• C. 3272-420-2846-2922-2924-2931-2942-A-bis EPUB FICO Roberto, Relatore di minoranza

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Atto a cui si riferisce:
C.2846 Disciplina e organizzazione del servizio pubblico generale radiotelevisivo


Frontespizio Relazione
Testo senza riferimenti normativi
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 3272-420-2846-2922-2924-2931-2942-A-bis


DISEGNO DI LEGGE
n. 3272
APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA
il 31 luglio 2015 (v. stampato Senato n. 1880)
presentato dal ministro dello sviluppo economico
(GUIDI)
di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
Riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo
Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica il 3 agosto 2015
e
PROPOSTE DI LEGGE
n. 420, d'iniziativa dei deputati
CAPARINI, GIANLUCA PINI, GIOVANNI FAVA, MOLTENI, FEDRIGA, MATTEO BRAGANTINI, GRIMOLDI, ALLASIA, BORGHESI, BUSIN, CAON, MARCOLIN, PRATAVIERA, RONDINI
Norme per la riorganizzazione del sistema pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, nonché per la dismissione della partecipazione dello Stato nel capitale della società RAI-Radiotelevisione italiana Spa
Presentata il 21 marzo 2013
n. 2846, d'iniziativa del deputato ANZALDI
Disciplina e organizzazione del servizio pubblico generale radiotelevisivo
Presentata il 26 gennaio 2015
n. 2922, d'iniziativa dei deputati
FICO, NESCI, LIUZZI, VILLAROSA, DADONE, BUSINAROLO, CRIPPA, SIBILIA, SILVIA GIORDANO, CASO, AGOSTINELLI, ALBERTI, BARONI, BASILIO, BATTELLI, BENEDETTI, MASSIMILIANO BERNINI, PAOLO BERNINI, NICOLA BIANCHI, BONAFEDE, BRESCIA, BRUGNEROTTO, BUSTO, CANCELLERI, CARIELLO, CARINELLI, CASTELLI, CECCONI, CHIMIENTI, CIPRINI, COLLETTI, COLONNESE, COMINARDI, CORDA, COZZOLINO, DA VILLA, DAGA, DALL'OSSO, D'AMBROSIO, DE LORENZIS, DE ROSA, DEL GROSSO, DELLA VALLE, DELL'ORCO, DI BATTISTA, DI BENEDETTO, LUIGI DI MAIO, MANLIO DI STEFANO, DI VITA, DIENI, D'INCÀ, D'UVA, FANTINATI, FERRARESI, FRACCARO, FRUSONE, GAGNARLI, GALLINELLA, LUIGI GALLO, GRANDE, GRILLO, L'ABBATE, LOMBARDI, LOREFICE, LUPO, MANNINO, MANTERO, MARZANA, MICILLO, NUTI, PARENTELA, PESCO, PETRAROLI, PISANO, RIZZO, PAOLO NICOLÒ ROMANO, RUOCCO, SARTI, SCAGLIUSI, SORIAL, SPADONI, SPESSOTTO, TERZONI, TOFALO, TONINELLI, TRIPIEDI, VACCA, SIMONE VALENTE, VALLASCAS, VIGNAROLI, ZOLEZZI
Modifiche alla legge 31 luglio 1997, n. 249, e al testo unico di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, e altre disposizioni in materia di composizione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di organizzazione della società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo e di vigilanza sullo svolgimento del medesimo servizio
Presentata il 2 marzo 2015
n. 2924, d'iniziativa del deputato MARAZZITI
Disposizioni in materia di organizzazione della società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, abolizione del canone di abbonamento alle radioaudizioni e alla televisione e istituzione del contributo per la pubblica editoria e il sistema nazionale delle radio-telecomunicazioni, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo
Presentata il 3 marzo 2015
n. 2931, d'iniziativa dei deputati
FRATOIANNI, CIVATI, SCOTTO, ZAMPA, PANNARALE, PASTORINO, PATRIZIA MAESTRI
Riforma della governance del servizio pubblico radiotelevisivo
Presentata il 4 marzo 2015
n. 2942, d'iniziativa dei deputati
CAPARINI, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, MATTEO BRAGANTINI, BUSIN, CAON, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, FEDRIGA, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, PRATAVIERA, RONDINI, SIMONETTI

Disciplina del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale e riforma dell'organizzazione della società concessionaria

Presentata il 9 marzo 2015
(Relatore di minoranza: FICO)


      

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Onorevoli Colleghi! – Nella scorsa legislatura sono state presentate diverse proposte di legge in materia di riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, con particolare riguardo alla composizione e alle procedure di nomina degli organi amministrativi della concessionaria. Nonostante la loro eterogeneità, i diversi modelli di governance condividevano, perlomeno nelle intenzioni dei proponenti, il medesimo intento riformatore: superare il modello delineato dalla cosiddetta legge Gasparri, al fine di assicurare al servizio pubblico radiotelevisivo la piena indipendenza, liberando quest'ultimo dalla perdurante morsa del sistema dei partiti.
