• Testo ODG - ORDINE DEL GIORNO IN ASSEMBLEA

link alla fonte scarica il documento in PDF

Atto a cui si riferisce:
S.9/DOC.III,N. ... [Decadenza Berlusconi - Odg 7]



Atto Senato

Ordine del Giorno 9/DOC.III,N.1/7 presentato da GIACOMO CALIENDO
mercoledì 27 novembre 2013, seduta n. 142

Il Senato,
ritenuto che in data 18 settembre 2013 la Giunta delle elezioni respingeva, a maggioranza, la proposta del relatore di convalida dell'elezione del Senatore Silvio Berlusconi e, conseguentemente ai sensi degli articoli 10, comma 1, e 11 del Regolamento per la verifica dei poteri, dichiarava contestata l'elezione del senatore Berlusconi con riferimento agli articoli 1 e 3 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235;
ritenuto che, in data 4 ottobre 2013, la Giunta, a seguito della seduta pubblica, decideva, a maggioranza, di proporre all'Assemblea di deliberare la mancata convalida per incandidabilità sopravvenuta dell'elezione del senatore Berlusconi, ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 2012 n. 235;
ritenuto, preliminarmente, che la Giunta delle elezioni e il Senato della Repubblica in sede di verifica dei titoli di ammissione degli eletti svolgono, quali organi aventi natura giurisdizionale, una funzione giurisdizionale di autodichia.
Tale affermazione si fonda sulla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione ed è supportata da autorevole e prevalente dottrina costituzionalista (Mortati, Virga, Manzella, Elia, Chieppa, Di Ciolo, Oddi, Onida, Baldassarre, Capotosti) anche se deve essere registrata una corrente di pensiero contraria (Buzzelli, Pierandrei, Lippolis e Romboli).
Non è il caso, oggi, di approfondire il contrasto dottrinario, pur emerso, relativamente all'organo abilitato a sollevare questioni di legittimità costituzionale: solo l'Assemblea, solo la Giunta nel corso del procedimento di contestazione dell'elezione, la Giunta e l'Assemblea;
ritenuto, infatti, che secondo i principi affermati dalla Corte di Cassazione le controversie sui titoli di ammissione dei loro componenti sono riservate in via esclusiva alle Camere ai sensi dell'articolo n. 66 della Costituzione "per cui resta precluso ogni sindacato alternativo, concorrente o successivo di qualsiasi natura giudiziaria" (cfr. tra le tante Sezioni unite civili, sentenza n. 5135 del 1997) e dalla Corte Costituzionale (cfr. sentenza 19 ottobre 2009, n. 259) "la natura giurisdizionale dei controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione è pacificamente riconosciuta nelle ipotesi di contestazioni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, quale unica eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di elezioni (sentenza n. 113 del 1993)".
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. sentenze n. 9151 del 2008, n. 9152 del 2008, n. 9153 del 2008), dopo aver richiamato le disposizioni legislative che riservano all'Assemblea elettiva la convalida dell'elezione dei suoi componenti, nonché il giudizio definitivo su ogni contestazione, protesta o richiamo presentati ai singoli uffici elettorali e all'ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente, ricordano che, anche in base a tali disposizioni, attuative del principio di autodichia della Camera, espresso dall'articolo n. 66 della Costituzione, di aver affermato, con costanti precedenti decisioni, l'esclusiva competenza delle Camere restando preclusa ogni possibilità di intervento di qualsiasi autorità giudiziaria. Richiamano, poi, l'ordinanza n. 117 del 2006 della Corte Costituzionale che ha escluso che, in presenza del diniego sia del Giudice amministrativo sia della Giunta delle elezioni della Camera dei Deputati ("la definitiva dichiarazione di volontà declinatoria della sua giurisdizione è stata emessa dalla Camera dei Deputati (Giunta per le elezioni) quale organo avente natura giurisdizionale") di pronunciarsi su una questione di ammissione delle liste elettorali, possa configurarsi un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, trattandosi invece di conflitto (negativo) di giurisdizione, e sottolineano, quindi, che anche l'impostazione del Giudice costituzionale "muove, dunque, dal presupposto della natura giurisdizionale della funzione di autodichia svolta in proposito dalle Camere del Parlamento attraverso propri organi". La Corte precisa poiché si tratta di una funzione giurisdizionale, da intendersi non in senso stretto, attesa la natura affatto speciale dell'organo a cui è demandata, e, dopo aver richiamato le opzioni volte a prevedere un controllo giurisdizionale in senso stretto emerse in seno all'Assemblea Costituente ma non approvate per assicurare l'autonomia e l'indipendenza del Parlamento rispetto al rischio di possibili interferenze di altri poteri, afferma "ma si tratta proprio per questa ragione, di una giurisdizione esclusiva";
ritenuto che, dopo le ricordate pronunzie, risulta poco comprensibile, a meno che non sia ascrivibile a pregiudizio, discutere ancora sulla natura giurisdizionale dell'organo (Giunta delle elezioni e/o Assemblea) e della funzione svolta, come affermato anche dalla Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 259 del 2009) "il giudice competente in materia è stato, infatti, individuato nello stesso organo parlamentare dal Giudice supremo del riparto delle giurisdizioni, che a norma della Costituzione (articolo 111, ottavo comma) e delle leggi vigenti, è la Corte di Cassazione".
