C. 3606-A-bis EPUB presentata il 15 febbraio 2016. BUSIN Filippo, Relatore di minoranza
Atto a cui si riferisce:
C.3606 [Riforma banche credito cooperativo] Conversione in legge del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18, recante misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio
approvato con il nuovo titolo
"Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18, recante misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio"
Frontespizio | Relazione |
CAMERA DEI DEPUTATI |
N. 3606-A-bis |
Dobbiamo innanzitutto rilevare che la scelta del decreto-legge non sembra la più adeguata per operare una riforma di questa importanza. Al di là degli impedimenti giuridici che dovrebbero arrestare un intervento d'urgenza in tal senso – ci si riferisce qui alle disposizioni normative della legge n. 400 del 1988 e al dettato costituzionale, violati in maniera così palese, senza dimenticare i ripetuti richiami in merito da parte della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica –, dovrebbe essere innanzitutto il senso di responsabilità politica del Governo a far scegliere, per provvedimenti di questa portata, il normale iter legislativo.
Queste considerazioni sono già state svolte in sede di discussione sulle pregiudiziali di costituzionalità, ma ci sembra importante sottolineare come il Parlamento sia stato ancora una volta svuotato dei suoi poteri da un esecutivo che, irrispettoso dei ruoli istituzionali, si pone al di sopra delle regole.
Lo stesso copione, infatti, è stato seguito per la riforma della banche popolari, per citare solo un provvedimento attinente alla materia bancaria, in sprezzo alle nostre leggi, anche di rango costituzionale, e a qualsiasi richiesta di dialogo.
Il decreto-legge in discussione, infatti, sconvolge l'attuale panorama del settore cooperativo, ridisegnando un sistema formato da piccole realtà territoriali attraverso la creazione di un'unica società di gestione di partecipazioni che, oltre a perdere il carattere di mutualità e cooperazione, garantiti dall'articolo 45 della Costituzione, non riesce nemmeno a replicare modelli presenti in altre nazioni europee per evidenti disparità dimensionali. Gruppi olandesi, francesi o tedeschi costituiti come holding di banche di credito cooperativo sono da cinquanta a sessanta volte più grandi della dimensione ipotizzata per il costituendo gruppo bancario cooperativo italiano. Rischiamo di generare un ibrido che perde le caratteristiche specifiche della cooperazione nel settore creditizio, tese a valorizzare le specificità locali, culturali e socio-economiche dei diversi territori italiani, e che nel contempo non risulta in grado di paragonarsi ad omologhi gruppi con cui dovrebbe confrontarsi nel mercato creditizio mondiale.
La relazione illustrativa del Governo afferma che, a causa di «talune debolezze strutturali», degli «assetti organizzativi» e della «dimensione ridotta» delle banche cooperative, si rende necessario superare l'ostacolo di alcuni «tratti costitutivi della forma giuridica cooperativa in quanto tale», prevedendo «l'obbligatoria appartenenza a un gruppo bancario cooperativo» la cui capogruppo si costituisca in forma di società per azioni «al fine di favorire l'accesso al mercato dei capitali e alla patrimonializzazione».
Nella stessa relazione poi si attesta che una simile ristrutturazione non altererebbe in alcun modo la qualificazione delle banche di credito cooperativo quali cooperative a mutualità prevalente.
Non si può certo negare che una simile impostazione provenga dalle tesi ormai maggioritarie sviluppate dalla Banca d'Italia in merito alla convinzione, piuttosto infondata, che sia impossibile vigilare correttamente su piccole entità bancarie. Su questo punto, Carmelo Barbagallo, capo del Dipartimento della vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d'Italia, nell'audizione svolta il 9 dicembre 2015 presso la VI Commissione (Finanze) della Camera dei deputati, ha espresso una posizione nettamente favorevole a operazioni di concentrazione, soprattutto per le banche di medie e piccole dimensioni.
La tesi è stata poi ulteriormente confermata nel corso dell'audizione sul presente disegno di legge di conversione svolta presso la medesima Commissione il 1 marzo 2016, in cui lo stesso capo della vigilanza bancaria ha confermato che «nella prolungata fase di crisi economica, l'aumento della rischiosità dei prenditori e la stasi delle erogazioni hanno eroso i profitti rendendo più vulnerabili le BCC, caratterizzate da dimensioni contenute e da una operatività concentrata in ambiti territoriali ristretti che si ripercuote sulle possibilità di diversificazione del rischio».
Tuttavia questa tesi, ancorché suggestiva, non trova alcun riscontro nella realtà, e potrebbe pertanto apparire strumentale al raggiungimento di fini diversi da quelli dichiarati. Al contrario, le drammatiche vicende vissute dalle banche popolari venete, con le gravi ricadute su molti risparmiatori e sull'intera economia di una delle regioni trainanti per l'intero Paese, dimostrano che la grande dimensione è tutt'altro che un requisito utile per agevolare la vigilanza da parte degli enti preposti. Proprio nei confronti di queste, che erano nel novero dei cinque maggiori istituti di credito del Paese, la Banca d'Italia e la Commissione nazionale per le società e la borsa hanno evidenziato gravi carenze, se non connivenze, nell'adempiere al loro ruolo istituzionale di vigilanza e tutela dell'interesse pubblico.
