Testo RISOLUZIONE IN ASSEMBLEA
Atto a cui si riferisce:
S.6/00109 Il Senato,
vista la "Relazione intermedia della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al...
Atto Senato
Risoluzione in Assemblea 6-00109 presentata da GIOVANNI BAROZZINO
giovedì 21 maggio 2015, seduta n.455
Respinta
Il Senato,
vista la "Relazione intermedia della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro";
premesso che:
secondo stime dell'Organizzazione internazionale del lavoro ogni anno muoiono nel mondo 2 milioni e 350.000 lavoratori, di cui più di 300.000 per infortuni e gli altri 2 milioni per malattie professionali, circa 5.500 al giorno; in Italia, al 2 aprile ultimo scorso i morti sul lavoro dall'inizio dell'anno sono stati 129 di cui il 7,6 per cento nell'industria, il 20 per cento nell'edilizia, il 5,9 per cento nell'autotrasporto, il 22 per cento nell'agricoltura; gli infortuni mortali riconosciuti nel 2012, ultimo dato ufficiale, sono stati 826 contro i 1.201 del 2005 e di cui il 25 per cento in itinere, mentre gli infortuni denunciati nel 2013 sono stati 694.680 contro i 964.000 del 2008. Sembrerebbero dati rassicuranti se non si confrontassero non solo con la riduzione delle ore lavorate e con la riduzione degli occupati a causa della crisi ma anche col fatto che questi dati INAIL non rappresentano la realtà effettiva del lavoro in Italia in quanto registrano solo ciò che avviene tra i lavoratori per i quali vi è l'obbligo assicurativo dell'INAIL;
non si sa assolutamente nulla di ciò che avviene tra i quasi 5 milioni di lavoratori, perlopiù migranti, che lavorano in nero, o degli infortuni domestici che colpiscono prevalentemente le donne e che non vengono censiti, o per quelle centinaia di migliaia circa di lavoratori con partite IVA che nascondono un lavoro continuativo per i quali non vi è l'obbligo assicurativo dell'INAIL. La realtà degli incidenti sul lavoro è dunque ben più drammatica di quel che appare, non è assolutamente in via di riduzione e riconferma come drammaticamente vera la definizione che nel 1989 dette e il Comitato misto OIL-OMS per lo studio epidemiologico dell'infortunio sul lavoro "una conseguenza statisticamente prevedibile del fallimento tecnico sociale del lavoro";
sono circa 15.000 le persone che ogni anno perdono la vita in Europa a causa di patologie amianto correlate: l'amianto è responsabile di circa la metà di tutte le morti per cancro sviluppato sul posto di lavoro; secondo le ultime stime, infatti, in Europa i decessi per mesotelioma costano più di 1,5 miliardi di euro all'anno;
la cancellazione dei diritti dei lavoratori è l'anticamera dell'infortunio, e dunque della mancata prevenzione che comporta, oltre alle sofferenze inferte ai lavoratori e alle loro famiglie, anche un costo economico rilevante: è stato calcolato che solo prendendo a riferimento l'ultimo decennio si sia avuto un costo pari a 50 miliardi di euro a carico sia delle imprese che della collettività;
il permanere della crisi economica, l'incapacità dei Governi di mettere in campo interventi strutturali capaci di riattivare la ripresa della produzione e dei consumi all'interno di un modello economico, finanziario, industriale e ambientale alternativo a quello che ci ha condotto a questa crisi devastante (sia per l'assenza del lavoro ovvero per la presenza di un lavoro sempre più dequalificato, con tutele minime), si abbattono anche sulla condizione di salute delle persone, sui lavoratori, gli anziani, le donne, favorendo lo sviluppo di nuove e vecchie patologie e l'estendersi di un diffuso e consistente disagio psichico, soprattutto tra chi ha perso il lavoro o chi vive una condizione lavorativa precaria o di chi è obbligato a un lavoro con elevati turni e orari oltre la norma;
si sta sempre più imponendo, in modo pervasivo, il toyotismo come modello di organizzazione del lavoro, con l'obiettivo di ridurre i costi e di innalzare la produttività, calcolando l'insieme del processo produttivo, non solo la velocità, riducendo o cancellando le pause e eliminando quel tempo che esiste nell'attività lavorativa, che non produce valore, ma che è anche tempo di recupero per il lavoratore, peggiorando così le condizioni della salute psicofisica dei lavoratori che si cerca, tra l'altro, di camuffare con gli ipocriti richiami del valore delle risorse umane e della partecipazione dei lavoratori ai destini dell'impresa;