Ovviamente, gli organi parlamentari potrebbero sempre sollevare un nuovo conflitto di giurisdizione, denegando la propria competenza ed indicando il giudice competente, che, invece in base alla Costituzione e alle norme citate, nonché alle richiamate sentenze non può essere altro che la Camera di appartenenza e i suoi organi;
ritenuto che la relazione della Giunta delle elezioni sulla elezione contestata del senatore Berlusconi, approvata dalla maggioranza, non tiene conto della richiamata giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione (che pur è stata segnalata, illustrata, approfondita e discussa nel corso delle sedute precedenti alla contestazione dell'elezione, nonché della Camera di consiglio), mentre richiama la sentenza 28 aprile 2009 della Corte europea dei diritti dell'uomo (caso Savino e altri: ricorsi n. 17214 del 2005, n. 20329 del 2005, n. 42113 del 2004) che concerne la funzione di autodichia svolta dalle Camere, con conseguente esclusione di qualsiasi giudice esterno, sulle controversie che attengono allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti. Com'è evidente dalla motivazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 10400 del 2013), riportata per la parte che rileva nella citata relazione della Giunta, la questione è del tutto diversa: la Cassazione dubita della legittimità costituzionale di una disciplina introdotta dall'articolo 12 del Regolamento del Senato, pur adottato in forza della riserva di regolamento prevista dalla Costituzione, e non della funzione di autodichia prevista dall'articolo 66 della Costituzione.
Differenza evidenziata anche dalla relazione della Giunta secondo cui l'autodichia parlamentare "si conferma del tutto legittima nel caso in cui sia volta a disciplinare le funzioni politiche o legislative in ragione delle quali restano possibili i particolari precedenti di giustizia domestica". Qualifica quest'ultima che contraddice la natura della funzione svolta e che è stata utilizzata forse per corroborare le tesi sostenute di inapplicabilità dei principi del giusto processo e per negare la funzione giurisdizionale, ma il fatto che la Giunta sia composta da parlamentari non può escludere la terzietà, imparzialità e indipendenza dell'organo, come è indubbia la natura di organo giurisdizionale del Consiglio nazionale forense, della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, dei Consigli comunali in sede di contezioso elettorale etc., ancorché composti esclusivamente o in prevalenza da avvocati, magistrati, consiglieri comunali etc.
D'altra parte, la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo che, pur evidenzia problemi di indipendenza e imparzialità della Sezione della Camera dei deputati che giudica delle controversie relative allo stato e alla carriera dei dipendenti, anche in considerazione di commistioni tra organi amministrativi e organi giurisdizionali, ritiene che "il mero fatto che i due organi giurisdizionali della Camera dei deputati siano scelti tra i deputati membri della Camera non può far dubitare dell'indipendenza di questi organi giurisdizionali";
ritenuto, infine, che la Giunta del Senato, nella XVI legislatura, proprio per effetto della citata giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, ha espresso un preciso orientamento in merito ritenendosi legittimata a sollevare questioni di legittimità costituzionale (cfr. sedute 21 gennaio 2008, 20 ottobre 2008 e 10 luglio 2009), nel senso che sono state ritenute ammissibili e poste ai voti, anche se non approvate;
ritenuto che negare la natura giurisdizionale della Giunta e della funzione svolta pone i parlamentari in una posizione particolare: a differenza degli altri cittadini (che hanno sempre la possibilità, anche quando rivestono cariche elettive nei consigli regionali, provinciali, etc., di rivolgersi ad un giudice per il controllo di costituzionalità di una norma reputata lesiva di un loro diritto, di una loro legittima aspettativa giuridica) i parlamentari non avrebbero la possibilità di sollevare dubbi di costituzionalità relativi alle norme elettorali di eleggibilità, candidabilità, etc., non essendo previsto dall'ordinamento un giudice davanti a cui prospettare le relative questioni;
ritenuto che il decreto legislativo n. 235 del 2012 è stato adottato in attuazione della legge delega n. 190 del 2012, che alla lettera m) del comma 64 contiene quelli che dovrebbero essere i princìpi e i criteri direttivi. In particolare si prevede "disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 (fra le quali quelle di deputato e senatore) in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica".