      Nelle intenzioni del Presidente del Consiglio, lo stesso obiettivo avrebbe dovuto ispirare il disegno di legge governativo in materia di riforma della RAI, presentato nell'aprile del 2015. Appare utile scandire brevemente le tappe che hanno condotto il Parlamento ad affrontare la riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. Nel corso del 2014, le dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla necessità di una riforma in grado di liberare finalmente la RAI dal controllo dei partiti hanno avuto una cadenza mensile. Dopo mesi di annunci, il 12 marzo 2015 finalmente la riforma della RAI veniva inserita all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri, senza tuttavia essere discussa. A quella data, peraltro, i Gruppi parlamentari dell'opposizione – ma anche deputati appartenenti alla maggioranza – avevano già depositato le proprie proposte di legge, anche in considerazione della ravvicinata scadenza del mandato del consiglio di amministrazione della RAI. Al fine di poter avviare l'urgente processo riformatore, il Parlamento, paralizzato, rimaneva in attesa del disegno di legge governativo. Dopo il Consiglio dei ministri del 27 marzo, il Governo annunciava di avere finalmente approvato il testo di riforma della RAI. Nei giorni successivi, tuttavia, pubblicava nel proprio sito internet una bozza del disegno di legge: un testo normativo embrionale, evidentemente in fieri, non certo maturo per una discussione parlamentare. Del resto, a tre settimane di distanza dall'annuncio il disegno di legge non risultava essere stato ancora presentato in uno dei due rami del Parlamento. Dopo una lunga permanenza al Quirinale ai fini dell'autorizzazione ex articolo 87, quarto comma, della Costituzione, il disegno di legge approdava finalmente al Senato il 20 aprile 2015, per essere adottato come testo base (A.S. 1880) il 6 maggio 2015. Nonostante il tempo trascorso dal suo annuncio, il testo presentato dal Governo appariva ancora abborracciato sul piano formale, destando nel contempo grave preoccupazione sul piano sostanziale, con particolare riguardo agli equilibri della forma di governo del servizio pubblico radiotelevisivo, oggetto di una consolidata giurisprudenza costituzionale. Non per caso, nel corso delle audizioni informali svolte presso l'8a Commissione (Lavori pubblici, comunicazioni) del Senato – e poi ancora in quelle svolte presso le Commissioni riunite VII e IX della Camera dei deputati – non vi è stato chi non abbia evidenziato, per quanto di propria competenza, le aporie del testo governativo, nonché le sue gravi ricadute sul principio di indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo. Naturalmente, con l'iter avviato solo a maggio e il consiglio di amministrazione della RAI, tecnicamente, in prorogatio, non è stato possibile rinnovare gli organi di amministrazione della concessionaria attraverso nuove regole. Il 4 agosto, dunque, la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi procedeva, secondo le norme vigenti, alla designazione dei sette membri del consiglio di amministrazione di propria spettanza, due giorni dopo l'assemblea degli azionisti ratificava la nomina del nuovo consiglio di amministrazione.
