• Testo RISOLUZIONE IN COMMISSIONE

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Atto a cui si riferisce:
C.7/00036 premesso che: l'acqua è un bene essenziale ed insostituibile per la vita e, pertanto, la disponibilità e l'accesso all'acqua potabile e all'acqua necessaria per il soddisfacimento dei...



Atto Camera

Risoluzione in commissione 7-00036presentato daDAGA Federicatesto diMercoledì 12 giugno 2013, seduta n. 32

L'VIII Commissione,
premesso che:
l'acqua è un bene essenziale ed insostituibile per la vita e, pertanto, la disponibilità e l'accesso all'acqua potabile e all'acqua necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi costituiscono un diritto inviolabile dell'uomo, un diritto universale, indivisibile, che si può annoverare fra quelli di cui all'articolo 2 della Costituzione;
con la promulgazione della Carta europea dell'acqua (Strasburgo 1968) la concezione dell'acqua come «bene comune» per eccellenza si è progressivamente affermata a livello mondiale;
il bene acqua, pur essendo rinnovabile, per effetto dell'azione antropica può esaurirsi o, comunque, ridursi in modo da comprometterne l'accesso all'intera popolazione mondiale; è quindi responsabilità individuale e collettiva prendersi cura di tale bene, utilizzarlo con saggezza, e conservarlo affinché sia accessibile a tutti e disponibile per le future generazioni;
la risoluzione del Parlamento europeo dell'11 marzo 2004 sulla strategia per il mercato interno afferma che, «essendo l'acqua un bene comune dell'umanità, la gestione delle risorse idriche non deve essere assoggettata alle forme del mercato interno»;
ancora il Parlamento europeo, con la risoluzione del 15 marzo 2006 sul IV Forum mondiale dell'acqua, ha dichiarato che «l'acqua è un bene comune dell'umanità» e ha chiesto che siano esplicati tutti gli sforzi necessari a garantire l'accesso all'acqua alle popolazioni più povere entro il 2015, insistendo affinché «La gestione delle risorse idriche si basi su un'impostazione partecipativa e integrata, che coinvolga gli utenti ed i responsabili decisionali nella definizione delle politiche in materia di acqua a livello locale e in modo democratico»;
l'ONU, con la risoluzione dell'Assemblea generale del 28 luglio 2010 (GA/10967), ha dichiarato il diritto all'acqua un diritto umano universale e fondamentale; la risoluzione sottolinea ripetutamente che l'acqua potabile e per uso igienico, oltre ad essere un diritto di ogni uomo, concerne la dignità della persona, è essenziale al pieno godimento della vita, ed è fondamentale per tutti gli altri diritti umani; la medesima risoluzione raccomanda gli Stati ad attuare iniziative per garantire a tutti un'acqua potabile di qualità, accessibile, a prezzi economici; l'importante atto è stato approvato dall'Assemblea generale con 122 voti favorevoli – compresa l'Italia – 41 astensioni e nessun contrario:
sono circa 2,61 miliardi i metri cubi di acqua che, annualmente, il sistema idrico italiano disperde a causa dei mancati investimenti relativi al miglioramento delle reti di distribuzione;
l'inquietante dato è confermato dal Co.N.Vi.Ri., (Commissione nazionale per la vigilanza delle risorse idriche), e, ovviamente, rappresenta anche un'immediata, e diretta, perdita economica; le società di gestione degli acquedotti, infatti, spendono risorse per fornire l'energia elettrica e i servizi al fine di immettere l'acqua nelle condutture; un'attività che, secondo Federutility, equivale al 10 per cento dei costi industriali sostenuti per ogni metro cubo d'acqua; questi costi in Italia ammontano mediamente a 0,87 euro; in pratica i 2,61 miliardi di metri cubi di acqua perduta significano circa 226 milioni di euro sprecati ogni anno;
l'Italia, peraltro, vanta il non invidiabile primato di una media percentuale delle perdite ben superiore a quella degli aliti Paesi occidentali; nel nostro Paese, in media, il 30 per cento delle acque immesse nelle condutture va perso o viene indebitamente sottratto; un valore ben superiore a quello degli altri. Paesi europei, dove la percentuale è compresa tra il 15 e il 20 per cento;
secondo il rapporto sullo stato dei servizi idrici 2011, stilato dal Co.N.Vi.Ri., oggi l'Italia presenta le seguenti criticità:
«è effettivamente ancora non sufficiente la copertura dei servizio di depurazione, ed ancora molto elevato il deficit fra utenti allacciati alla fognatura e utenti allacciati al depuratore, decisamente più accentuato al Sud e Isole;
si evidenzia la presenza di una larga prevalenza di fognature miste e della mancanza di una normativa tecnica nazionale specifica sugli scaricatori di piena delle stesse che comporta il rinvenimento in ambiente di scarichi non depurati, aumentando naturalmente la percezione di mancata funzionalità o assenza degli impianti;
a fronte di un parco impianti non particolarmente vetusto e sostanzialmente sviluppato verso una opportuna centralizzazione spinta (frutto degli ingenti sforzi finanziari pubblici degli ultimi anni), emerge in ampie zone d'Italia una forte carenza gestionale, testimonianza della mancanza di una specifica e adeguata cultura nella conduzione degli impianti; tale carenza rende vani i notevoli sforzi di finanza pubblica per la realizzazione degli impianti soprattutto nelle regioni del meridione italiano e delle Isole.
Emerge, inoltre, in modo rilevante, come molta parte delle criticità percepite possa essere ricondotta direttamente a carenze di carattere gestionale; infatti sia nel rapporto con l'utenza, che nella garanzia di qualità delle acque distribuite, ma anche nelle perdite e nella efficacia ed efficienza della depurazione, rivestono un ruolo importante le pratiche gestionali che spesso emergono come poco adeguate e professionali.
L'analisi dei dati dipinge una situazione complessiva di scarsa cultura della gestione che accentua le problematiche connesse sicuramente anche a deficit impiantistici che richiedono l'impegno di rilevanti risorse.
Tale condizione, piuttosto diffusa nella cultura italiana, non appare affrontata sufficientemente neanche dalla normativa vigente: a parte generali e generici piani di gestione, difficilmente la normativa entra in maniera cogente nel merito della misura della qualità della gestione ed in atteggiamenti incentivanti le buone pratiche»;
la diffusa convinzione della presunta liberalizzazione del settore dei servizi pubblici locali ed il conseguente obbligo, anch'esso presunto, per gli enti locali, di ricorrere esclusivamente alla messa a gara dei servizi quale unica forma possibile di gestione degli stessi, rischia di influenzare impropriamente le scelte degli enti locali, sulla base di non meglio precisati obblighi in tal senso che sarebbero stati introdotti dalla normativa comunitaria;
fermo restando che il principio della concorrenza è da considerarsi uno dei principi ispiratori del diritto comunitario – come afferma l'articolo 3, lettera g), del trattato CE, che prevede la necessità di realizzare un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno – sembra tuttavia necessario sottolineare la presenza di altri principi, nell'ordinamento comunitario, che hanno la stessa rilevanza del principio di concorrenza e che sono da porre sullo stesso piano, senza gerarchie o priorità:
a) articolo 16 del Trattato UE: «Fatti salvi gli articoli 73, 86 e 87, in considerazione dell'importanza dei servizi di interesse economico generale nell'ambito dei valori comuni dell'Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, la Comunità e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell'ambito del campo di applicazione dei presente trattato, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i loro compiti»;
b) articolo 86 del Trattato UE: «Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata»;
la missione affidata ai servizi pubblici locali è quella di promuovere la coesione sociale, territoriale ed economica della comunità europea, non certo quella di costituire una sorta di volano per la sviluppo della concorrenza;
per questi motivi (anche per l'esplicito utilizzo del termine «limiti») possono giustificarsi delle ragionevoli limitazioni della concorrenza, in vista della realizzazione di interessi pubblici di portata essenziale; ciò, in particolare, secondo la Corte di giustizia europea, è legittimo nella misura in cui si rendano necessarie misure per garantire l'adempimento della specifica funzione attribuita alle imprese titolari dei diritti esclusivi;