Il decreto legislativo citato all'articolo 1 prevede "non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore ... coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell'articolo 278 del codice di procedura penale" e all'articolo 3 prevede "qualora una causa di incandidabilità di cui all'articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione ... ";
ritenuto che la norma di delega prevede la sospensione, non prevista per il mandato parlamentare, e la decadenza di diritto, non compatibile con la chiara dizione dell'articolo 66 della Costituzione, tanto che la norma del decreto legislativo ha subìto una sostanziale evoluzione e si è passati dall'originaria formulazione "dichiara decaduto" a quella "delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione". Poiché non vi è dubbio che la decadenza dalla carica di parlamentare, tenuto conto di quanto prevede l'articolo 66 della Costituzione, non può consistere in una "decadenza automatica o di diritto", spetta all'interprete dare alle norme, ove possibile, un ambito di applicazione costituzionalmente corretto e, in ipotesi di insanabile contrasto con la Costituzione, proporre la questione di legittimità costituzionale. Nella specie, poiché la norma di delega non può riferirsi alle cariche parlamentari, la previsione dell'articolo 3 del decreto legislativo n. 235 del 2012 è viziata da eccesso di delega (per violazione dell'articolo 76 della Costituzione). Ove, invece, si volesse sostenere che la norma di delega, per il riferimento alle cariche di cui all'articolo 63, debba riferirsi anche alle cariche parlamentari, sarebbe evidente l'aperto contrasto della previsione con il disposto dell'articolo 66 della Costituzione;
ritenuto che, comunque, anche la formulazione "la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione" è foriera di ulteriori problemi e di contrasti che potrebbero anche determinare conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato.
Infatti, da un lato la deliberazione non può consistere, come semplicisticamente da taluni è stato sostenuto, in una mera presa d'atto di quanto stabilito dal potere giudiziario con sentenza passata in giudicato, determinando, in palese violazione dell'articolo 66 della Costituzione, un'evidente lesione di una delle prerogative costituzionali della Camera di appartenenza, cioè quella di decidere autonomamente in ordine ai titoli di appartenenza dei suoi membri; dall'altro, se la deliberazione fosse una valutazione libera anche dei presupposti di fatto e non condizionata dalla sentenza di condanna, si potrebbe giustificare un conflitto tra poteri dello Stato, per aver la Camera di appartenenza ignorato una sentenza, dalla quale discenderebbe, in ipotesi, l'interruzione del mandato;
ritenuto che, il potere di deliberazione della Camera debba consistere in un pregnante controllo della sussistenza dei presupposti della decadenza, in particolare l'applicabilità della norma al caso concreto, tenendo conto dei limiti temporali di efficacia; la conformità della norma ai principi costituzionali.
Trattasi di una questione non formale, ma di estrema rilevanza e su cui il Parlamento dovrà porre una seria ed approfondita riflessione, essendo evidente la necessità di interventi integrativi e correttivi del citato decreto legislativo.
Si tratta, cioè, di considerare un problema posto da un illustre costituzionalista, Alessandro Mangia: il riconoscere un effetto automatico ad una sentenza di condanna (sia pure con limiti predeterminati) sulla perdita dell'elettorato passivo rappresenterebbe un riconoscimento di superiorità della magistratura rispetto al potere politico.
Problema che assume un ulteriore rilievo se si considera che il giudice penale nel determinare la pena, con la discrezionalità che la legge gli consente, potrà tener conto degli ulteriori effetti che il decreto legislativo ricollega a pene superiori a due anni.