l'introduzione della normativa del Jobs Act ridisegna i sistemi di relazioni e poteri tra lavoratori e impresa, tra lavoratori e lavoratori, tra lavoratori e rappresentanza sindacale: la prima trasformazione profonda riguarda la possibilità e l'agibilità dei lavoratori di esprimere, con la partecipazione, il proprio punto di vista su aspetti critici della gestione della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro; tale scambio, anche conflittuale, tra azienda e lavoratori, ha contribuito nel tempo a migliorare gli aspetti critici della salute e della sicurezza; con la nuova normativa, qualsiasi processo partecipativo sarà di fatto impedito: il clima di ricatto che si instaurerà nelle aziende, con la sottomissione e l'adattamento passivo cui seguirà ogni richiesta della gerarchia di prossimità, inciderà in senso drammaticamente negativo sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori; si impedirà di fatto qualsiasi processo di effettiva partecipazione che vorrà dire anche non iscriversi più al sindacato, non scioperare, non partecipare all'assemblea, o parlare con il proprio RLS, oppure far presente al proprio capo le criticità esìstenti nella propria postazione; quello che è avvenuto esattamente in FCA da Pomigliano in poi ne è un esempio lampante;
il diritto ad essere liberi in azienda è cancellato per tutti i lavoratori, non solo per i nuovi assunti ma anche per tutti gli altri: sia per il giovane lavoratore assunto oggi con l'incentivo degli sgravi fiscali e che potrebbe essere assunto definitivamente fra tre anni, sia per il lavoratore mediamente anziano, anche se di grande esperienza e professionalità, che dovrà adattarsi passivamente agli ordini dei capi se vorrà tentare di evitare di essere ritenuto inutile dall'azienda perché non ce la fa più ad assecondare gli obiettivi di produttività individuati: tale lavoratore ora potrà essere, all'interno di un processo di riorganizzazione, scaricato attraverso il demansionamento, una condizione degradante e avvilente, il tutto senza l'obbligo per l'azienda di procedere alla formazione alla nuova mansione e cosi esponendolo a maggiori rischi riguardo alla sicurezza; oppure l'impresa può anche cercare di liberarsi per sempre di un lavoratore di esperienza ma anziano, utilizzando strumentalmente le norme che tutelano la salute dei lavoratori, con l'accertamento dell'idoneità alla mansione svolto dal medico competente, il più delle volte compiacente ai desideri dell'impresa. Il lavoratore anziano, con una mansione acquisita magari trent'anni prima, risulterà quasi sicuramente inidoneo, totalmente o parzialmente, ad esempio, per patologie agli arti superiori o per riduzione della capacità visiva, tale da poter giustificare una impossibile ricollocazione in una altra mansione, facendo scattare così il licenziamento senza alcuna possibilità di reintegra;
con l'abrogazione dell'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori si dà la facoltà all'impresa di controllare con strumenti elettronici la prestazione del singolo lavoratore, una vigilanza che avverrà con il videocontrollo ma anche con la generalizzazione dell'uso delle cosiddette "tecnologie indossabili". Gli ordini al lavoratore arriveranno su un display collocato sull'orologio che è obbligato a tenere al polso. Lo smartwatch permetterà così al datore di lavoro non solo di assegnare compiti secondo frequenze e velocità discrezionalmente decise, ma anche di controllare se il lavoratore sta facendo o meno una pausa autorizzata poiché nell'orologio è collocato un geolocalizzatore che permette di conoscere il luogo ove si trova esattamente lo stesso lavoratore, come già oggi in parte avviene con l'uso degli smartphone che molte aziende stanno imponendo a tanti lavoratori perlopiù manutentori e installatori. Il microchip che Fincantieri intenderebbe collocare nelle scarpe antinfortunistiche dei propri dipendenti ha la stessa finalità, il tutto in spregio della raccomandazione del Consiglio d'Europa che fa divieto dell'uso sui lavoratori di questi strumenti in nome del principio liberale del rispetto della persona;