Non risulta pertanto alcuna evidenza empirica secondo la quale istituti di maggiori dimensioni siano più facilmente controllabili e più stabili, tanto meno che i crediti in sofferenza dei piccoli istituti mettano in pericolo la stabilità dell'intero sistema bancario nazionale.
In Italia le banche più piccole hanno 17 miliardi di euro di sofferenze, a fronte dei 39 miliardi della banche più grandi e dei 133 miliardi delle prime cinque banche, con un credito erogato che, per le banche di medie e piccole dimensioni, si attesta tra i 156 e 178 miliardi di euro.
Dal Fiscal Sustainability Report per l'anno 2015 pubblicato dalla Commissione europea, inoltre, emerge che nelle banche minori le sofferenze bancarie rappresentano una quota del 9,5 per cento degli impieghi, contro il 10,8 per cento nei cinque maggiori gruppi; che i crediti deteriorati nelle banche minori sono invece pari al 18,1 per cento, mentre rappresentano il 18,4 per cento nelle prime cinque banche; che, infine, il tasso di copertura dei crediti deteriorati diversi dalla sofferenze sia il 20,9 per cento nelle banche minori, rispetto al 27,6 per cento delle prime cinque.
Ancor di più, non si comprendono a fondo le ragioni di una simile riforma quando anche la Banca d'Italia ha confermato la gestione più prudenziale delle «banche di minore dimensione, in prevalenza di credito cooperativo, anche per effetto del peso più elevato delle garanzie sui prestiti (79,8 per cento a fronte di una media di sistema del 66,5)».
Anche facendo riferimento alla crisi americana dei mutui subprime, si è sempre affermato di dover evitare ad ogni costo il rischio del cosiddetto azzardo morale, che si può sviluppare nelle grandi banche, poiché considerate troppo grandi per poter essere lasciate fallire («too big to fail»), quando al contrario, nel nostro Paese, si accorpano e si vendono al miglior offerente le piccole banche, quelle che, per quanto evidenziato, non sono suscettibili di recare grandi scosse al sistema nazionale del credito.
Sembra scontato, dunque, che tutta questa riforma sia affetta da una deliberata eterogenesi dei fini, dove i veri obiettivi sono differenti da quelli ufficialmente dichiarati e debolmente giustificati da tesi evidentemente strumentali. Si abbandonano i princìpi di mutualità per fare spazio alle ragioni del libero mercato, agevolando l'entrata, anche nelle banche di credito cooperativo, così com’è stato nelle popolari, di investitori, nazionali e no, ben poco interessati allo sviluppo e al sostegno del territorio e al tessuto delle piccole e medie imprese, fondamentale per l'economia del nostro Paese e strategico con riguardo alla nostra capacità di competere in ambito internazionale.
Passando ad analizzare le misure del provvedimento, non ci trova d'accordo la scelta del limite minimo di un miliardo di euro di patrimonio netto per la società capogruppo, perché questo annulla la valenza territoriale del sistema mutualistico, postulando necessariamente la creazione di un'unica grande holding nazionale, governata in modo verticistico. L'ovvia conseguenza sarà il forte condizionamento che un simile gruppo eserciterà sulla libertà di azione e sull'autonomia delle banche di credito cooperativo in sede locale.
Il dubbio che possa verificarsi una tale eventualità è tanto forte che gli stessi promotori della riforma – tra cui la Federazione italiana delle banche di credito cooperativo – casse rurali ed artigiane – sostengono che si debbano comunque preservare le identità e le autonomie di specifici territori, al fine di tutelarne le «particolari forme di coesione ed organizzazione a livello territoriale».
Spiace quindi che il testo del Governo e della maggioranza riconosca quest'identità e specificità per le sole province autonome di Trento e di Bolzano, ignorando le altre peculiarità linguistiche, socio-economiche e culturali, che rappresentano, invece, una caratteristica diffusa e un importante valore aggiunto dell'intero Paese. Seppur riconosciuta la necessità di salvaguardare specificità culturali e linguistiche, non si comprende perché le stesse non debbano essere riconosciute a tutte le regioni e le province italiane. Ancora una volta si creano regioni e cittadini italiani di serie A e di serie B.
Dello stesso avviso è anche la Cooperfirst, che ha fatto giustamente notare come, anche sulla base di esperienze europee, si confermi «la necessità di preservare e tutelare la biodiversità degli intermediari bancari per attenuare l'impatto degli shock provenienti dall'esterno», «ma anche per rispondere a fasi ordinarie e a bisogni differenti provenienti dalla società e dal mondo produttivo».
Sarebbe necessario, da questo punto di vista, abbassare il suddetto limite almeno alla metà e dare la possibilità di costituire più società di gestione delle partecipazioni, dotate di un patrimonio netto di almeno 500 milioni di euro, che rispecchino la differenziazione territoriale, caposaldo necessario della mutualità.
