• Testo RISOLUZIONE IN ASSEMBLEA

link alla fonte scarica il documento in PDF

Atto a cui si riferisce:
C.6/00245    premesso che:     negli ultimi anni, con particolare riferimento ai due anni di governo Renzi, le politiche contenute nel Documento di Economia e Finanza si sono ispirate ai...



Atto Camera

Risoluzione in Assemblea 6-00245presentato daMARCON Giuliotesto diMercoledì 27 aprile 2016, seduta n. 614

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni, con particolare riferimento ai due anni di governo Renzi, le politiche contenute nel Documento di Economia e Finanza si sono ispirate ai principi fondanti le politiche neoliberiste e dell'austerità portate avanti in Europa: riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni, taglio delle tasse, sostegno agli investimenti privati attraverso gli sgravi fiscali e precarizzazione del mercato del lavoro;
    queste politiche hanno dimostrato il loro carattere fallimentare: non hanno promosso la crescita, non hanno creato lavoro stabile e duraturo, non hanno ridotto il debito, non hanno arginato la crescita della povertà e del disagio sociale;
    negli anni di programmazione economica dell'attuale Governo, il Documento di Economia e Finanza si è sempre presentato come un contenitore di indicazioni approssimative, disomogenee e contraddittorie dal quale emergono fondamentalmente quattro cose, ovverosia: 1) la costante revisione delle previsioni macroeconomiche sempre riviste al ribasso; 2) una generica e ipocrita critica dei criteri con cui si calcola il Patto di stabilità europeo e la conseguente quantificazione di quanto margine in più di finanza pubblica «programmatica» si intende chiedere all'Europa; 3) una lunga lista di effetti sovrastimati delle riforme avviate dal Governo; 4) e infine, una grandissima avarizia su ogni particolare che riguardi le misure di attuazione degli obiettivi contenuti nel DEF che, di regola, sono appresi solo all'ultimo momento, con la presentazione in autunno della Nota di aggiornamento al DEF e della Legge di stabilità;
    il DEF 2016 ripropone questo schema accompagnato da una strategia di comunicazione molto attenta a carpire il consenso quanto inefficace nell'affrontare i nodi della crisi che attanaglia il Paese; ma con una differenza rispetto al passato: che questa volta gli annunci sulla «fine dell'austerità» e sulla «crescita» non riescono più a sortire più gli effetti di prima, risultando sostanzialmente assente non solo la presa di atto del fallimento di molte delle politiche pubbliche sino ad oggi perseguite, ma sopratutto della rifocalizzazione delle politiche economiche che puntino realmente al superamento dell'austerità e della capacità di finalizzare le risorse in direzione di uno sviluppo economico che offra benessere e progresso sociale. Mancano le politiche dell'occupazione e industriali. Ci si limita a provvedimenti per il mercato e le imprese nella speranza che il privato faccia partire gli investimenti;
    per quel che concerne le prospettive economiche, il DEF 2016, anche grazie alle precisazioni operate dall'Ufficio Parlamentare del Bilancio, rivede al ribasso le stime di crescita del PIL rispetto a quelle previste nella Nota di aggiornamento al DEF 2015, ridimensionandole nel 2016 e nel 2017 all’ 1,2 per cento e all’ 1,4 per cento (stime che dovevano corrispondere rispettivamente all’ 1,4 e all’ 1,5 per cento), riscrivendo anche quelle sul deficit al 2,3 per cento per il 2016 (piuttosto che al 2,2 per cento) e all’ 1,8 per cento per il 2017 (piuttosto che all'1,1 per cento) in un quadro complessivo di sconfortante incertezza e generale inattendibilità avvalorato dalle valutazioni successivamente fornite dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Ocse, dalla Banca d'Italia, dall'ISTAT ed altri autorevoli osservatori economici;
    dati in peggioramento, dunque, ma soprattutto irrealistici nel senso di eccessivamente ottimistici come quelli sulla disoccupazione che il DEF 2016 stima in calo all’ 11,4 per cento nel 2016 rispetto all'11,9 per cento del 2015, per seguire al 10,9 per cento nel 2017, al 10,4 per cento nel 2018 e addirittura al 9,9 nel 2019;