la prevenzione sarà altresì impedita dalle norme che semplificano le procedure prevenzionali a carico delle imprese, di fatto riducendo le loro responsabilità e nel contempo riducendo ulteriormente le sanzioni per le imprese inadempienti in materia di sicurezza, precludendo agli RLS la realizzazione di una efficace tutela della salute dei lavoratori attraverso una vera prevenzione dai rischi;
ma non solo gli elevati indici infortunistici sono la rappresentazione di una scarsa qualità del lavoro e dell'inesistenza di una effettiva prevenzione ma lo sono anche l'insorgere di diffuse patologie conseguenza del lavoro. Mentre non diminuiscono le patologie tradizionali del lavoro, quale l'ipoacusia, a causa di ambienti lavorativi sempre troppo rumorosi, stanno aumentando in tutta Europa e anche in Italia le patologie tumorali professionali, anche con una rilevante mortalità:
- per la conseguenza dell'uso dell'amianto, a cui sono stati esposti ancora troppi lavoratori per molti anni anche dopo il 1992;
- per la estesa presenza nei processi industriali di sostanze chimiche, come i solventi, le colle, le vernici, gli olii, i coloranti, i toner e di cui irresponsabilmente la maggior parte delle imprese non informano i lavoratori, portandoli a conoscenza delle schede tecniche dove sono evidenziati i rischi nell'uso;
- per la presenza di attività lavorative non sufficientemente protette, come per esempio i vapori e i fumi prodotti nella saldatura o per la presenza come residui in tanti processi industriali di diossine e di idrocarburi policiclici nebulizzati nell'aria;
- per l'estendersi di modalità lavorative interessate sempre più da turni notturni, in particolare per le lavoratrici che, come le ricerche cliniche hanno evidenziato da tempo, sono maggiormente esposte all'insorgere dei tumori al seno per gli squilibri ormonali come conseguenza dell'alterazione del ciclo veglia-sonno. Si prevede che da qui ai prossimi anni un uomo su due e una donna su tre saranno interessati da patologie tumorali in conseguenza dei loro stili di vita, delle loro abitudini alimentari, degli ambienti dove si articola la loro vita, per la qualità dell'aria, per le caratteristiche dell'acqua potabile e soprattutto per gli ambienti e le modalità lavorative;
accanto a queste patologie derivanti perlopiù dal rischio chimico, altre patologie in costante aumento sono quelle muscolo-scheletriche e cioè tunnel carpale, sovraccarico delle strutture tendinee e peritendinee, patologie a carico del rachide. Secondo Eurostat queste patologie rappresentano oramai il 55 per cento di tutte le malattie professionali riconosciute in Europa. Istat in Italia ha censito nel 2012 oltre 31.000 casi denunciati, cioè quasi il 70 per cento di tutta la casistica delle patologie professionali trattate dall'INAIL;
sempre nel 2012 tra le malattie professionali tabellate, cioè con un nesso accertato con l'attività lavorativa, le patologie muscolo scheletriche rappresentavano il 43 per cento e, sulle 70 per cento riconosciute, ben il 50 per cento sono state indennizzate. Sembrerebbero un numero elevato ma di fatto rappresentano solo la punta dell'iceberg, che non emerge per la sostanziale ignavia dei medici di base che non fanno denunce di malattia .professionale, così come sostanzialmente non lo fa l'INAIL, che tende anzi a non riconoscere le malattie professionali anche a causa di un curioso meccanismo salariale premiante per i propri dipendenti e legato alla riduzione delle malattie professionali riconosciute o, ancora, per il comportamento "doloso" dei medici competenti che pur accertando le patologie non fanno le denunce;
considerato che:
per una reale prevenzione nei luoghi di lavoro andrebbe previsto:
a) un cambiamento del modo di intendere la prevenzione nei luoghi di lavoro. Generalmente si parla di prevenzione a proposito di danni accertati o, al più, di valutazione di rischi presenti nei luoghi di lavoro. Occorre pensare alla prevenzione come prevenzione primaria, cioè pensare a pre-venire i rischi, a eliminarli prima che siano attivati, o al limite, al loro insorgere. Altrimenti si prevengono, ben che vada, i danni. Di solito ci si trova di fronte a danni conclamati: malattie, incidenti, morti. Troppo spesso si sostiene - anche in documenti di istituzioni nazionali preposte alla salute e alla sicurezza - che la prevenzione primaria sarebbe una "utopia", che non esiste assenza di rischio, che quindi si debba praticare la "gestione del rischio" (risk mangement).