inoltre, nell'interpretazione dell'articolo 86 del Trattato fornita dalla stessa Commissione europea nel libro bianco sui servizi di interesse generale, del 12 maggio 2004 n. COM (2004) 374, si legge che «... in base al Trattato CE e in presenza delle condizioni di cui all'articolo 86, paragrafo 2, l'effettiva prestazione di un compito di interesse generale prevale, in caso di controversia, sull'applicazione delle norme del trattato. Pertanto, la normativa tutela i compiti piuttosto che le loro modalità di esecuzione, il trattato consente quindi di conciliare il perseguimento e la realizzazione degli obiettivi di politica pubblica con gli obiettivi di competitività dell'Unione europea nel suo insieme»; la Commissione, commentando la propria proposta di direttiva sui servizi di interesse generale, afferma inoltre che: «Un aspetto ancora più importante risiede nel fatto che la proposta non impone agli Stati membri di aprire i servizi di interesse economico generale alla concorrenza e non interferisce sulle modalità di finanziamento o di organizzazione»;
più di recente, la Commissione, nella comunicazione interpretativa sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati, del 5 febbraio 2008, n. C (2007) 6661, ribadisce nuovamente che «nel diritto comunitario, le autorità pubbliche sono infatti libere di esercitare in proprio un'attività economica o di affidarla a terzi, ad esempio ad entità a capitale misto costituite nell'ambito di un partenariato pubblico-privato»;
la stessa Commissione europea, notoriamente attenta ad impedire potenziali violazioni del principio di libera concorrenza, sembra comunque dar conto della cedevolezza del detto principio concorrenziale di fronte a quello di libertà di autorganizzazione degli Stati membri e delle loro articolazioni interne;
l'articolo 5 del Trattato prevede il principio di auto-organizzazione amministrativa che trova il suo fondamento nel più generale principio di autonomia istituzionale; questo comporta almeno due conseguenze:
a) la definizione stessa di servizi di interesse generale e di servizi economici di interesse generale compete agli Stati membri e alle loro «suddivisioni costituzionalmente riconosciute»: nel caso italiano, quindi, le autonomie locali;
b) il diritto, per gli Stati membri e le istituzioni locali di ricorrere alla autoproduzione dei servizi;
nella «Risoluzione sui Libro verde sui servizi di interesse generale (COM (2003) 270 – 2003/2152(INI))» del 14 gennaio 2004, il Parlamento europeo: «18, ribadisce l'importanza fondamentale del principio di sussidiarietà, a norma del quale le autorità competenti degli Stati membri possono operare la loro scelta in materia di missioni, organizzazione e modalità di finanziamento dei servizi di interesse generale e dei servizi di interesse economico generale; sottolinea che una direttiva non può stabilire una definizione europea uniforme dei servizi di interesse generale, poiché la loro definizione e strutturazione deve restare di competenza esclusiva degli Stati membri e delle loro suddivisioni costituzionalmente riconosciute; 35 auspica che, in ossequio al principio di sussidiarietà, venga riconosciuto il diritto degli enti locali e regionali di “auto produrre” in modo autonomo servizi di interesse generale a condizione che l'operatore addetto alla gestione diretta non eserciti una concorrenza al di fuori del territorio interessato; chiede, conformemente alla sua posizione sulle direttive concernenti i contratti di servizio pubblico, che le autorità locali vengano autorizzate ad affidare i servizi a entità esterne senza procedure d'appalto qualora la loro supervisione sia analoga a quella esercitata da esse sui propri servizi e qualora svolgano le loro principali attività mediante tale mezzo»;
il 12 e 13 giugno 2011 si è tenuta una consultazione referendaria avente ad oggetto: 1) l'abrogazione dell'articolo 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 recante «Servizi pubblici di rilevanza economica»; 2) l'abrogazione dell'articolo 154, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (di seguito, «codice dell'ambiente»), rubricato «Tariffa del servizio idrico integrato», relativamente alla parte in cui prevedeva che i proventi ricavati dal sistema tariffario del servizio idrico integrato avrebbero dovuto remunerare in maniera «adeguata» anche il capitale investito dal gestore per la realizzazione e la manutenzione straordinaria delle infrastrutture funzionali all'erogazione di tale servizio;