    inoltre, con riferimento all'inflazione che, peraltro, rappresenta l'oggetto principale dell'azione promossa con il quantitative easing al fine di portarla se non al di sotto comunque vicina al 2 per cento, il dato che emerge all'interno del DEF 2016, in piena implementazione dello strumento, è di appena dello 0,2 per cento, che crescerebbe ipoteticamente più di un punto percentuale nel 2017, attestandosi comunque a livelli molto lontani dagli obiettivi dettati dalla Banca Centrale Europea;
    il dato sull'indebitamento netto è visto prodursi nello scenario programmatico portandosi all'1,8 per cento nel 2017, e allo 0,9 nel 2018, e, infine, in posizione di leggero avanzo nel 2019, descrivendo un percorso di riduzione del deficit meno ambizioso di quanto prospettato nei due precedenti documenti programmatici, facendo registrare una forbice massima nei due anni del biennio 2017-2018 di 0,7 punti percentuali rispetto al precedente valore, e di soli 2 punti percentuali rispetto alla fine dell'orizzonte di previsione. Percentuali che possono sembrare nulla ai più ma che si legano strettamente a quanto il Governo intende trattare con l'Unione europea in termini di flessibilità, tenendo presente che essendo il dato dell'1,8 per cento inferiore al dato relativo all'indebitamento netto previsto al 2,3 per cento con riferimento al 2016, occorrerà trovare ulteriori miliardi di euro per rimettersi in pari;
    le risorse, nell'ambito delle previsioni del DEF 2016, deriveranno principalmente da nuovi tagli alla spesa e da nuove riduzioni degli sconti fiscali;
    nonostante la tanto decantata «fine dell'austerità», si prevedono, quindi, nuovi sacrifici e si amplierebbero ulteriormente le misure riguardanti la spending review (come se non avessimo già tagliato con le precedenti manovre per 25 miliardi di euro), leggendosi nel DEF 2016 che l'intendimento del Governo nell'impostazione della prossima Legge di Stabilità sarà quello di sterilizzare le clausole di salvaguardia a suo tempo stabilite (la cui perdita di gettito è stimata in 15,1 miliardi di euro nel 2017 e a ulteriori 4,5 miliardi di euro dal 2018 per un totale di 19 miliardi di euro complessivi) attuando una manovra che si basa su un mix di interventi di revisione della spesa pubblica e delle spese fiscali (le cosiddette tax expenditures), oltre che non meglio specificati altri strumenti di contrasto all'evasione ed elusione che dovrebbero garantire il raggiungimento del citato indebitamento netto pari all'1,8 per cento del PIL nel 2017;
    sul fronte delle entrate, infatti, tra le pieghe del DEF 2016 salta subito agli occhi un imprevisto aggravio fiscale per i prossimi quattro anni per famiglie ed imprese che, stando alle previsioni, dovrà garantire alle casse dello Stato un extragettito di 71 miliardi di euro (+ 9,15 per cento) portandolo dai 784 miliardi di euro incassati nel 2015 agli 855 miliardi di euro previsti per l'anno 2019. Nello specifico ad aumentare saranno sia le imposte dirette che quelle indirette: nel primo caso il Governo stima una crescita del gettito pari a 11,8 miliardi di euro (+4,90 per cento) mentre nel secondo caso pari a 33,3 miliardi (+13,39 per cento). E tutto questo nonostante la millantata ulteriore riduzione della pressione fiscale, sbandierata fino ad oggi come un mantra dallo stesso Premier, e confermata anche nella premessa al documento, che sarebbe consentita, secondo le parole del Governo, da quello «spazio di bilancio addizionale che verrà generato da risparmi di spesa, realizzati mediante un ampliamento del processo di revisione della spesa, ivi incluse le spese fiscali, e da tutti quegli strumenti che accrescano la fedeltà fiscale e riducano i margini di elusione.» I previsti aumenti, che secondo il Governo (e non si capisce come) manterranno complessivamente la pressione fiscale invariata portandola dal 43,5 per cento al 42,9 per cento, deriveranno, in assenza di manovre alternative, dall'innesco automatico a decorrere dal 2017, delle cosiddette clausole di salvaguardia, che da sole rappresentano circa lo 0,9 per cento del PIL (valendo circa 16,8 miliardi di euro) e che comporteranno un incremento delle aliquote Iva (sia la ridotta che quella ordinaria) e delle accise sugli olii minerali;