Allo stato, limitando l'indicato controllo della Camera di appartenenza alla sussistenza dei presupposti della decadenza, la citata relazione della Giunta non riconosce, come si è detto, la natura di organo giurisdizionale e la funzione giurisdizionale svolta, giustificando anche con tale affermazione il rigetto delle questioni relative alla retroattiva applicazione delle nonne e la mancata rimessione alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia europea;
ritenuto che, dopo il citato intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che come organo supremo di regolazione delle giurisdizioni ha ribadito la natura di organo giurisdizionale della Giunta e delle Camere di appartenenza in sede di verifica dei requisiti di eleggibilità, negare la propria giurisdizione, nel nostro ordinamento e nel sistema processuale, ove non si sollevi un nuovo conflitto di giurisdizione, significa non tener conto di quanto affermato dalla Corte nell'esercizio della sua funzione nomofilattica e stravolgere così l'ordinamento che, invece, si fonda sul riconoscimento di diritti e doveri, ma anche su sistemi di garanzia e di tutela che ne assicurino l'effettività. Di recente sono molteplici le affermazioni che richiamano al rispetto delle sentenze, del principio di legalità, del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ma se non si individua un organo giurisdizionale che possa garantire tali principi e si adottano deliberazioni addirittura in contrasto con le decisioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, tali affermazioni si risolvono in vuote declamazioni e in comportamenti che, in materia processuale, ove adottati da un giudice, determinerebbero serie responsabilità disciplinari.
Può il Senato della Repubblica negare la propria funzione giurisdizionale nella materia de qua o quella della Giunta delle Elezioni sottraendosi all'obbligo di indicare il giudice competente, obbligo che può essere definito addirittura di rilevanza costituzionale per le funzioni e le prerogative previste dalla Costituzione?
Ritenuto che, in ordine all'applicazione al caso in oggetto del decreto legislativo n. 235 del 2012, è necessario individuare la natura penale o meno della prevista decadenza o mancata convalida.
La giurisprudenza delle Corti internazionali individua come effetti penali e non amministrativi tutti quelli che hanno riflessi su diritti fondamentali.
La dottrina prevalente, anche se con motivazioni ed approfondimenti diversi, resta nella scia della vecchia definizione data da G. Battaglini "sono effetti penali della sentenza quelle conseguenze giuridiche che derivano direttamente dalla condanna stessa e consistono nell'incapacità di conservare, esercitare o di acquistare diritti soggettivi pubblici o privati o altre facoltà giuridiche".
In base al decreto legislativo n. 235 del 2012, il giudice penale nel momento in cui pronuncia condanna (per un reato la cui pena edittale rientra nei limiti previsti dall'articolo 1, lettera c), ad una pena compresa nei limiti fissati, pronuncia una sentenza che automaticamente incide sia sul diritto di libertà personale, sia sul diritto all'elettorato passivo, costituzionalmente garantito (articolo 51 della Costituzione).
Ulteriori indizi confermano la natura di effetto penale della incandidabilità sopravvenuta: a) l'incandidabilità decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza stessa ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici comminata dal giudice. In ogni caso l'incandidabilità, anche in assenza della pena accessoria, non è inferiore a sei anni. La durata è aumentata di un terzo nel caso in cui il delitto è stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato elettivo di parlamentare nazionale o europeo.
L'incandidabilità e l'interdizione temporanea dai pubblici uffici producono i medesimi effetti in ordine alla limitazione del diritto di elettorato passivo. Effetti che per il disposto dell'articolo 15 del citato decreto legislativo possono anche essere concomitanti. Una diversa natura dell'incandidabilità rispetto all'interdizione dai pubblici uffici appare difficilmente sostenibile, avendo, ai fini dell'elettorato passivo, i medesimi effetti e risultando l'incandidabilità come un aggravamento della durata di quelli derivanti dall'interdizione.