tale referendum si è concluso con una netta vittoria del «sì» a seguito della quale si è aperto un ampio dibattito giuridico e politico circa le conseguenze che da tale risultato sarebbero derivate, in primo luogo, sull'ammissibilità o comunque sulla validità ed efficacia degli affidamenti dei servizi pubblici locali a soggetti terzi, rilasciati in base alla normativa previgente-considerato che, come testualmente affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 26 gennaio 2011, n. 24, «(...) all'abrogazione dell'articolo 23-bis (...) conseguirebbe l'applicazione immediata nell'ordinamento italiano della normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica (...)» – e, in secondo luogo, su un'altra tematica fondamentale oggetto dei quesiti referendari: quella relativa all'ammontare della tariffa del servizio idrico integrato;
dal documento dal Forum italiano dei movimenti dell'acqua «Per la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato dopo il referendum» è possibile evincere il contesto legislativo successivo al referendum:
«Il 13 agosto 2011 il Governo ha approvato il decreto-legge n. 138 del 2011 (cd. decreto di Ferragosto) convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011, il cui articolo 4 era rubricato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall'Unione europea». Tramite tale articolo sostanzialmente veniva, riproposta la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica contenuta nell'articolo 23-bis abrogata con i referendum del 12-13 giugno 2011 pur escludendo il servizio idrico. Va inoltre ricordato che l'articolo 4 aveva subito numerose modifiche, in particolare per effetto dell'articolo 9, comma 2, lettera n) legge n. 183 del 2011 (cd. legge di stabilità 2012) e dell'articolo 25 decreto-legge n. 1 del 2012 convertito con modificazioni dall'articolo 1, comma 1, legge n. 27 del 2012, nonché dell'articolo 53, comma 1, lettera b), decreto-legge, n. 83 del 2012, in fase di conversione. Le modifiche sopravvenute avevano limitato ulteriormente le ipotesi di affidamento dei servizi pubblici locali comprimendo ancor di più le sfere di competenza regionale in materia di SPL di rilevanza economica. Pertanto diverse Regioni, sin dall'autunno scorso, hanno promosso ricorsi difronte alla Corte costituzionale chiedendo di definirne l'illegittimità costituzionale. Il 20 luglio u.s. la Corte ha depositato la sentenza n. 199 del 2012 relativa a tali ricorsi dichiarando incostituzionale l'articolo 4 e le successive modifiche per palese violazione dell'articolo 75 della Costituzione con il quale si disciplina l'istituto referendario. La Consulta ha riconosciuto che “l'impugnato articolo 4, il quale nonostante sia intitolato ‘Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea’, detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell'abrogato articolo 23-bis”. [...] Poi prosegue ai punto 5.2.2 del considerato in diritto “La disposizione impugnata viola, quindi, il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall'articolo 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”. Pertanto, a seguito di tale sentenza si può sostenere che a livello normativo in materia di gestione dei servizi pubblici locali le lancette dell'orologio siano tornate indietro al 21 luglio scorso quando sono entrati in vigore i decreti del Presidente della Repubblica n. 113 e n. 116 i quali hanno formalmente abrogato le norme oggetto dei referendum. Dunque ad oggi per chiarire il quadro normativo sui SPL (in particolare servizio idrico integrato, gestione dei rifiuti e trasporto pubblico locale) è opportuno richiamare quanto la Corte costituzionale ha sancito nella sentenza di ammissibilità dei 1o quesito (Sentenza n. 24 del 2011 relativa al referendum n. 149 «Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione»): «Nel caso in esame, all'abrogazione dell'articolo 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte – sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato); dall'altro, conseguirebbe l'applicazione immediata nell'ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica». [...] «appare evidente che l'obiettiva ratio del quesito n. 1 va ravvisata, come sopra rilevato, nell'intento di escludere l'applicazione delle norme, contenute nell'articolo 23-bis, che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico). «In conclusione per i suddetti servizi pubblici locali la legislazione vigente è quella comunitaria, mentre per gli altri, ossia quelli esclusi dall'articolo 23-bis vale la disciplina di settore mai toccata dal referendum»;