    ed invero il Governo, nell'ambito della Legge di Stabilità 2016, aveva disattivato, per l'anno in corso, le suddette clausole e rinviando a data da destinarsi quelle relative al triennio successivo (2017-2019), compiendo in tal modo quello che buona parte della stampa italiana allora aveva descritto come un vero e proprio miracolo;
    la neutralizzazione sarà possibile attraverso un'operazione di revisione, peraltro socialmente molto sensibile, di tutte quelle agevolazioni fiscali (le cosiddette tax expenditures), cioè l'insieme di detrazioni, deduzioni ed esenzioni fiscali il cui ammontare complessivo, secondo la Corte dei Conti, determina un mancato gettito pari a 313 miliardi di euro in ragione annua, ma che consentono al contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, di sottrarsi parzialmente all'eccessiva pressione fiscale abbattendo sensibilmente il totale dell'imposta dovuta. Molti contribuenti saranno perciò costretti a rifare nuovamente i propri conti eliminando alcune detrazioni già calcolate (come ad esempio le spese mediche e quelle relative alle ristrutturazioni, ecc.);
    lo stesso DEF 2016 precisa che nell'ambito delle tax expenditures, l'attuazione della delega fiscale ha previsto annualmente la predisposizione di uno specifico Rapporto programmatico di ricognizione delle agevolazioni in essere. Questo costituirà la base per valutare in autunno gli interventi volti a ridurre, eliminare o riformare le spese fiscali, che dovranno poi essere resi operativi nella manovra di finanza pubblica. La revisione sarà quindi volta ad eliminare o rivedere quelle non più giustificate sulla base delle mutate esigenze sociali ed economiche o quelle che duplicano programmi di spesa pubblica. Verrebbe, in particolare previsto che trascorsi cinque anni dall'adozione le spese fiscali siano oggetto di un esame specifico, corredato da un'analisi degli effetti microeconomici e sociali e delle ricadute sul contesto sociale;
    tax expenditures è un termine che suona come un inglesismo tecnico, ma che pare destinato a divenire protagonista nel futuro dibattito politico, con importanti ricadute sui contribuenti, trattandosi, come si è visto, di tagli a tutte quelle agevolazioni fiscali tese, nella loro originaria concezione, a ridurre il carico fiscale su cittadini ed imprese, e negli ultimi anni tornate alla ribalta perché protagoniste di un progetto virtuoso della «creatività» dell'allora ministro Tremonti, che pensò di sfrondarle per ampliare la base imponibile dei contribuenti e finanziare, attraverso il maggiore gettito che ne sarebbe derivato, la riduzione delle aliquote nominali d'imposta. La galassia delle tax expenditures contempla voci di agevolazioni la cui quota maggiore si concentra su casa e famiglia, come le spese per mutui, per la sanità, per l'assegno di mantenimento, o per le erogazioni liberali etc., pertanto la loro revisione si tradurrà in un inesorabile aumento della pressione fiscale. Perciò noi esprimiamo la nostra più ferma contrarietà ad una revisione delle tax expenditures che si tramuti nella revoca di detrazioni fiscali su spese che incidono sulle condizioni sociali dei contribuenti e che implicano l'accentuazione della pressione fiscale sul ceto medio e le classi popolari;
    l'ipotesi di un intervento di revisione delle spese fiscali non è nuova; anzi è da anni all'attenzione dell'agenda degli ultimi governi. Il loro ridimensionamento rappresenta un obiettivo della politica fiscale: soprattutto da quando si è diffuso il convincimento che, analogamente all'evasione, si sia in presenza di un «tesoretto» cui attingere per soddisfare le necessità di finanza pubblica. Un «tesoretto» che, secondo le stime formulate sul finire del 2011 dalla Commissione MEF, contava oltre settecento regimi agevolativi, suscettibili di intaccare il gettito per oltre 250 miliardi: una cifra pari a quasi un terzo delle entrate complessive della pubblica amministrazione;
    l'aspetto ancora più paradossale è che, come del resto affermava il Premier solo alcuni mesi fa, cancellare le agevolazioni significa, de facto, aumentare la pressione fiscale, anche se in base al citato PNR, le maggiori entrate derivanti dalla «rimodulazione» saranno in parte destinate al fondo per ridurre la pressione fiscale. Insomma tutto ed il contrario di tutto;