Proprio perché hanno la stessa natura possono essere applicati in concomitanza. La norma pone un ulteriore problema, pur segnalato dal relatore senatore Augello, e cioè se la Giunta, e oggi il Senato, dovesse (e oggi debba) ritenere inapplicabile o quantomeno sospendere l'applicazione del decreto legislativo citato all'elezione del senatore Berlusconi non essendo ancora passata in giudicato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici; b) l'unica possibilità di rimozione della causa di incandidabilità è la riabilitazione (articolo 15 comma 3 decreto legislativo n. 235 del 2012) che estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna stessa (articolo 178 del codice penale). Tale disposizione, che conferma la natura dell'incandidabilità sopravvenuta quale effetto penale della condanna, pone ulteriori problemi che il Parlamento dovrà considerare in una rivisitazione del decreto legislativo citato. Infatti, le condizioni alle quali la riabilitazione può essere concessa (articolo 179 del codice penale) sono soggette ad una valutazione discrezionale del Tribunale di sorveglianza (articolo 683 del codice penale), che non compie atti dovuti ma dispone di un margine per verificare se il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (cfr. Cassazione n. 773 del 1985; Cassazione n. 1274 del 1996), con la conseguenza di rendere ancora più evidente il problema sopraevidenziato di un riconoscimento di superiorità della magistratura rispetto al potere politico o, comunque, di interventi esterni con diretta incidenza sulla composizione del Parlamento e sulla prerogativa costituzionale di ciascuna Camera di giudicare dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità;
ritenuto, pertanto, che trattasi di effetto penale della condanna e, forse meglio, di vera e propria pena accessoria per le considerazioni sopraesposte in ordine all'aggravamento specifico del periodo di temporaneità dell'interdizione dai pubblici uffici; al fatto che l'incandidabilità è formulata come integrativa e non cumulabile con la identica pena accessoria pronunciata in seguito a giudizio penale e alla previsione della operatività della riabilitazione, si pone il problema dell'efficacia temporale della norma e della sua applicazione retroattiva. La questione assume specifica rilevanza in quanto i fatti contestati al senatore Berlusconi nel giudizio penale sarebbero accaduti fra il 1995 e il 1998 e gli effetti delle asserite maggiorazioni di costo dei diritti televisivi si sarebbero riverberati nel tempo in ragione di ammortamenti quinquennali protrattisi negli anni 2002 e 2003 (l'ultimo momento consecutivo del reato si sarebbe perfezionato il 26 ottobre 2004 con il deposito della dichiarazione annuale 2003).
La sentenza del Tribunale di Milano che ha accertato i fatti in oggetto è stata emessa il 26 ottobre 2012, confermata in Appello in data 8 maggio 2013 e in Cassazione in data 1º agosto 2013.
La legge delega da cui il decreto legislativo n. 235 del 2012 trae origine è stata approvata il 6 novembre 2012 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 13 novembre 2012) ed entrata in vigore il 28 novembre 2012. Il decreto legislativo è stato promulgato il 31 dicembre 2012 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 4 gennaio 2013) e divenuto efficace il 5 gennaio 2013.
Trattasi quindi di norme (legge delega e decreto legislativo) di date successive alla asserita commissione del reato, ma anche alla sentenza del Tribunale di Milano che ha accertato i fatti contestati.
Il regime temporale della sanzione penale è vincolato al principio di legalità, che si esplicita nelle regole della tassatività (articolo 1 del codice penale) e dell'irretroattività (articolo 2 del codice penale). Il trattamento legale è quello del tempo del fatto (articoli 1 e 2 del codice penale).
"Il principio di irretroattività della norma penale si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo della esigenza di calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale" (cfr. Corte costituzionale n. 394 del 2006). Trattasi di un principio connaturato ai sistemi democratici e solennemente affermato dall'articolo 25 comma secondo, della nostra Costituzione, dall'articolo 15 del Patto internazionale dei diritti civili e politici, dall'articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dall'articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Per quanto concerne l'ambito di applicazione della norma di cui all'articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo risulta più ampio e non limitato alla sanzione penale: "la Corte EDU applica il principio di cui all'articolo 7 CEDU all'intera materia penale ricomprendendo in questa tutte le infrazioni e sanzioni che, a prescindere dalla denominazione formale utilizzata da ciascuno Stato membro, risultano caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e da una dimensione intrinsecamente afflittiva. L'illecito punitivo amministrativo viene configurato come entità diversa dal reato per grado ma non per sostanza" (cfr. Cassazione, Sezioni Unite Penali 17 aprile 2012, n. 14484).
Pertanto, alla luce di questi principi, il decreto legislativo n. 235 del 2012 non è applicabile alla sentenza di condanna conseguita alla sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione in data 1º agosto 2013, e una diversa valutazione non potrebbe, per le ragioni esposte, non ritenere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli articoli 1, 3 e 16 del citato decreto legislativo.