Eppure, nell'atto costitutivo della medicina del lavoro come disciplina autonoma, il 20 novembre 1902, il suo fondatore Luigi Devoto ha indicato il lavoro come "vero paziente". È quindi la prevenzione, che nel suo senso compiuto deve essere perseguita nel lavoro. Per prevenire i rischi, evitare che si manifestino, combatterli alla fonte, occorre analizzare le situazioni di lavoro, e modificare le scelte che le configurano;
b) un cambiamento radicale di approccio e di conoscenze. Innanzitutto: ogni sorta di rischio in una situazione di lavoro non può aver origine che dalle scelte che la progettano e la pongono in essere, contro ogni pretesa di vincoli o determinanti esterne. E tali scelte sono sempre modificabili. In secondo luogo: realmente competenti di un lavoro sono i lavoratori che lo svolgono, non un ufficio tempi e metodi o un ricercatore di una qualsiasi disciplina che guarda quel lavoro dall'esterno. In terzo luogo: se il lavoratore non può essere privato delle competenze riguardanti i contenuti del suo lavoro, è però stato spossessato delle competenze riguardanti la strutturazione del suo lavoro. Serve dunque una rivoluzione di approccio e di conoscenze: l'analisi delle situazioni di lavoro deve avere come protagonisti i lavoratori stessi e ciò è possibile se si permette ai lavoratori di-riappropriarsi delle conoscenze utili all'interpretazione delle scelte di strutturazione del loro lavoro, perché l'azione di prevenzione non ostacola affatto i risultati produttivi, come spesso sostengono senza fondamento i datori di lavoro;
la direttiva 89/391/CEE, detta "direttiva quadro", prescrive la prevenzione intesa come primaria, cioè rivolta a evitare i rischi e a combatterli alla radice, prima che si manifestino nei luoghi di lavoro; generale, cioè riguardante l'intera situazione di lavoro; programmata, cioè concepita anticipatamente e in termini generali; integrata nella concezione delle situazioni di lavoro. Tale indirizzo implica un obbligo di analisi del lavoro, una valutazione generale ed esaustiva, con il pieno coinvolgimento dei lavoratori, fondata oggettivamente su criteri documentati, di forma iterativa, rivolta al miglioramento continuo delle condizioni di lavoro.
Ma la legislazione attuale in tema di "tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro" disattende totalmente queste prescrizioni;
c) il cambiamento delle norme ora vigenti, che si dimostrano inadeguate al loro compito. Il decreto legisativo n. 81 del 2008 afferma nell'articolo 1 la propria "conformità" con il dettato costituzionale, e il proprio "rispetto delle normative comunitarie", ma di ciò si può fortemente dubitare con una semplice lettura del testo. Quando il decreto parla di rischi (ad esempio agli articoli 9, 18, 25, 26, 28, 32, 34, 36, 41, 44) si riferisce solo a "rischi presenti" o "esistenti", all'"esposizione ai rischi", alla "gestione dei rischi". Non v'è alcuna traccia di prescrizione di evitare i rischi. La "valutazione dei rischi" (presenti) è affidata a "procedure" elaborate dalla "Commissione consultiva per la salute e la sicurezza sul lavoro", a "linee guida" indicate dall'ISPESL (confluito nell'INAIL), a "buone prassi": cioè sempre procedure, il rispetto delle quali assolverebbe da ogni altra responsabilità. Ma le stesse procedure possono essere aggirate o quanto meno liberamente interpretate, per espressa disposizione legislativa. Ciò appare dai possibili effetti dell'articolo 18, comma 1, del decreto legisativo n. 106 del 2009 che modifica l'articolo 28, comma 2, del decreto legisativo n. 81 del 2008, riguardante la valutazione dei rischi. La nuova formulazione recita che "la scelta dei criteri è rimessa al datore di lavoro". Il datore di lavoro è pertanto libero di decidere in merito alla valutazione dei rischi, attestandone egli stesso la validità;
il riferimento istituzionale nel campo della salute deve rimanere la riforma sanitaria del 1978 con la legge n. 833 del 1978 che considera la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro come una delle azioni fondamentali per la più generale prevenzione dei rischi per la salute dei cittadini e come tale la pone tra i compiti essenziali del SSN, individuando le azioni per il mantenimento di una buona salute dei lavoratori come risorsa anche per la produzione, piuttosto che un costo improduttivo;
inoltre:
secondo quanto anticipato da organi di stampa (Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2015) nella nuova bozza dello "Schema di decreto legislativo recante disposizioni per la razionalizzazione e la semplificazione dell'attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183" non si prevede più l'Agenzia unica per le ispezioni del lavoro ma l'Ispettorato nazionale del lavoro: ogni valutazione di merito è quindi rinviata all'atto di emanazione dello schema;
nelle Regioni si registra la presenza di un ispettore ogni 1500/2000 imprese e, con tali previsioni, si riconfermerebbe che la possibilità di una ispezione a sorpresa in una azienda, tenuto conto degli attuali organici e del numero delle imprese italiane, quasi 3,5 milioni, possa avvenire una volta ogni 22 anni, si auspica che il nuovo schema di decreto sulle attività ispettive preveda quanto meno un incremento della dotazione organica,
impegna il Governo:
a capovolgere il paradigma su cui si basa la normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, applicando la prevenzione primaria, quindi la prevenzione del rischio e non solo la gestione del rischio stesso;
a vigilare sugli abusi che la nuova normativa in materia di lavoro favorisce, in particolare si deve affrontare immediatamente il problema dei lavoratori inidonei iniziando da quelli anziani, attivando preventivamente una procedura che veda il coinvolgimento della intera RSU (Rappresentanza sindacale unitaria), del RSPP (Responsabile del servizio di protezione e prevenzione), del medico competente, tale da poter individuare una lista di compiti e posti di lavoro potenzialmente adatti a soggetti patologici, partendo dall'esempio tedesco ove è stato collocato a 58 anni il limite d'età per operare su linee vincolate: si possono individuare sbarramenti simili, sapendo che per un soggetto con limitazioni le postazioni adatte devono prevedere un adeguato tempo di recupero, un limitato uso della forza, movimenti e posture che non comportino un elevato impegno delle articolazioni;
a considerare fondamentale nella tutela della salute la formazione, la crescita professionale, l'elevazione del livello di studio individuale, garantendo per tutto l'arco della vita la possibilità di rientrare nel sistema dell'istruzione (150 ore) individuando nelle risorse dei fondi interprofessionali utili strumenti che possano essere utilizzati anche individualmente per sviluppare le competenze specifiche funzionali allo sviluppo professionale e degli stili di vita;
a confermare, a prescindere dalla struttura che sostituirà l'Agenzia, la centralità e il ruolo dei servizi PSAL (Prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro) all'interno dei dipartimenti di prevenzione delle ASL, dove si possono implementare e valorizzare le opportune sinergie con gli altri servizi, ricostruendo gli organici mancanti, migliorando le capacità di prevenzione e la professionalità degli operatori, finanziando la formazione degli stessi e le attività con i proventi delle sanzioni comminate alle imprese;
in relazione al funzionamento del SINP (Sistema informativo nazionale di prevenzione) sarebbe utile, come proposto dalla Relazione in oggetto, l'attivazione di un canale di comunicazione diretta con i medici competenti, con i RSPP e con l'INAIL, per l'implementazione in tempo reale dei dati sugli infortuni e sulle malattie professionali, includendo, inderogabilmente, le RLS tra le figure cui possono accedere al sistema informativo;
nel dettaglio: a sopprimere la previsione secondo cui il medico competente dell'azienda può essere un dipendente del datore di lavoro, al fine di sottrarre il medico dal rapporto gerarchico con il datore di lavoro; a introdurre l'obbligo del pronto intervento sanitario nel corso di tutto il ciclo lavorativo e la presenza del medico su tutti i turni lavorativi, anche notturni; a inserire l'obbligo per il datore di lavoro di ricollocare il lavoratore con ridotte capacità lavorative; a estendere la normativa in materia di movimentazione manuale dei carichi che comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari, anche ai segmenti articolari degli arti superiori; a non cancellare, attraverso la semplificazione degli adempimenti documentali il DUVRI (Documento unico di valutazione dei rischi interferenti), documento fondamentale per prevenire gli incidenti sul lavoro; a sopprimere il meccanismo salariale premiente per i dipendenti INAIL legato alla riduzione delle malattie professionali riconosciute;
a abrogare tutta la normativa di riferimento nell'ambito del cosiddetto "Jobs Act".
(6-00109)
BAROZZINO, DE PETRIS, BENCINI, CERVELLINI, DE CRISTOFARO, PETRAGLIA, STEFANO, URAS, DE PIN, MASTRANGELI, CAMPANELLA, BOCCHINO, ORELLANA, BIGNAMI, MOLINARI.