    a fronte di un saldo primario stimato all'1,7 per cento, la pressione fiscale è prevista al 42,8 per cento valore, quest'ultimo che risente sia degli effetti delle misure contenute nella Legge di Stabilità 2016 – come l'abolizione delle imposte sull'abitazione principale e la proroga delle decontribuzioni per le nuove assunzioni a tempo indeterminato – sia delle maggiori entrate attese dalla voluntary disclosure;
    in concomitanza con la presentazione del DEF 2016 il governo è tornato a parlare del bonus di 80 euro, considerato dallo stesso documento come la misura che ha avviato, grazie al decreto-legge n. 66 del 2014 che lo ha istituito, la riforma strutturale del sistema fiscale, ipotizzando di estenderlo ai percettori delle pensioni più basse. Anche se al momento nulla è definito, ribadiamo che per noi il bonus (anche se ha avuto alcuni effetti positivi, ma assai parziali), così come è attualmente in vigore, è sostanzialmente criticabile, per tre principali motivi: l) esclude gli incapienti; 2) è limitato solamente ai lavoratori dipendenti; 3) è stato assegnato in una proporzione rilevante anche a individui che appartengono a nuclei familiari con redditi elevati, essendosi utilizzato come condizione di eleggibilità (means-testing) solo il reddito individuale. Quest'ultima criticità ha evidenziato che se l'obiettivo era di stimolare i consumi (considerata l'evidenza empirica che chi ha redditi bassi tende a consumare una quota maggiore del proprio reddito disponibile) e ridurre l'incidenza della povertà, la politica di trasferimento del reddito è finita nelle tasche sbagliate;
    la Legge di Stabilità 2016 ha inoltre previsto per il 2017 una diminuzione dell'aliquota IRES al 24 per cento dimostrando come il Governo, attraverso una diminuzione generalizzata dell'imposta sui profitti delle imprese, voglia continuare a volersi affidare al mercato nonostante le ripetute prove di inefficacia di questa strategia. È profondamente ingiusto, in un Paese ancora stretto dalla morsa della crisi e con un tasso di disoccupazione oltre l'11 per cento, diminuire in maniera generalizzata un'imposta sui profitti, scelta che, rispetto alle misure su IRAP e decontribuzione che almeno intervenivano sui costi seppur in modo non selettivo, appare un ingiustificato «regalo alle imprese»;
    allo stesso modo l'abolizione indiscriminata delle imposte su tutte le prime case appare una soluzione semplicistica e populista alla necessità reale di riordinare le imposte sul patrimonio per far concorrere alle finanze pubbliche anche i detentori di quelle grandi ricchezze ingessate, mobiliari e immobiliari, che se fossero destinate ad investimenti produttivi darebbero una spinta decisiva alla ripartenza dell'economia reale; Il PNR del DEF descrive inoltre le tappe della Delega fiscale 23 del 2014, senza individuare nella lotta all'evasione fiscale (che produce un mancato gettito erariale stimato tra i 90 ai 180 miliardi di euro annui nonostante il Governo non si esime dal «vantare» il trend positivo del recupero, pari nel 2015 a 14,9 miliardi, omettendo peraltro di dire che più della metà di queste somme derivano da tributi dichiarati e non, versati e da errori materiali) ed in una strategia organica per la riduzione strutturale della stessa, la vera «chiave di volta» per contrastare il debito pubblico ed uscire dal guado;
    non si può, in questa sede, non stigmatizzare come, da un lato, l'imposizione della fatturazione elettronica e, dall'altro, l'incentivo all'uso del contante più che della moneta elettronica e tracciabile appaia assai contraddittorio. Il contante è il principale strumento di evasione, quando non di corruzione e attività illecite, per cui la scelta, adottata con la legge di stabilità 2016, di innalzare la soglia massima a 3.000 euro continui a essere, senza mezzi termini, un favore agli evasori;
    sempre per richiamare la delega fiscale, anche il rallentamento della revisione del catasto rappresenta un grosso limite, così come la nuova disciplina dell'abuso del diritto (che sarebbe preferibile chiamare elusione fiscale) debba essere giudicata negativamente soprattutto perché ha cancellato una giurisprudenza di alta corte ormai sedimentata che considerava il principio antielusivo immanente nella Costituzione, di fatto equiparando l'elusione all'evasione;