Ritenuto che anche se si volesse attribuire alla incandidabilità una diversa natura, come da ultimo la Corte di appello di Milano (cfr. sentenza 19 ottobre 2013) "da un lato le pene accessorie penali che devono essere irrogate dall'Autorità giudiziaria e, dall'altro, la sanzione dell'incandidabilità, discendente dalla sentenza di condanna, riservata all'Autorità amministrativa. Non è revocabile in dubbio che l'Autorità competente ad irrogare tale ultima sanzione (ben diversa da quella penale) sia l'Autorità amministrativa e non l'Autorità giudiziaria", l'articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile e l'articolo 1 della legge n. 689 del 1981 ne impedirebbero l'applicazione retroattiva.
A prescindere dalla condivisione o meno della sentenza della Corte di appello di Milano, che esclude che l'incandidabilità sia un effetto penale o una pena accessoria, è rilevante osservare che qualifica l'incandidabilità come "sanzione" applicata dall'Autorità amministrativa. Per le sanzioni amministrative vale il generale canone di irretroattività posto dall'articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile: "La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo" e la specifica previsione di cui all'articolo 1, della legge n. 689 del 1981 "Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione".
Anche il Consiglio di Stato di recente (Sezione quinta, sentenza in data 24 ottobre 2013 sul ricorso n. 9936/2001) ha ribadito che le sanzioni amministrative comminate dalla legge n. 47 del 1985 sono applicabili soltanto alle violazioni commesse successivamente all'entrata in vigore della legge "in virtù del principio generale dell'articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile e stante la mancanza di un'espressa previsione che ne ammetta l'irrogazione anche retroattiva (Consiglio di Stato, Sezione V, 27 settembre 1990, n. 695)". Del resto, il giudice amministrativo (Tribunale amministrativo regionale e Consiglio di Stato), al di là della sentenza nel caso Maniscalco citata nella relazione della Giunta, ha più volte ritenuto che la previsione legislativa della perdita di requisiti per il godimento di un diritto, se conseguente a condanna, non potesse applicarsi a sentenze relative a fatti commessi precedentemente all'entrata in vigore della legge che tale previsione contenesse. In particolare, con riferimento alla revoca del permesso di soggiorno dello straniero colpito da condanna penale (e alla sua conseguente espulsione) il Consiglio di Stato ha più volte ritenuto (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1791 del 2009; Sezione VI, n. 859 del 2010; Sezione V, n. 1894 del 2010, n. 1888 del 2010, n. 859 del 2010) che, "considerate le gravi conseguenze che ... comporta", una disciplina legislativa che preveda l'espulsione a seguito della condanna penale "deve essere interpretata come applicabile, ratione temporis, solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore" e che "pertanto in caso di condanna penale successiva all'entrata in vigore di tale disposizione, occorre aver riguardo alla data del commesso reato potendosi applicare l'automatismo espulsivo solo nel caso in cui anche il reato, e non solo la condanna, siano successivi alla data di entrata in vigore suddetta". Considerando in particolare che "in favore di tale soluzione esegetica milita la considerazione che in caso di reati commessi prima dell'entrata in vigore di detta disposizione, l'autore del reato non era in grado di conoscere le gravi conseguenze derivanti dalla propria condotta" (Consiglio di Stato, Sezione VI n. 859 del 2010).
Ritenuto che la pronuncia di mancata convalida del senatore Berlusconi per incandidabilità sopravvenuta, per le conseguenze che avrebbe nell'ordinamento italiano, inciderà nel campo di applicazione del diritto comunitario con riferimento alle prossime elezioni del Parlamento europeo. È evidente, infatti, che tale decisione, ove assunta, risulti idonea ad influire sui presupposti applicativi del decreto legislativo n. 235 del 2012 nel caso di elezioni per il Parlamento europeo, in quanto i presupposti normativi per l'applicazione dell'istituto dell'incandidabilità ad entrambe le cariche (parlamentare nazionale e parlamentare europeo) sono gli stessi, atteso l'espresso rinvio previsto nell'articolo 4 del decreto legislativo n. 235 del 2012 (incandidabilità al Parlamento europeo) all'articolo 1 del medesimo decreto legislativo che, appunto, disciplina i casi di incandidabilità alle cariche di deputato e senatore.