a seguito della già citata sentenza n. 199 del 2012, della Corte costituzionale è possibile sostenere un'interpretazione della complessa normativa di risulta, in base alla quale sarebbero escluse dal patto di stabilità interno le società in house nonché le aziende speciali affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali; quest'interpretazione si fonda sul seguente ragionamento: l'articolo 4 prevedeva l'assoggettamento al patto di stabilità interno delle società cosiddette «in house», la dichiarazione d'illegittimità di tale articolo ne fa dunque decadere gli effetti anche in questo ambito; analogamente, le aziende speciali erano state assoggettate al patto di stabilità interno sulla base dell'articolo 25, comma 2, lettera a) decreto-legge n. 1 del 2012 convertito con modificazioni dalla legge n. 27 del 2012, ma la disposizione inerente al principio relativo all'assoggettamento al patto di stabilità è stata annullata dalla citata sentenza n. 199 e, quindi, anche la sua reiterazione in altra sede normativa è da ritenersi illegittima, per invalidità derivata;
inoltre la stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 325 del 2010, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 23-bis, comma 10, lettera a) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, limitatamente alla parte in cui si dava mandato al Governo di prevedere l'assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno; la questione è stata ritenuta, fondata, in quanto l'ambito di applicazione del patto di stabilità interno non attiene alla materia di competenza legislativa esclusiva statale; di conseguenza, anche alla luce di tale sentenza, il patto di stabilità non si applicherebbe a società in house ed aziende speciali affidatarie dirette di servizi pubblici locali, nonostante l'articolo 25 del decreto liberalizzazioni del Governo Monti disponga che le aziende speciali (e anche le spa a totale capitale pubblico) dal 2013 debbano essere sottoposte al patto di stabilità interno, con un decreto ministeriale da mettere a punto entro l'ottobre del 2013;
in merito alle conseguenze del patto di stabilità interno sulle scelte delle amministrazioni locali appaiono opportune alcune considerazioni ulteriori: il patto di stabilità interno è stato il principale responsabile delle politiche restrittive cui sono andati incontro i comuni e gli enti locali in questi anni; in particolare, la conseguenza più rilevante dell'intervento del patto di stabilità è stata quella di ritardare e diminuire di molto gli investimenti; con la nuova versione del patto stesso, a partire dal 2012, si prevede anche un ridimensionamento della spesa corrente, e, quindi, anche della spesa sociale; secondo uno studio di IFEL (Fondazione dell'ANCI) sulla situazione finanziaria dei Comuni, nel triennio 2008-2010 il saldo finanziario medio nazionale dei comuni è stato di 26,5 euro pro capite e ciò è stato realizzato attraverso la concomitante riduzione delle entrate e delle spese complessive, con le prime che si sono ridotte di oltre 12,5 euro e le seconde che hanno subito una contrazione decisamente più marcata, di poco superiore ai 39 euro pro capite; quest'ultimo risultato, peraltro, deriva da una crescita delle spese correnti di quasi 39 euro e da una riduzione delle spese in conto capitale di 78 euro; detto in altri termini, in questi ultimi anni i comuni hanno sostanzialmente bloccato gli investimenti e ritardato i pagamenti degli stessi e, d'ora in avanti, come già detto, sorte analoga toccherà alla spesa corrente; il mancato rispetto del patto comporta inoltre conseguenze pesanti: limitazione delle spese di parte corrente, divieto di ricorrere all'indebitamento per finanziare gli investimenti, divieto assoluto di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo; è evidente che sottoporre le aziende speciali al patto di stabilità significa, in primo luogo, estendere anche ad esse ciò che si è verificato per gli enti locali, ossia la creazione di una condizione per cui esse non saranno più in condizioni di effettuare investimenti, col rischio che, attraverso questo indebolimento strutturale ed economico delle aziende, si apra la porta in modo surrettizio ai processi di privatizzazione;