    di contro, qualsiasi rivendicazione che faccia appello ad una nuova politica dei redditi che, a sua volta, abbia come asse centrale la crescita e lo sviluppo delle capacità produttive e competitive del Paese, con un marcato segno redistributivo verso il lavoro dipendente ed a sostegno delle fasce sociali più esposte, che le ristori ma che faccia anche ripartire i consumi, non può prescindere dal ricorso alla leva fiscale da utilizzare non solo per far emergere le diverse capacità economiche dei contribuenti, ma anche, e soprattutto, come strumento di sostegno allo sviluppo, di redistribuzione del reddito e di lotta al lavoro sommerso;
    larga parte dei redditi che non derivano da lavoro dipendente o pensione, e in particolare quelli da capitale, quelli derivanti da cespiti patrimoniali o dall'esercizio di lavoro autonomo e professionale, riescono ad evadere e/o eludere la tassazione personale, sottraendosi così alla progressività ed alla funzione/azione redistributiva del prelievo tributario, e costituendo solo un enorme giacimento di risorse indebitamente sottratto alla collettività, che alimenta quelle attività speculative i cui risultati perversi sono sotto gli occhi di tutti. In queste condizioni, in cui i titolari di redditi diversi da quelli da lavoro dipendente hanno ampi margini di discrezionalità e di valutazione soggettiva della loro base imponibile da utilizzare in sede di tassazione, il principio della progressività del prelievo fiscale (articolo 53 della Costituzione) rischia di confinarsi all'imposizione sui redditi delle persone fisiche sostanzialmente dei lavoratori dipendenti e dei pensionati;
    in questo stato di cose l'obiettivo, non più rinviabile per la tenuta della coesione sociale, di ridurre il prelievo fiscale sui redditi di lavoratori e pensionati e di assumere il sostegno alla famiglia come fattore di una maggiore equità distributiva, va intrapreso, ferma restando la tenuta complessiva dei conti pubblici, modificando la composizione del prelievo, compensando il minore gettito con una revisione dei tributi che colpiscono rendite e consumi, un percorso complementare che conduca ad una revisione delle modalità di tassazione del patrimonio e della proprietà, al fine di ricondurre a tassazione tutte quelle basi imponibili che oggi, per svariati motivi, risultano sfuggenti;
    altro punto non meno rilevante riguarda il discorso delle privatizzazioni previste dal DEF 2016 che per loro natura non possono fornire un gettito strutturale, ma solo una tantum ed il loro ricavato, previsto in mezzo punto di PIL dovrebbe abbattere – in misura peraltro minima – lo stock del debito senza incidere nel calcolo del deficit. Si legge al riguardo nel DEF che il programma di privatizzazioni per i prossimi anni prevede entrate pari allo 0,5 per cento del PIL l'anno per il 2016, 2017, e 2018 e allo 0,3 per cento nel 2019. Per il 2016 sono state fissate le modalità per l'alienazione di una quota fino al 49 per cento di Enav. Altre operazioni verranno attuate in corso d'anno in funzione degli obiettivi di gettito. La privatizzazione delle Ferrovie dello Stato o sue componenti rientrerà, comunque, nel programma di medio periodo del Governo. L'Esecutivo, insomma, prosegue la sua politica di privatizzazioni per far fronte a problemi di liquidità omettendo di evidenziare che il contributo che apporta alla riduzione del debito è minimo laddove la dismissione degli immobili pubblici si traduce molto spesso in nuovi costi aggiuntivi per lo Stato. In sintesi, da dove potrebbero arrivare tante risorse ancora non risulta chiaro e la logica di svendita del patrimonio pubblico continua. Peraltro, con riferimento al rapporto debito/PIL secondo le tabelle del DEF 2016 il debito dovrebbe passare nel 2016 al 132,4 per cento con un –0,3 per cento rispetto al 2015 (ipotesi tra l'altro smentita dalle previsioni del FMI), ma questo avverrebbe grazie ad un aumento del PIL chiaramente sovrastimato considerato che l'introito da privatizzazioni è tutto da verificare visto che più che vendite di svendite si tratta;
