclusiva, sviluppa potenzialità e capacità cognitive critiche e molteplici. Cruciali in questo percorso di esplorazione e di crescita sono gli insegnanti, i quali devono essere messi nella condizione di svolgere un compito così prezioso e ai quali dev'essere garantita la serenità di un posto di lavoro stabile e, allo stesso tempo, fornendo loro gli strumenti necessari ad esercitare pienamente la libertà dell'insegnamento, senza condizionamenti diversi dall'obiettivo di fornire a loro volta ad altri tutti gli strumenti necessari per un «pieno sviluppo della persona umana». Paradossalmente il Governo Renzi, proprio mentre si impegnava a stabilizzare circa centomila precari con un piano di assunzioni straordinario, è riuscito nella mirabile impresa di promuovere una riforma punitiva e demolitoria nei confronti del ruolo sociale degli insegnanti. Un'operazione già sperimentata qualche mese addietro con il Jobs Act: si interviene, sulla carta, sulle sacche di precariato, ma nei fatti si precarizzano in modo strutturale le condizioni di vita e lavoro dei cittadini. Oggi tocca agli insegnanti, e l'operazione è ulteriormente grave perché ad essere aggredita, dentro un più generale e globale attacco al mondo del lavoro, è la loro irrinunciabile e delicata funzione di trasmissione e riproduzione dei saperi e dei princìpi democratici. Lo abbiamo denunciato sin dai primi passi di questa traballante riforma: l'arma ricattatoria della stabilizzazione, diretta conseguenza di una sentenza della Corte di giustizia e non di una generosa concessione del Presidente del Consiglio, è stata utilizzata per trainare un testo normativo che non solo non incide sulle reali criticità del mondo scolastico ma, in ossequio alla solita facile ricetta liberista, delega nelle mani di un unico soggetto la risoluzione di problemi e fenomeni complessi, comprimendo i faticosi ma necessari spazi di partecipazione democratica. Tuttavia, in questo caso, non si sta parlando di un contesto qualsiasi: si parla di scuola, formazione, istruzione. La scuola pubblica deve fornire a tutti gli strumenti per comprendere la realtà, indagarla e imparare ad affrontarla, pena la perdita della sua connotazione di diritto universale e strumento di promozione sociale. A tutti, e non ai membri di una ristretta élite che, grazie ad una facilitata condizione di partenza, possono ambire al rispetto di criteri meritocratici vaghi e indefiniti. È proprio questo lo spirito che attraversa la riforma: delegittimare la libertà e la funzione dei docenti in modo da rendere più fragile la loro possibilità di contribuire al formarsi di una consapevole coscienza critica in tutte le fasce della società e, allo stesso tempo accrescere le diseguaglianze, premiando le istituzioni scolastiche che già oggi sembrano assolvere al meglio al proprio compito e marginalizzando i contesti più problematici.
      Come si peggiora una condizione di endemica difficoltà e precarietà come quella attuale? Come si peggiorano quindici anni di tagli, un rapporto PIL/spesa pubblica per l'istruzione che non arriva neanche vagamente ad avvicinarsi al 6 per cento della media europea e dei paesi OCSE, un tasso di dispersione scolastica al 17 per cento (al 12 in Europa), un analfabetismo di ritorno che sfiora il 70 per cento? Si riesce minando profondamente la dignità e la libertà degli insegnanti. Condizionandoli, ad esempio, all'opportunità, se non alla necessità, di compiacere il dirigente scolastico responsabile della propria assunzione in una determinata istituzione scolastica (commi 78-80), colui cui è assegnata la decisione circa l'attribuzione di un bonus sul proprio reddito (comma 129); la figura in grado, dunque, di incidere profondamente sulla qualità della propria vita.
      È questo che accade, all'interno della riforma.