      Di questo fallimento il Governo ha ritenuto responsabile il Parlamento («la politica discute ma non può bloccare un'azienda»), piuttosto che ammettere la propria incapacità, oppure la propria intenzione di rinnovare i vertici aziendali con la normativa vigente, salvo premurarsi di trasformare il nuovo direttore generale in amministratore delegato, inserendo così anche nell'impianto della legge Gasparri quel concetto, sempre più imperante, dell'uomo solo al comando. Una specie di Frankenstein, non solo dal punto di vista giuridico, che concepisce il servizio pubblico non come strumento della cittadinanza, bensì come potente megafono dell'Esecutivo. Dietro una simile manovra appare evidente la mancanza di una qualsiasi visione del servizio pubblico, a dispetto di tutte le dichiarazioni, peraltro condivisibili, rese dal Presidente del Consiglio nei mesi precedenti, che preannunciavano una RAI non soltanto liberata dai partiti, ma anche pronta a trasformarsi finalmente in una media company, con un consiglio di amministrazione più leggero ma non per questo ridotto a puro ornamento. Naturalmente nulla di tutto questo è accaduto perché la riforma approvata dal Senato è, se possibile, peggiorativa del modello introdotto dalla legge n. 112 del 2004, poiché al già deprecabile controllo dei partiti sull'azienda sostituisce, tout court, quello governativo.
      Nonostante le correzioni apportate dal Senato, il testo all'esame delle Commissioni di merito della Camera dei deputati avrebbe richiesto profondi e radicali interventi di riequilibrio. Del resto, all'indomani dell'approvazione della riforma in prima lettura, gli esponenti dei Gruppi parlamentari di opposizione, nonché alcuni esponenti della maggioranza, si erano dichiarati pronti a intervenire sul testo, rivendicando la propria autonomia. A dispetto delle intenzioni, il lavoro svolto in sede referente è stato, senza mezzi termini, frustrante ed avvilente: Gruppi di opposizione che, nonostante i numerosi emendamenti presentati, non hanno partecipato ai lavori delle Commissioni riunite; Governo e relatori saldi nel proprio atteggiamento di chiusura e indisponibilità al confronto, nonostante la delicatezza della materia e i nodi cruciali da affrontare, sollevati anche da autorevoli costituzionalisti; infine una maggioranza, evidentemente più ampia di quella ufficiale, che ha respinto qualsiasi emendamento. Sullo sfondo, si è avvertita nitidamente l'esigenza di procedere con quella estrema e sprezzante speditezza la cui giustificazione è tutta contenuta nelle disposizioni transitorie del testo in esame (articolo 5), che attribuiscono «in corsa» al direttore generale della concessionaria del servizio pubblico anche i poteri dell'amministratore delegato. Qui sta il senso di questa improvvisa accelerazione.
      Il testo proposto all'Aula non ha dunque subìto alcun intervento di riequilibrio. Al contrario, attraverso due emendamenti dei relatori è stato ampliato il regime derogatorio per i contratti pubblici della RAI e rivisitato l'istituto della revoca dei consiglieri di amministrazione, sbilanciando ulteriormente il peso a favore dell'Esecutivo. Dell'originario disegno di legge governativo, il testo approvato dalle Commissioni condivide interamente l'impianto e la ratio ispiratrice. Restano perciò attuali quegli elementi di grave criticità concernenti, in primo luogo, la procedura di nomina del consiglio di amministrazione, che costituisce il nucleo della riforma in discussione.
