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Atto a cui si riferisce:
C.1/00791 premesso che: l'ultima indagine Istat del 2014 sulla situazione delle famiglie italiane registra un sistema di welfare costretto a fronteggiare numerosi elementi di criticità,...



Atto Camera

Mozione 1-00791presentato daCARFAGNA Maria Rosariatesto diLunedì 13 aprile 2015, seduta n. 407

La Camera,
premesso che:
l'ultima indagine Istat del 2014 sulla situazione delle famiglie italiane registra un sistema di welfare costretto a fronteggiare numerosi elementi di criticità, anche in conseguenza della crisi economica che ha attraversato il nostro Paese. In un contesto di riduzione dei fondi destinati alle politiche sociali, da un lato, e di crescenti condizioni di disagio economico delle famiglie, dall'altro, si dipanano gli effetti delle trasformazioni demografiche e sociali, caratterizzate dall'accelerazione del processo di invecchiamento della popolazione e da mutamenti della struttura delle famiglie;
in particolare, l'indagine Istat conferma quanto sia bassa la propensione ad avere figli. Mentre cresce la speranza di vita alla nascita, giunta a 79,6 anni per gli uomini e a 84,4 anni per le donne (rispettivamente superiore di 2,1 anni e 1,3 anni alla media dell'Unione europea del 2012), allo stesso tempo il nostro Paese è caratterizzato dal persistere di livelli molto bassi di fecondità, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media dell'Unione europea 1,58);
sono, quindi, in calo le nascite, per la prima volta anche fra le madri straniere, che finora hanno tenuto alto il livello demografico del nostro Paese. Cinquemila neonati in meno nel 2014 rispetto al 2013. Si legge nel rapporto che il tasso di natalità è «insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale». La popolazione residente ha raggiunto i 60 milioni 808 mila residenti (compresi 5 milioni 73 mila stranieri) al 1o gennaio 2015, mentre i cittadini italiani continuano a scendere – come ormai da dieci anni – e hanno raggiunto i 55,7 milioni (-125 mila rispetto al 2013);
la vita media in continuo aumento, da un lato, e il regime di persistente bassa fecondità, dall'altro, hanno fatto conquistare a più riprese all'Italia il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1o gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone di 65 anni e oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni;
questa misura rappresenta il «debito demografico» contratto da un Paese nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza. Trent'anni di tale evoluzione demografica consegnano un Paese profondamente trasformato nella sua struttura e nelle sue dinamiche sociali e demografiche;
forse il dato più allarmante registrato dall'indagine Istat 2014 è il seguente: l'Italia occupa la penultima posizione tra i Paesi europei per le risorse dedicate alle famiglie, per le quali lo stanziamento ammonta al 4,8 per cento della spesa totale erogata dallo Stato. Senza voler arrivare ai dati dei Paesi del Nord Europa, è chiaro a tutti che la coincidenza tra politiche per la famiglia e politiche a favore della natalità è un nodo fondamentale che non viene affrontato da troppo tempo dal Governo italiano;
eppure molti sarebbero i fronti sui quali agire per favorire natalità e famiglia: parole come servizi per l'infanzia, esclusione sociale, povertà minorile, abbandono scolastico, disoccupazione, non solo stanno attraversando negli ultimi anni un periodo buio senza risposte, ma di fatto scoraggiano le giovani coppie italiane a creare una famiglia;
infatti il Governo attuale non può pensare di continuare a «vivere» di rendita su quanto fatto dai Governi precedenti per le politiche familiari. Riconoscendo che nella legge di stabilità per il 2015, all'articolo 1, comma 131, si istituisce nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze un fondo per interventi a favore della famiglia di 112 milioni di euro per il 2015, è chiaro che la carenza non risiede solo nei fondi, ma sul loro impegno e sul feedback ricevuto nell'impiego di spesa;
anche se negli ultimi anni il sistema si era potenziato grazie al piano straordinario di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, varato nel 2007 e sostenuto con 446 milioni di euro, di cui il 42 per cento destinato alle regioni meridionali a scopo perequativo, secondo diversi osservatori, tuttavia, la spinta propulsiva di tale piano si sarebbe ormai sostanzialmente esaurita;
manca in Italia – a oltre 40 anni dalla legge istitutiva dei nidi d'infanzia, la n. 1044 del 1971 – un quadro di riforma organica dei servizi 0-6 anni, che ne identifichi i requisiti fondamentali, mettendo al centro i diritti dei bambini alla cura e all'educazione. Come scritto dal Gruppo nazionale nidi e infanzia del 2012, «la crisi ha già colpito e rischia di colpire ulteriormente la qualità di molti servizi e anche le eccellenze rischiano seriamente di non reggere di fronte alla prospettiva di una indiscriminata caduta di attenzione politica». Mettere in crisi il sistema dei servizi per l'infanzia vuol dire mettere in crisi la donna che lavora e che, fino all'ingresso dei figli alla scuola primaria, dovrà barcamenarsi per mantenere un lavoro o, come le statistiche dicono, sarà costretta a rinunciarvi;