      L'insegnante, le scelte che opera, il suo percorso lavorativo, saranno sottoposti alle valutazioni arbitrarie e discrezionali del dirigente scolastico; valutazioni che potranno certamente essere buone, costruttive, ma che potranno parimenti essere condizionate da criteri e fattori altamente opinabili, identitari, ideologici, non esistendo indicazioni normative che le indirizzino, ed essendo nella pratica cancellati i criteri di collocazione all'interno delle graduatorie. È così complesso riuscire a comprendere che in un settore tanto delicato e fondativo come quello dell'istruzione non ci si possa affidare alla qualità soggettiva dei singoli nel loro ruolo di dirigenti scolastici ma invece alla qualità di criteri oggettivi, di regole trasparenti nella predisposizione delle quali sia garantito il contributo di tutti, onde evitare facili confusioni come quella tra autoritarismo ed autorevolezza? Tra l'altro, se anche le valutazioni dei Dirigenti risultassero sempre positive, il risultato cui si arriverebbe sarebbe doppiamente inquietante: la concentrazione dei migliori dirigenti ed insegnanti in alcuni istituti e la totale marginalizzazione degli altri. Se una istituzione scolastica in situazione di disagio non viene messa in condizione di risolvere le proprie criticità, e al contrario viene abbandonata, a pagarne il prezzo saranno gli studenti, i quali vedranno negata l'opportunità di migliorare e crescere, emancipandosi da condizioni difficili di partenza, e verranno relegati in una condizione di perenne, irrisolvibile, subalternità. E uno Stato che abdica al suo ruolo in tal senso, che trascura gli interventi per ridurre le diseguaglianze, non è altro che uno Stato che abbandona la funzione di rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». D'altronde, questo è lo stesso rischio che rintracciamo nelle disposizioni contenute nei commi 145-150, relative allo School Bonus, il credito di imposta riconosciuto per investimenti a favore delle istituzioni scolastiche da parte di soggetti privati: come nello stesso caso delle abrogate norme sul cinque per mille, è evidente come questa disposizione sia foriera non solo di potenziali pressioni sulle scuole e conseguenti condizionamenti sul progetto educativo da parte di soggetti esterni, ma anche come questo non faccia altro che accrescere le diseguaglianze tra istituzioni poste in territori ricchi e in altri meno attivi e agiati. E, infatti, il Governo ha tentato di confondere le acque modificando lievemente la norma, introducendo un tetto di 100.000 (!) euro e prevedendo che il 10 per cento della somme complessive venga assegnato alle istituzioni che si trovano al di sotto della media nazionale. Un misero 10 per cento è dunque il peso che il Governo dà ai suoi interventi a favore dei territori e dei contesti in maggiore difficoltà.
      Alla previsione della chiamata diretta da parte del dirigente scolastico si aggiunge poi quella della valutazione discrezionale degli insegnanti, al fine di conferire loro quel bonus di cui al comma 127 del disegno di legge, come da maxiemendamento. Su questo punto, la dinamica di modifica del disegno di legge è apparsa paradossale. Al dirigente scolastico, nel maldestro tentativo di difendere l'indifendibile, è stato affiancato il Comitato per la valutazione dei docenti, un organo la cui composizione è variata in base agli umori della maggioranza e che oggi risulta composto da tre docenti, di cui due scelti dal collegio docenti e uno dal consiglio di istituto (organo in cui sono presenti anche operatori che non hanno necessariamente gli strumenti adatti a valutare la bontà di un progetto formativo); non solo, ad essi si affiancano anche 2 rappresentanti dei genitori per la scuola dell'infanzia e primaria, uno dei quali, nel secondo ciclo, viene sostituito da uno studente. Non sfugge il rischio che una valutazione diretta da parte dei genitori, senza opportuni passaggi di condivisione collettiva del progetto educativo, produca su quel progetto incomprensioni e contrasti sulla base di criteri altamente discrezionali. Su questo punto, infatti, quello dei criteri che dovrebbero orientare la valorizzazione dei docenti è utile riportare una di quelle lievi, ma imbarazzanti, modifiche apportate al testo nel maxiemendamento: tra i criteri è stato infatti aggiunto «il successo formativo e scolastico degli studenti», una previsione che nella pratica incentiva gli insegnanti a valutare positivamente la totalità dei propri alunni, e parimenti genitori e studenti ad accattivarsi il giudizio positivo del docente attraverso una valutazione positiva in seno al Comitato. Insomma, un pasticcio, se non un palese conflitto di interessi! Senza considerare, tra l'altro, che il successo formativo degli studenti non può dipendere esclusivamente dalle capacità del docente ma contempla necessariamente fattori che hanno a che fare con il contesto familiare, geografico e sociale di provenienza. Una delle innumerevoli contraddizioni di un testo che, nel tentativo di procedere speditamente, semplifica processi che dovrebbero essere affrontati in tutta la loro complessità.
      Proprio questo è stato il corto circuito, la contraddizione originaria del disegno di legge di riforma della scuola: il formidabile intreccio, o meglio la sovrapposizione, tra tempi e contenuti. Una scelta né casuale né accidentale ma voluta e perseguita in ogni passaggio da una maggioranza indisponibile al confronto e alla discussione con qualsiasi realtà ponesse dei dubbi circa la validità del progetto. Sin dai primi ritardi nell'effettiva presentazione di un testo annunciato in innumerevoli occasioni si è profilata la possibilità che il Governo intendesse operare una scelta di dubbia legittimità: agganciare il tema della stabilizzazione (e non assunzione) di decine di migliaia di insegnanti, a seguito della pronuncia della Corte di giustizia che avrebbe comportato ricorsi a cascata, ad una riforma del sistema di istruzione su cui si voleva evitare qualsiasi modifica. Una ipotesi consolidatasi in ogni singolo passaggio parlamentare e istituzionale delle ultime settimane: nelle audizioni congiunte e frettolose di Camera e Senato, nel collegamento al Documento di economia e finanza (DEF) con conseguente contingentamento di tempi ed emendamenti presentabili, nell'indisponibilità a confrontarsi con i soggetti protagonisti del mondo scolastico e sindacale, anche in seguito all'imponente sciopero del 5 maggio, cui ha aderito circa l'80 per cento degli operatori della scuola.