    per quanto attiene al nodo europeo il DEF 2016 chiede lo spostamento in avanti di un anno, e segnatamente al 2019, del pareggio di bilancio che questa stessa maggioranza aveva introdotto in Costituzione e per quanto attiene alla flessibilità si evidenzia che mentre nel 2016 la richiesta di flessibilità si fondava sulle cosiddette «riforme», per il 2017 si punta invece sulle «circostanze eccezionali» rappresentate dal «deterioramento globale della crescita» e dal bassissimo tasso d'inflazione. La prima reazione al DEF 2016 giunge al riguardo dal vicepresidente della Commissione, Jyrki Katainen secondo cui l'Italia è un Paese che ha già ricevuto molta flessibilità e non si può continuare a concederne altra, il che significa, in parole povere, che bisogna continuare a privatizzare, tagliare il welfare, ridurre i salari, tutto ciò che oggi viene decantato come riforma strutturale. Difficilmente l'Italia otterrà tutta la «flessibilità» richiesta, ma neppure una chiusura totale per evidenti motivi politici. Del resto stiamo parlando della programmazione che fa capo alle leggi finanziarie del 2017, l'anno delle fondamentali elezioni francesi, spagnole e del rischio per l'Unione europea di affrontare le forze centrifughe eventualmente seguenti all'eventuale Brexit. E dalla lettura del DEF 2016 dove appare evidente che il Governo si sta preparando a cavalcare proprio questa situazione quasi giocando d'azzardo, si conferma in ogni caso l'adesione totale all'approccio del bilancio europeo, fatto di tagli di spesa pubblica, tasse, sostegno ai profitti, riduzioni dei salari e delle protezioni: un approccio già responsabile della crisi economica in cui versa l'Italia;
    il DEF 2016 si conferma, dunque, al pari dei precedenti, come un Documento volutamente fumoso per avere mano libera e proseguire nell'opera di smantellamento dello Stato sociale e dei diritti dei lavoratori, con una proiezione di crescita incerta relegata ai decimali con investimenti pubblici concreti praticamente inesistenti in relazione alle politiche per il lavoro, lo sviluppo industriale e il rilancio del Mezzogiorno si evidenzia che recentissimamente l'Osservatorio sul precariato Inps, contraddicendo in pieno i dati ottimisti forniti dal Governo in materia di aumento dell'occupazione, ha rilevato che le assunzioni nel febbraio 2016, in totale 341.000, risultano in calo di 48.000 unità, in particolare quelle a tempo indeterminato, registrando quindi un meno 12 per cento rispetto al febbraio 2015, un calo già rilevato a Gennaio 2016. In questo modo si sancisce la fine degli effetti derivanti dai bonus contributivi alle imprese che assumono, tenuto conto del fatto che i contratti a tempo determinato restano stabili con 231.000 assunzioni a febbraio 2016;
    l'Ocse, peraltro, ha recentemente reso noto che il tasso di occupazione dei giovani dai 15 a 24 anni è migliorato nel quarto trimestre 2015, salendo al 40,5 percento dal 40,2 per cento del terzo trimestre e dal 39,8 per cento del quarto trimestre 2014. Nelle statistiche rese note dall'Ocse, l'Italia resta molto distante dalla media: è penultima dell'intera area, con un tasso di occupazione dei giovani al 15,9 per cento, per quanto in progresso di 0,1 punti sul terzo trimestre e 0,4 sul quarto trimestre 2014. Solo la Grecia ha un tasso peggiore. La fascia di età tra i 25 anni e i 55 anni nell'area Ocse segna un'occupazione del 76,7 per cento (+ 0,2 punti sul terzo trimestre), mentre tra i 55-64enni il tasso è del 58,5 per cento (dal 58,2 per cento). L'Italia è rispettivamente al 68,3 per cento (– 0,1 punti) e al 48,5 per cento (+ 0,2 punti);
    nella pubblica amministrazione la vera spending review è stata sostenuta dalle lavoratrici e dai lavoratori non a caso tra il 2009 e il 2015 la spesa per i redditi dei dipendenti pubblici è diminuita di 10 miliardi di euro e il numero dei dipendenti pubblici è calato di 110.000 unità;
    il blocco del turn over nel pubblico impiego non ha prodotto una razionalizzazione efficace e un miglioramento dei servizi e delle prestazioni ma è stata semplicemente una delle voci ragionieristiche di spending review i cui effetti si sono rilevati catastrofici per i lavoratori e per i cittadini;