Tale nesso di identità tra i requisiti di candidabilità al Parlamento nazionale e quelli di candidabilità (per quanto previsto dal citato decreto legislativo) per il Parlamento europeo determina, inevitabilmente, un forte condizionamento dell'interpretazione dei requisiti per l'elezione al Parlamento nazionale definita dall'unico organo abilitato a compierla (Giunta delle elezioni o Assemblea del Senato) sull'interpretazione degli organi chiamati ad applicare il decreto legislativo n. 235 del 2012 ai candidati e agli eletti al Parlamento europeo.
La normativa prevista dal citato decreto legislativo n. 235 del 2012 risulta in contrasto con gli articoli 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea la quale ha lo stesso valore giuridico dei trattati (articolo 6 del Trattato dell'Unione europea) e va interpretata anche alla luce dell'articolo 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, che, come si è detto, è costantemente interpretato nel senso che il principio di irretroattività va applicato a tutte le sanzioni caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e da una dimensione intrinsecamente afflittiva.
La sussistenza in concreto del nesso di pregiudizialità tra il procedimento in corso e l'interpretazione del diritto comunitario sopra evidenziato, impone di sollevare un rinvio pregiudiziale di tipo interpretativo alla Corte di giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
È noto che tale articolo prevede l'obbligo per il giudice, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno (ed è la posizione della Giunta e del Senato), di sottoporre alla Corte l'interpretazione del diritto dell'Unione, salvo che esista già una giurisprudenza in materia sulla rilevanza effettiva e non manifesta infondatezza della questione (Corte costituzionale, ordinanza n. 244 del 1994).
Non esistendo una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia dell'Unione europea sull'articolo 49 della Carta, dal momento che è stata inserita nel Trattato di Lisbona che è entrato in vigore in data 1º dicembre 2009, il Senato potrebbe non disporre il rinvio solo se ritenesse la giurisprudenza della Corte EDU sull'articolo 7 della Carta dei diritti dell'uomo come richiamata e applicata anche dalla Corte di Cassazione (Sezioni unite n. 14484 del 2012) chiara e tale da non lasciare dubbi sull'interpretazione del diritto comunitario. In tal caso, dovendo applicarsi il principio di irretroattività alle sanzioni caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e da una dimensione intrinsecamente afflittiva, non vi potrebbe essere alcun dubbio che la norma di diritto interno dovrebbe essere interpretata come non applicabile a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. D'altro canto, "la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo costituisce, come prodotto dell'interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, una fonte sovranazionale che integra il dettato costituzionale espresso dall'articolo 117, primo comma, della Costituzione. Il giudice nazionale, nell'applicare una norma di diritto interno, è sempre tenuto ad interpretare la stessa in maniera, non solo costituzionalmente orientata, ma anche convenzionalmente orientata; a tal fine, considerando come parametro di riferimento tanto la disposizione formalmente cristallizzata nell'articolato della Convenzione europea, quanto le norme come interpretate dalla Corte di Strasburgo nelle sue sentenze. Del resto, l'interpretazione del giudice nazionale conforme al diritto sovranazionale (diritto dell'Unione europea di fonte giurisprudenziale e quello convenzionale nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo) e nel rispetto della Costituzione della Repubblica costituisce lo strumento di soluzione delle antinomie presenti nel sistema giurisdizionale integrato e per assicurare appunto l'unità dell'ordinamento" (Cassazione, Sezioni Unite Penali n. 14484 del 2012).
Tanto premesso e ritenuto, comunque, che assume fondamentale rilievo, ai fini dell'applicazione del decreto legislativo n. 235 del 2012, la circostanza che la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici non risulta ancora passata in giudicato,
il Senato delibera:
a) di sospendere l'esame dell'elezione contestata del senatore Berlusconi nella Regione Molise, non essendo ancora passata in giudicato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici;
b) in subordine, di ritenere inapplicabile il decreto legislativo n. 235 del 2012 non essendo ancora passata in giudicato la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici e pertanto di dichiarare convalidata l'elezione contestata nella Regione Molise del senatore Berlusconi.
(numerazione resoconto Senato G7)
(9/Doc. III, n. 1/7)
CALIENDO, SCIASCIA, ALBERTI CASELLATI, TARQUINIO, MALAN, SCOMA, MARIN, BERNINI, BRUNI, FLORIS, LONGO EVA, ZANETTIN, ZIZZA, AMORUSO, PICCOLI, MUSSOLINI, PAGNONCELLI, ZUFFADA, PERRONE, SERAFINI, PICCINELLI, GALIMBERTI, D'AMBROSIO LETTIERI, ALICATA, CARRARO