      Una scelta resa ancora più grave dalla totale paralisi in Commissione al Senato, durata settimane e causata dai continui rinvii della maggioranza, per contrasti tutti interni; vicenda conclusasi con l'apposizione della fiducia attraverso un colpo di mano che ha impedito qualsiasi confronto su un testo tanto contestato. Gli esponenti del Governo, a cominciare dalla Ministra Giannini, hanno assistito con sprezzante indifferenza agli avvenimenti degli ultimi due mesi senza degnarsi di rispondere con serietà alle domande che provenivano dal Parlamento e dal mondo della scuola. Il Presidente del Consiglio, in particolare, si è lanciato in imprese ed acrobazie imbarazzanti: si ricorda il brillante momento di spiegazione pubblica accompagnato da lavagna e gessi colorati, teso a produrre una efficiente narrazione in grado di coprire le lacune e gli errori del disegno di legge, e l'ultimo mendace annuncio di consultazione pubblica di tutto il mondo della scuola nei primi giorni di luglio, cui ha fatto seguito la beffa della fiducia al Senato.
      Il carattere pasticciato e frettoloso di questo disegno di legge è persino confermato dai rilievi mossi al maxiemendamento dal Comitato per la legislazione, il quale ha sottolineato come molte disposizioni modificate contengano ora «espressioni di dubbia portata normativa» oltre che «pleonastiche» e ha segnalato la necessità di integrare il testo con delle note esplicative in quanto attualmente poco chiaro, anche a causa della scelta di comprimere tutte le norme in un unico articolo composto da 212 commi ed una tabella. Testo blindato ed approvato in una inarrestabile corsa, con la giustificazione di voler procedere all'assunzione immediata di circa centomila insegnanti, risolvendo così l'eterno problema del precariato scolastico; in questa reiterata dichiarazione sono presenti tuttavia una pluralità di mistificazioni e deformazioni della realtà. Intanto come già ricordato, non si tratta di assunzioni ma di stabilizzazioni di personale che negli ultimi anni ha lavorato nella scuola con contratti esclusivamente precari e più della metà dei docenti compresi nel piano straordinario, cui si fa riferimento dal comma 95 al 114, sarebbero stati assunti per il turn over; in secondo luogo, restano escluse enormi sacche di precariato, le seconde fasce delle graduatorie di istituto, gli abilitati PAS e TFA, i diplomati magistrali, il personale ATA e i numeri forniti dal Governo restano poco chiari e fortemente contestati dalle organizzazioni sindacali; infine, sarebbe stato possibile procedere all'approvazione del piano straordinario, quello sì indubbiamente urgente, in tempi rapidi e attraverso un decreto, come richiesto nella proposta di stralcio presentata dal gruppo SEL in ogni occasione.
      L'argomento utilizzato dalla maggioranza e dal Governo per bocciare la proposta di stralcio, cioè l'impossibilità procedere al piano senza l'approvazione di alcune previsioni ad esso connesse, come l'organico potenziato, il ruolo dei dirigenti o la creazione degli ambiti territoriali, è stato palesemente smentito il Governo dal fatto che proprio l'efficacia di quelle disposizioni sia stata, attraverso il maxiemendamento, rimandata all'anno scolastico 2016/2017, e con essa la decorrenza economica di molte delle assunzioni (non a caso al comma 98, lettere b) e c), si parla di decorrenza giuridica dal 1 settembre 2015). Non sarebbe stato più corretto e responsabile procedere già a marzo per decreto con il piano straordinario, garantendo agli uffici scolastici regionali i tempi necessari all'assolvimento dei vari passaggi, e consentendo un confronto aperto, democratico, puntuale, su una riforma così importante per il Paese? Non sarebbe stato più ragionevole e lungimirante elaborare un piano di assunzioni pluriennale che, accompagnato da una vera Riforma, garantisse l'eliminazione definitiva del precariato scolastico e non dei precari, puniti dalle assurde norme contenute agli attuali commi 131 e 132 che comportano di fatto la perdita del lavoro a chi è stato precario per più di 36 mesi, e su cui le modifiche sono intervenute solamente nel senso di prorogarne la decorrenza?