      Le modalità di designazione parlamentare e governativa dei consiglieri di amministrazione appaiono tanto più perniciose dal punto di vista sistemico in quanto non collegate a precisi requisiti di professionalità e competenza dei consiglieri. Siamo rimasti sostanzialmente fermi ai requisiti previsti dall'articolo 49, comma 4, del testo unico, che appaiono anacronistici, inefficaci, soprattutto nell'ottica di un'azienda costretta a raccogliere in così breve tempo la sfida dell'innovazione tecnologica e della convergenza dei media. Non è sufficiente affermare la necessità di elevate competenze. Occorre oggi definirle compiutamente, pur nella consapevolezza del rischio di irrigidire la procedura. Il Movimento 5 Stelle, nel presentare la propria proposta di legge in materia, ha tentato di individuare aree di competenza e profili manageriali coerenti con gli ambiti strategici all'interno dei quali dovrà estendersi l'azione della concessionaria del servizio pubblico nel breve e medio periodo (qualità del prodotto e innovazione tecnologica, prima degli altri). Analogamente, l'esperienza ci ha ampiamente dimostrato che non ha alcun senso affermare in un testo legislativo la «notoria indipendenza» di un determinato soggetto. L'indipendenza non costituisce un parametro misurabile, ma essa è certamente connessa ad una serie di precondizioni che siamo in grado di individuare e codificare. Per assicurare al servizio pubblico l'indipendenza e prevenire le pratiche di lottizzazione crediamo sia necessario innalzare un muro fra Parlamento e consiglio di amministrazione della RAI. Con troppa disinvoltura in tutti questi anni i partiti politici hanno concepito l'organo di vertice della concessionaria come un proprio feudo, come un luogo nel quale fosse indispensabile avere un proprio riferimento. Chiediamo, dunque, di introdurre il divieto di ricoprire la carica di consigliere per i soggetti che nei cinque anni precedenti alla nomina abbiano ricoperto cariche elettive o di governo. Sul punto, il testo attualmente reca un limite manifestamente illogico e inefficace, ovverosia l'ineleggibilità a consigliere dei soggetti che nei dodici mesi precedenti alla nomina abbiano ricoperto cariche governative a livello nazionale, oppure cariche elettive a livello regionale, provinciale e comunale.
      Ed è su questa sostanziale assenza di requisiti «positivi» e «negativi» dei consiglieri che s'innesta, destando ancor più grave preoccupazione, la nuova procedura di nomina dell'organo di governo della concessionaria. Nella maggioranza degli ordinamenti democratici ha trovato accoglimento un principio basilare: il potere esecutivo deve rimanere quanto più lontano possibile dal governo del servizio pubblico radiotelevisivo. Invero, tale principio è profondamente radicato anche nell'ordinamento italiano. In più occasioni (per tutte, si vedano le sentenze n. 225 del 1974 e n. 69 del 2009) la Corte costituzionale ha ritenuto indispensabile che gli organi direttivi del servizio pubblico radiotelevisivo non siano «direttamente o indirettamente espressione esclusiva o preponderante del potere esecutivo». Un'esigenza affermata recentemente anche a livello sovranazionale da organismi quali l'EBU (European Broadcasting Union), l'associazione dei servizi pubblici europei, e la Commissione di Venezia, unanimi nel considerare il principio della maggioranza qualificata per l'elezione dei vertici del servizio pubblico una precondizione essenziale per l'inveramento del principio di indipendenza.
      Un principio basilare, dunque, che viene platealmente minato attraverso plurime disposizioni contenute nel testo in esame. Su tutte, la previsione che due consiglieri di amministrazione, fra cui l'amministratore delegato, siano designati direttamente dal Governo, due consiglieri siano eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica, con il metodo del voto limitato. Ne consegue che il peso dell'Esecutivo nel governo del servizio pubblico sia stato straordinariamente accresciuto: non soltanto perché i due consiglieri di nomina governativa, già previsti dalla normativa vigente, si inseriscono nell'ambito di un consiglio di amministrazione ridotto a sette membri, ma soprattutto perché l'amministratore delegato di nomina governativa viene ad assumere poteri straordinariamente rilevanti, mentre l'organo rappresentativo, ovvero il consiglio di amministrazione, esce fortemente ridimensionato anche nelle sue funzioni. Ad alterare ulteriormente gli equilibri della forma di governo aziendale è la previsione del voto limitato per la designazione parlamentare degli altri quattro consiglieri. Nel contesto italiano tale metodo di votazione non può garantire il perseguimento delle finalità per cui esso fu escogitato, molto tempo addietro, ovverosia la garanzia delle minoranze. Infatti, con legislazioni elettorali basate su meccanismi premiali (prima la legge n. 270 del 2005 e poi la n. 52 del 2015), la maggioranza parlamentare è in grado, con un buon coordinamento strategico, di eleggere addirittura quattro consiglieri su quattro, oltre ai due di designazione governativa: una prospettiva esiziale per l'indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo. Prospettiva, del resto, niente affatto peregrina, considerato che vi sono diverse opposizioni parlamentari tendenzialmente indisponibili al coordinamento e alla mediazione. In ogni caso, a prescindere dal suo concreto funzionamento nel contesto italiano, il metodo del voto limitato, più in generale, non appare coerente con le votazioni concernenti organi di garanzia. L'elezione di autorità o istituzioni indipendenti, per definizione, non può rispondere a logiche spartitorie (uno per ciascuno), ma impone esclusivamente la ricerca delle competenze e delle qualità più elevate. È per questo che il Movimento 5 Stelle chiede con forza la sostituzione del metodo del voto limitato con il principio della maggioranza qualificata, la più alta possibile, dei due terzi dei componenti.