gli obiettivi fissati a Lisbona prevedono che il 33 per cento dei minori al di sotto dei 3 anni di età possa usufruire del servizio di asilo nido. Dai dati risulta che in media nel nostro Paese solo il 18,7 per cento dei bambini di 0-2 anni frequenta un asilo nido pubblico o privato;
l'offerta di asili nido e di servizi integrativi per la prima infanzia mostra ampi divari territoriali: infatti, i dati evidenziano differenze estremamente rilevanti. Tra le regioni che vedono una situazione sfavorevole in termini di percentuale di comuni coperti la Calabria spicca con il valore più basso (13 per cento). I bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5 per cento al Sud al 17,1 per cento al Nord-Est, mentre la percentuale dei comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 24,3 per cento al Sud all'82,6 per cento al Nord-Est. Le regioni del Sud in cui si osservano le percentuali più basse di bambini che usufruiscono dei servizi all'infanzia sono la Campania (1,9 per cento) e la Calabria (2,4 per cento). Spiccano, invece, i valori di questo indicatore relativo alla presa in carico degli utenti, per l'Emilia-Romagna (24,4 per cento), la provincia autonoma di Trento (19,5 per cento) e l'Umbria (19,1). Le regioni che registrano valori più alti per l'indice di copertura del servizio sono il Friuli Venezia Giulia, l'Emilia-Romagna e la Valle d'Aosta;
i comuni svolgono un ruolo centrale nella gestione della rete di interventi e servizi sociali sul territorio che vengono destinati al sostegno alle famiglie per i bisogni connessi alla crescita dei figli, all'assistenza agli anziani e alle persone con disabilità, o al contrasto del disagio legato alla povertà e all'emarginazione. Le capacità di spesa dei comuni, del resto, sono fortemente condizionate dai vincoli posti dal patto di stabilità interno, dalla crisi economica e dalle riduzioni dei trasferimenti statali destinati a finanziare le politiche sociali: tutti fattori ancora senza risposta;
non solo: come evidenziato in altri atti d'indirizzo parlamentare, in Italia il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non fosse influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Investire nelle politiche familiari significa, pertanto, investire sulla qualità della struttura sociale e, di conseguenza, sul futuro stesso della società;
accade poi che quanto di buono era stato fatto è, invece, smantellato dalle ultime posizioni governative. Basti pensare al seguente esempio: il decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 185, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 6 luglio 2000, n. 156, in attuazione dell'articolo 45, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144, prevedeva incentivi per l'autoimprenditorialità e l'autoimpiego, al fine di favorire l'ampliamento della base produttiva e occupazionale, nonché lo sviluppo di una nuova imprenditorialità nelle aree economicamente svantaggiate del Paese. La misura è stata il principale strumento di sostegno alla realizzazione e all'avvio di piccole attività imprenditoriali da parte di disoccupati o persone in cerca di prima occupazione, per lo più giovani e donne. In attuazione del citato decreto legislativo sono stati erogati nell'arco temporale 2000-2012 incentivi per complessivi circa 4 miliardi di euro, che hanno consentito l'avvio di nuove iniziative imprenditoriali, con conseguente creazione di un significativo numero di posti di lavoro per un totale di circa 180 mila nuovi occupati, oltre all'occupazione aggiuntiva creata dall'indotto di tali attività. In particolare, una percentuale significativa degli aspiranti beneficiari sono stati donne e giovani (rispettivamente il 44 per cento e il 51 per cento del totale) e non c’è un solo comune del Sud Italia da cui non risulti pervenuta almeno una domanda, con effetti enormi sull'occupazione, senza contare gli enormi benefici nell'indotto. Eppure, il Governo ha deciso di non rifinanziare la misura di autoimpiego, togliendo la possibilità a molti giovani lavoratori di aprire un'attività a sostegno della propria famiglia;
questo sembra ancor più paradossale se si pensa che in Italia giacciono inutilizzati, dal 2007, circa 20 miliardi di euro di fondi europei destinati allo sviluppo dell'occupazione giovanile,

impegna il Governo:

a promuovere l'implementazione delle risorse destinate al fondo nazionale delle politiche sociali, verificandone l'equa ripartizione, ponendo attenzione alla reale ricaduta che tali risorse hanno sulle famiglie, assicurando che in tutti i comuni italiani vi sia la medesima accessibilità ai servizi e realizzando una rete di monitoraggio su quanto erogato e quanto investito relativamente a ciascun ente locale;
a realizzare un'indagine ministeriale che quantifichi puntualmente l'effettiva domanda di servizi di asili nido, in modo tale da predisporre una programmazione di nuovi posti, in funzione della richiesta effettiva e non soltanto in base al numero complessivo dei bambini;
ad intervenire con un sistema organico di politiche economiche, al fine di escludere dal patto di stabilità gli interventi pubblici relativi al funzionamento dei servizi per la famiglia e istituire meccanismi stabili di finanziamento pubblico, che prevedano la compartecipazione dei diversi livelli di governo alla spesa per i servizi per l'infanzia e per le scuole dell'infanzia.
(1-00791) «Carfagna, Centemero, Palese, Prestigiacomo, Milanato, Calabria, Polverini».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)