      Sono tutte richieste che come gruppo SEL abbiamo avanzato in tutte le occasioni e che interpretavano proprio quelle istanze del mondo della scuola emerse con tanta forza e determinazione negli ultimi mesi. Ci chiediamo ora, all'ultimo passaggio, come si pensa di dare attuazione ad una riforma fortemente osteggiata da chi la dovrebbe applicare, come si pensa di garantire ad alunni e studenti un'istruzione ampia, efficace, complessa, di qualità, in una condizione che i docenti e gli altri operatori del mondo scolastico vivono come un'aggressione ai propri diritti e una ferita alla dignità della propria funzione sociale. Ancora, ci chiediamo di quanto spazio di manovra avrà ancora bisogno il Governo, data l'ampiezza delle deleghe che si è riservato e che continuano ad essere vaghe, sproporzionate ed indefinite anche dopo la riduzione da 13 a 9 avvenuta durante il primo passaggio in questa aula parlamentare; deleghe contenute ora nel comma 181, su cui il maxiemendamento non è praticamente intervenuto se non per la possibilità per coloro che non vincano i concorsi pubblici di iscriversi a proprie spese a percorsi di specializzazione e a un generico potenziamento della Carta dello studente.
      Alcune ultime considerazioni devono essere fatte a proposito del tema centrale degli investimenti a favore del sistema di istruzione pubblico. Il Presidente del Consiglio ha mostrato in più occasioni la sua incredulità circa la forte opposizione manifestatasi nei confronti di un testo che, a suo dire, dopo anni di tagli investe circa 3 miliardi nella scuola pubblica ed assume centomila persone. Peccato che le scelte normative ed economiche compiute dal Governo dicano altro. È ormai noto, infatti, come il DEF 2015 preveda una partecipazione del settore scolastico alla crescita del PIL da qui al 2020 stimata intorno allo 0,3 per cento: la previsione di spesa in istruzione nei prossimi anni precipita fino ad una riduzione di circa 10 miliardi. Allo stesso modo, non sono previsti nel testo nuovi investimenti per l'edilizia scolastica, ma una riorganizzazione di fondi già esistenti; e ogni proposta potenzialmente «innovativa» nel disegno di legge si neutralizza nella formula costante «senza oneri aggiuntivi». E allora qual è la motivazione che ha spinto la maggioranza a garantire la detraibilità delle spese per coloro che decidono di iscrivere i propri figli alle scuole paritarie, ossia private? Si tratta di una scelta legittima, ma che non deve comportare oneri per lo Stato, come ci ricorda l'articolo 33 della Carta costituzionale. Cosa sono minori entrate se non un onere, risorse che avrebbero potuto essere indirizzate al Fondo per il miglioramento dell'offerta formativa, o a quello per il funzionamento ordinario delle scuole, entrambi colpiti da ingenti tagli nel corso degli ultimi anni? Si indirizzano risorse alla Carta per i docenti (381 milioni), alla valorizzazione del merito (200 milioni), al credito di imposta, alle scuole private, ma non è previsto nessun investimento, ad esempio, sul tema del diritto allo studio, principale causa dell'altissimo tasso di dispersione scolastica. Né si pensa ad una riflessione sulla scuola dell'infanzia, abbandonata a se stessa mentre si spingono molte famiglie a iscrivere i propri figli alle scuole paritarie. Non solo, come è stato appena pochi mesi fa con il Jobs Act, si pensa che un indennizzo possa equivalere al diritto al lavoro. Se si viene licenziati senza giusta causa si ha diritto al massimo ad un indennizzo, non al proprio lavoro.
      Il Governo, anche in questo caso, tenta di far passare l'idea che i diritti possano essere sostituiti da esigui risarcimenti e se lo Stato ha abusato dei contratti precari si può al massimo ambire ad un indennizzo.
      Ci chiediamo allora quale sia l'idea di società, il modello di cittadinanza sottesi a questo disegno di legge. Se non si stia cercando di tornare all'idea di una ristretta élite di persone formate e specializzate provenienti dalle fasce sociali più abbienti, abbandonando il resto dei cittadini ad una condizione di fragilità e di precarietà da cui non avranno gli strumenti per uscire. Un'idea insopportabile, contraria allo spirito costituzionale e all'evoluzione del pensiero democratico. Un'idea che deve essere ribaltata dalle sue fondamenta, e per la quale occorrerà impegnarsi, confrontarsi, creare legami, lottare. Abbiamo la speranza e la certezza che questo Governo e questa maggioranza, ormai chiuso l’iter parlamentare, saranno chiamati a fare i conti con una opposizione ancora più forte e tenace. Quella di un Paese che non intende rinunciare ad una scuola pubblica e libera, nella quale si inveri ogni giorno la società democratica e pluralista, solidale e inclusiva.

Annalisa PANNARALE
Relatrice di minoranza.