      Del resto, proprio recentemente la Corte europea dei diritti dell'uomo ha censurato la legislazione sui media della Moldavia per violazione del principio della libertà di espressione, stigmatizzando il fatto che una maggioranza monopartitica fosse in grado di nominare i vertici della televisione pubblica. Analogamente, la legislazione ungherese è stata censurata, da un lato, per le modalità di nomina dei membri dell'Autorità garante nel settore dei media, che riflettendo gli orientamenti partitici comprometterebbero l'indipendenza dell'istituzione; dall'altro, a causa della fisionomia del vertice del servizio pubblico radiotelevisivo, titolare di poteri troppo ampi ed eccessivamente dipendente dal Presidente del Consiglio.
      Un ulteriore vulnus all'indipendenza del servizio pubblico risulta dalla riconfigurazione dell'istituto della revoca dei consiglieri. Seguendo l'orientamento della Corte costituzionale, tanto più forte è il peso dell'Esecutivo nella governance del servizio pubblico, tanto più esso deve essere controbilanciato. Oggi la Commissione di vigilanza si esprime sulla revoca dei consiglieri mentre il rappresentante del Governo, nell'assemblea degli azionisti allo scopo convocata, esprime il parere in conformità alla Commissione di vigilanza. Questo significa che la deliberazione della Commissione di vigilanza deve necessariamente anticipare l'assemblea degli azionisti, nel cui ambito il Governo si conforma alla decisione parlamentare. L'attuale configurazione della revoca risulta coerente con le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 69 del 2009, concernente il cosiddetto caso Petroni, nella quale il giudice delle leggi ha affermato che non può esservi una perfetta corrispondenza tra il soggetto che nomina (ovvero l'assemblea degli azionisti, quindi il Governo) e il soggetto che revoca. La ratio, evidente, è quella di garantire al consigliere di amministrazione lo svolgimento delle proprie funzioni in piena indipendenza. Anche questo delicato equilibrio è stato stravolto, in modo improvvido e superficiale, dal testo in esame, il quale infatti prevede che sia l'assemblea degli azionisti a pronunciarsi in prima battuta, deliberando la revoca, la cui efficacia è sospesa fino a quando la Commissione di vigilanza non esprime il suo parere favorevole (i.e. conforme). Si tratta di un vero e proprio scivolamento semantico, di una sostanziale inversione dei due momenti che definiscono la procedura di revoca. Si obietterà che il parere della Commissione di vigilanza è vincolante anche nell'attuale formulazione. Ciò è vero solo formalmente, perché sostanzialmente l'organo parlamentare sarà chiamato ad esprimersi su un consigliere che è stato già revocato, e dunque la sua libera valutazione risulta inevitabilmente condizionata. Se, inoltre, il parere a valle della Commissione è espresso con la maggioranza semplice, appare di tutta evidenza come il ruolo del Parlamento nella procedura di revoca sia stato compresso fino ad assumere una natura di mera ratifica. Ed è per questa ragione che la nuova procedura delineata dalla riforma in esame appare incompatibile con la citata giurisprudenza costituzionale e con i princìpi che informano il servizio pubblico radiotelevisivo.