per quanto riguarda le tematiche relative al secondo quesito referendario l'articolo 21, commi 13 e 19, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, il cosiddetto «salva Italia», ha trasferito all'Autorità per l'energia elettrica il gas «le funzioni di regolazione e di controllo dei servizi idrici» con i medesimi poteri attribuiti dalla legge n. 481 del 1995, che prescrive che essa debba perseguire, nello svolgimento delle proprie funzioni, «la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell'efficienza (...) nonché adeguati livelli di qualità nei servizi (...) assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela di utenti e consumatori»;
il Dpcm 20 luglio 2012 in attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, ribadisce e specifica all'articolo 2, comma 1, le funzioni di regolazione e controllo dei servizi idrici, trasferite all'Autorità per l'energia elettrica e il gas (Aeeg), tra le quali assume un particolare rilievo come finalità la «tutela dei diritti e degli interessi degli utenti»;
l'articolo 2, comma 1, del medesimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 luglio 2012 precisa inoltre che «le funzioni di regolazione e controllo dei servizi idrici trasferite dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas sono da essa esercitate con i poteri e nel quadro dei principi, delle finalità e delle attribuzioni stabiliti dalla legge 14 novembre 1995, n. 481, in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e valutazione, nei rispetto degli indirizzi di politica generale formulati dal Parlamento e dal Governo»;
il Consiglio di Stato, investito dall'Autorità, ha emesso parere il 23 ottobre 2012, col quale si prevede, anche in seguito all'esito referendario, l'abolizione della remunerazione del capitale investito calcolato in bolletta e si invita l'Autorità per l'energia elettrica e il gas a disporre che le società di gestione dell'acqua pubblica ricalcolino le tariffe, restituendo quanto indebitamente incassato in più a partire dalla data del 21 luglio 2011 fino alla data del 31 dicembre 2011;
l'Autorità, con delibera n. 38 del 31 gennaio 2013, in ottemperanza al parere del Consiglio di Stato, ha avviato il procedimento per la restituzione, agli utenti finali, della componente tariffaria del servizio idrico integrato, relativa alla remunerazione del capitale, indebitamente versata da ciascun utente, in relazione al periodo 21 luglio 2011-31 dicembre 2011;
l'Autorità, in precedenza, in attuazione dell'articolo 21 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, con delibera n. 585 del 28 dicembre 2012, aveva fissato i criteri per l'adozione di una tariffa transitoria, nelle more dell'adozione di un nuovo metodo tariffario a regime;
il metodo tariffario transitorio trova applicazione per gli anni 2012-2013, configurandosi il 2012 come la prima annualità successiva al trasferimento della potestà tariffaria all'Autorità, in particolare dal 6 dicembre 2011, data di entrata in vigore del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, rendendo in tal modo retroattiva di un anno l'introduzione della tariffa provvisoria;
all'articolo 4 della delibera n. 585 del 28 dicembre 2012, tra le componenti di costo del servizio idrico integrato, sulle quali viene definita la nuova tariffa provvisoria, sono previsti alla lettera a) «i costi delle immobilizzazioni, intesi come la somma degli oneri finanziari, degli oneri fiscali e delle quote di restituzione dell'investimento» e alla lettera d) l’«eventuale componente di anticipazione per il finanziamento dei nuovi investimenti», oltre ai «costi operativi endogeni e di efficientamento», lettera b), i «costi operativi esogeni» lettera c). A questi costi viene poi aggiunto l'aumento automatico al tasso di inflazione;
in particolare, il riconoscimento dei cosiddetti oneri finanziari e fiscali avviene con un meccanismo di calcolo che è sostanzialmente la riproposizione della precedente remunerazione del capitale investito, abrogata con il referendum del giugno 2011 e, quindi, si configura a giudizio dei firmatari del presente atto come un'aperta violazione del suo esito,

impegna il Governo:

a promuovere l'approvazione di una normativa tesa a considerare l'acqua un diritto inviolabile alla stregua di quanto stabilito dall'articolo 2 della Costituzione, riconoscendole la peculiarità di «bene comune» e di diritto umano universale non assoggettabile a meccanismi di mercato;