La seconda grande incongruenza di questa riforma attiene alla clausola di esclusione (way-out): si prevede, infatti, che soltanto gli istituti con un patrimonio netto superiore a 200 milioni, corrispondendo all'erario un'imposta straordinaria pari al 20 per cento dello stesso, possano scorporare l'attività bancaria conferendola a un istituto di credito costituito in società per azioni.
Quindi, da un lato il Governo e la maggioranza ritengono che la soglia di un miliardo di euro sia il limite minimo per poter operare nel mercato del credito come gruppo bancario cooperativo in forma di società per azioni, dall'altro, contraddicendosi, valutano congruo un capitale netto inferiore a 200 milioni di euro per poter operare, nella stessa forma e nello stesso mercato, con piena sicurezza in riferimento ai valori patrimoniali. Risulta fin troppo evidente che questo limite di 200 milioni di euro sia stato determinato in assenza di qualsiasi valutazione razionale che considerasse le caratteristiche del settore, del mercato e degli indici di solidità patrimoniale; del resto, nessuna spiegazione ci è mai stata fornita da Governo e maggioranza in questo senso. La soglia di 200 milioni di euro è stata determinata in modo del tutto arbitrario, in funzione della consistenza patrimoniale delle banche di credito cooperativo toscane – vicine all'attuale Presidente del Consiglio dei ministri e ad altri membri del Governo, insieme con esponenti della nuova maggioranza – che evidentemente si volevano salvaguardare, assolvendole dall'obbligo di aderire al gruppo bancario cooperativo.
In questo modo non solo si contravviene al principio di eguaglianza sancito dal dettato costituzionale, ma si indebolisce la portata della riforma, contraddicendone i presupposti e le finalità, perché il costituendo gruppo bancario cooperativo risulterà evidentemente indebolito dalla mancata partecipazione delle banche di credito cooperativo di maggiori dimensioni. A giugno 2015, infatti, le banche di credito cooperativo con patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro erano quattordici e rappresentavano circa il 21 per cento degli attivi della categoria, mentre quelle con patrimonio netto compreso tra 100 e 200 milioni erano ventotto e rappresentavano il 18 per cento degli attivi.
Una simile previsione, inoltre, sembrerebbe difficilmente conciliabile con il principio di libera iniziativa economica, tutelata dall'articolo 41 della Costituzione, a maggior ragione per il fatto che lo stesso decreto-legge introduce il divieto di trasformazione in banca popolare.
Stante la vaghezza e l'ambiguità generale del provvedimento in esame, è previsto invece in maniera chiara ed esplicita che, in caso di esclusione dalla superholding, la banca di credito cooperativo possa continuare la sua attività solo con l'autorizzazione della Banca d'Italia e la trasformazione in società per azioni, pena la liquidazione, ma è esclusa – come invece è stato ammesso fino ad oggi – la fusione con banche di diversa natura da cui risultino banche popolari.
La disposizione, molto criticabile, è stata infatti attaccata da più fronti, perché inficerebbe gravemente la tutela dei depositanti. Non a caso, la deroga all'intrasformabilità delle banche di credito cooperativo, prevista fino ad oggi, non è stata mai modificata e la motivazione di ciò risiede non soltanto in ragioni di stabilità, ma anche nella necessità di tutelare l'interesse dei creditori in situazioni di difficoltà.
La norma, oltre a contrastare con il richiamato articolo 41 della Costituzione, vìola anche il principio della tutela e promozione della cooperazione di cui all'articolo 45 della Carta costituzionale. Alla luce di questi princìpi non si comprende dunque perché debba essere consentito il passaggio da banca di credito cooperativo, ossia da una banca cooperativa a mutualità prevalente, ad ordinaria società commerciale, con relativa possibilità di affrancamento, e debba essere esclusa invece tale possibilità se la società risultante è costituita in forma di banca popolare, banca sempre cooperativa, a mutualità non prevalente.
Si ricorda, inoltre, la pessima norma contenuta nell'articolo 16 di questo decreto-legge, in cui, ad esclusivo vantaggio degli speculatori immobiliari e, ancora una volta, delle banche, si prevede la riduzione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in caso di vendita giudiziaria, attraverso la sostituzione dell'aliquota del 9 per cento con un pagamento in misura fissa pari a euro 200, seppur in via provvisoria fino al 31 dicembre 2016. Noi proponiamo che quest'agevolazione possa riguardare l'intera platea dei potenziali acquirenti, anche persone fisiche non operanti nell'esercizio di un'impresa o di una professione ma indotte presumibilmente da bisogni primari quali l'acquisto di un'abitazione, per sé o per i propri familiari, piuttosto che da intenti speculativi.
Il nostro contributo, contenuto nelle proposte emendative, è orientato alla soluzione delle gravi contraddizioni contenute nel decreto-legge, ma evidentemente il Governo in questa, come in altre occasioni, si dimostra sprezzante delle opposizioni e soprattutto – cosa ancora più grave – di ampi settori della società civile, più deboli, meno rappresentati, ma non per questo meno importanti, anzi spesso decisivi nel loro apporto all'economia generale.
Filippo BUSIN,
Relatore di minoranza.