      Ulteriori gravi criticità si rinvengono negli articoli 3 e 4 del testo proposto dalla Commissione, concernenti rispettivamente l'attività gestionale della concessionaria pubblica e il riassetto del testo unico mediante delega al Governo. L'articolo 3 introduce, esclusivamente per la RAI, un regime derogatorio in materia di appalti, sia attraverso l'ampliamento del novero dei contratti pubblici esclusi dall'applicazione del codice, sia attraverso la soppressione degli obblighi procedurali per tutti gli appalti della RAI di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitarie. Il tentativo di introdurre un abnorme regime derogatorio è oggetto di ripetute denunce da parte del Movimento 5 Stelle, che ne chiede lo stralcio. E conforta, al riguardo, il parere reso lo scorso 15 ottobre dalla VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati, che ha apertamente censurato i commi 1 e 2 del nuovo articolo 49-ter (e, per effetto, anche il terzo). L'unica strada percorribile appare quella dello stralcio dell'articolo, perché qualsiasi riformulazione tendente a mettere al riparo la concessionaria del servizio pubblico dall'applicazione dei princìpi e dalle procedure di derivazione comunitaria esporrebbe il Paese a possibili procedure d'infrazione. A tacere, sul piano politico, della incomprensibile volontà della maggioranza di creare un regime sugli appalti esclusivo per RAI, dopo gli episodi di cronaca e le indagini in corso, che suggerirebbero un approccio al tema diametralmente opposto e incentrato esclusivamente sul principio di trasparenza. Da questo punto di vista è senz'altro da segnalare l'approvazione dell'emendamento del Movimento 5 Stelle che introduce il Piano per la trasparenza aziendale, nel cui ambito saranno diffuse importanti informazioni sugli appalti affidati dalla concessionaria.
      Sempre con riferimento all'articolo 3, il Movimento 5 Stelle ha chiesto l'inserimento di una disposizione che garantirebbe all'interno della RAI l'applicazione del tetto retributivo dei dirigenti pubblici, già previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, tuttavia oggi «aggirabile» attraverso l'emissione di strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati. Attraverso l'emissione di bond, deliberata dall'assemblea della RAI, il tetto alle retribuzioni non è dunque più applicabile alla concessionaria. Alla richiesta di approvare il nostro emendamento, che chiarisce definitivamente una questione ampiamente dibattuta nel corso dell'anno, ci è stato risposto che occorre intervenire sulla disciplina generale e che non possiamo creare un regime speciale per la RAI. È necessario rammentare che la RAI è oggetto di una disciplina particolare, che gran parte della dottrina definisce attraverso la categoria della «legge speciale», proprio in considerazione della peculiare missione svolta dalla concessionaria. E peraltro, come rammentato dalla Commissione Bilancio del Senato, in sede consultiva, proprio la peculiarità del servizio pubblico radiotelevisivo impone un intervento normativo volto a differenziare la RAI da altre società pubbliche in ordine al rapporto fra emissione di strumenti finanziari e disapplicazione del tetto retributivo del personale.
      Infine, l'articolo 4 del testo in esame contiene una delega al Governo per il riassetto del testo unico dei servizi di media audiovisivi. In passato abbiamo già sperimentato l'esercizio di deleghe formalmente di riordino, ma sostanzialmente di riforma. E questo slittamento è tanto più frequente quanto più evanescenti sono i princìpi e i criteri direttivi della delega. Quella contenuta nell'articolo 4, in particolare, è una delega che poggia su princìpi e criteri direttivi sostanzialmente inesistenti, che o sono individuati per relationem alla legge di delega n. 112 del 2004, oppure sono confusi con la «materia» e l’«oggetto» della delega stessa. Il Comitato per la legislazione, chiamato ad esprimere il proprio parere, si è espresso duramente su una delega che appare del tutto incompatibile con il modello delineato dall'articolo 76 della Costituzione.
      Queste sono le principali ragioni per cui il gruppo del Movimento 5 Stelle si oppone fermamente al testo proposto dalla Commissione. Al di là degli aspetti giuridico-costituzionali, che sono affrontati nella questione pregiudiziale, critichiamo con forza la concezione del servizio pubblico che presiede alla riforma in atto. Un servizio pubblico non inteso come bene della collettività, bensì come strumento esclusivo di un potere costituito, quello governativo, magari da utilizzare per la ricerca del consenso e la diffusione di «good news». Un filo rosso collega le riforme costituzionali, la riforma della legge elettorale e quella del servizio pubblico radiotelevisivo: sono i pezzi di una nuova forma di governo iper-maggioritaria e monocratica, sono i tasselli di una concezione del potere che tenta di comprimere oltre ogni limite il principio pluralistico, con tutto quello che ne consegue sulla tenuta stessa della forma di Stato democratica.

Roberto FICO,
Relatore di minoranza.