ad affermare la proprietà e la gestione pubblica del servizio idrico, il cui esercizio dovrà essere ispirato a criteri di equità, solidarietà e rispetto degli equilibri ecologici;
ad attuare l'esito referendario, seguendo le indicazioni della proposta di legge di iniziativa popolare «Principi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque e disposizione per la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato», depositata dal Forum italiano dei movimenti dell'acqua nel 2007 relativamente alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato come unica soluzione possibile per dare piena attuazione ai referendum del 2011;
ad assumere iniziative normative per riportare, nell'ambito delle competenze del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, la fissazione dei criteri e del metodo tariffario relativo al servizio idrico, togliendole quindi all'autorità per l'energia elettrica e il gas;
ad assumere le iniziative di competenza per costruire un nuovo metodo tariffario che recepisca integralmente l'esito del referendum popolare del 12-13 giugno 2011, con particolare riferimento all'eliminazione dalla tariffa di qualsiasi voce di costo riconducibile alla remunerazione del capitale investito e al rimborso ai cittadini delle quote indebitamente percepite;
a promuovere tutti gli interventi necessari per l'immediata e duratura soluzione della grave contaminazione delle acque potabili di molti comuni italiani, in particolare a causa della concentrazione di arsenico, floruri e vanadio;
a programmare investimenti pubblici volti a favorire i processi di ripubblicizzazione del servizio idrico integrato, investimenti pubblici che dovranno essere posti come alternativa escludente della remunerazione del capitale dalle tariffe come richiesto dal secondo quesito referendario, in modo da impedire che con i fondi pubblici vengano realizzati gli investimenti fondamentali e che la remunerazione finisca nelle casse dei gestori privati;
ad assumere iniziative per riformulare la normativa di settore, al fine di: ripubblicizzare la gestione del servizio idrico e garantire la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori; premiare l'efficienza dei gestori del servizio idrico e a colpire l'inefficienza; prevedere, con legge quadro, la fissazione di nuovi e più adeguati canoni di derivazione per il prelevamento dell'acqua pubblica; garantire la riduzione, fino al completo azzeramento in tempi congrui, degli sprechi nel trasporto dell'acqua potabile; adeguare agli standard europei i sistemi di depurazione e gli impianti di potabilizzazione;
ad assumere iniziative per garantire maggiore libertà di scelta agli enti locali ai fini della realizzazione degli obiettivi citati in premessa e nella fissazione di politiche di entrate e di spesa anche intervenendo sul patto di stabilità ed escludendo le aziende speciali e le spa a totale capitale pubblico;
ad individuare strumenti e risorse con l'obiettivo di finanziare, in modo agevolato, gli investimenti nei servizi pubblici essenziali.
(7-00036) «Daga, Zaratti, Agostinelli, Alberti, Artini, Baldassarre, Barbanti, Baroni, Basilio, Battelli, Bechis, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Nicola Bianchi, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cancelleri, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Catalano, Cecconi, Chimienti, Ciprini, Colletti, Colonnese, Cominardi, Corda, Cozzolino, Crippa, Currò, Da Villa, Dadone, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Lorenzis, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Dell'Orco, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Di Vita, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Gallinella, Luigi Gallo, Silvia Giordano, Grande, Grillo, Cristian Iannuzzi, L'Abbate, Liuzzi, Lombardi, Lorefice, Lupo, Mannino, Mantero, Marzana, Micillo, Mucci, Nesci, Nuti, Parentela, Pellegrino, Pesco, Petraroli, Pinna, Pisano, Prodani, Rizzetto, Rizzo, Paolo Nicolò Romano, Rostellato, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Segoni, Sibilia, Sorial, Spadoni, Spessotto, Tacconi, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Tripiedi, Turco, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zaccagnini, Zan, Zolezzi».