    il programma «Garanzia Giovani» è fallito e si è risolto di fatto e sostanzialmente nell'offerta di tirocini, a fronte di ingenti risorse destinate al programma, i risultati non sono solo deludenti ma pessimi e perseverare su questo tipo di programmi rileva come da parte del Governo vi sia la pervicace volontà di proseguire in politiche occupazionali, in particolare rivolte ai giovani, buone solo per dare corso ad annunci simili a spot pubblicitari;
    si è assistito nel 2015, come riportato anche nel DEF 2016 ad una crescita dell'occupazione che si può definire dopata, che ha avuto un qualche timido risultato solo a fronte di consistenti sgravi fiscali, che tenuto conto dei costi valutati da molti studi in non meno di 14 miliardi euro, hanno sortito un effetto placebo sull'occupazione, visto il calo dei contratti registrato nel 2016 proprio in coincidenza con la diminuzione degli sgravi fiscali;
    dai dati forniti nel DEF 2016 Sezione I del Programma di Stabilità dell'Italia emerge che il jobs act nel 2015 non ha funzionato per i lavoratori compresi nelle fasce di età che vanno dai 15 ai 49 anni, visto che per costoro si sono registrate diminuzioni che vanno dal – 0,3 per cento tra i giovani di 15-24 anni, al – 0,6 per la fascia 25-34 anni, fino al – 1,1 per cento nella fascia 35-49 anni. Relativamente alle fasce 15-24 anni e 25-34 anni si sono manifestati segnali di recupero, solo nella seconda parte del 2015, smentiti poi dai dati dei primi mesi del 2016;
    sempre in materia di contrasto alla disoccupazione il Governo prevede che il tasso di disoccupazione nel 2016 sarebbe pari all'11,6 per cento mentre nel 2017 tendenzialmente sarebbe del 10,9, l'obiettivo perseguito è di portarlo al 10,8 per cento ovvero un obiettivo molto al di sotto della necessità e soprattutto lontanissimo dal tasso di disoccupazione registrato nel 2007 che era al 6 per cento;
    per quanto attiene alla previdenza è da segnalare la mancanza nel DEF 2016 di un apposito paragrafo che renda conto degli effetti delle riforme che si sono succedute negli ultimi anni, restano quindi aperte le questioni relative ad interventi aventi come obiettivo l'età del pensionamento e il tema della flessibilità che ad oggi per effetto di vincoli e rigidità si è risolto essenzialmente nell'innalzamento dell'età di pensionamento e nell'aumento degli anni di contributi necessari, anche in questo caso con effetti devastanti in relazione all'entrata nel mondo del lavoro da parte dei giovani;
    tra le altre gravi lacune che si riscontrano nel DEF 2016 figurano: l'assoluta mancanza di previsioni per sostenere le pensioni più basse, infatti non appare neanche come mero riferimento la questione degli 80 euro sulla quale il Governo si era espresso così come non si prevede il finanziamento dell'ottava clausola di salvaguardia che affronti la questione degli esodati. Mentre anche in maniera non esplicitata compiutamente si riapre l'ennesimo caso sulle pensioni di reversibilità;
    altro aspetto penoso riguarda lo sviluppo industriale del Paese contemplato dal DEF 2016 con particolare riferimento alle aree del Mezzogiorno. Dopo innumerevoli promesse e un'intera sessione in Parlamento a inizio 2016 sulle politiche per il Mezzogiorno, anche questa volta, quando ci si sarebbe aspettati di leggere azioni, numeri, tabelle e date ben ordinate nel cosiddetto «Masterplan per il Mezzogiorno», nulla di tutto ciò appare nel DEF 2016. Se si cerca qualche traccia della parola Mezzogiorno nel documento si rimane delusi. Solo cercando la parola «Masterplan per il Mezzogiorno» qualcosa, finalmente, si trova: Masterplan che «mira a sviluppare filiere produttive muovendo dai centri di maggiore vitalità del tessuto economico meridionale, accrescendone la dotazione di capacità imprenditoriali e di competenze lavorative». Frase che è talmente piaciuta da trovarsi con qualche leggera variazione altre due volte nello stesso documento e una volta in un altro allegato. Il Masterplan prevede 16 patti per il Sud – 8 per ciascuna regione meridionale e altrettanti per le 8 città metropolitane – e nei documenti se ne fa, in effetti, menzione. Ma niente di più di una generica definizione, purtroppo. Nulla su risorse, scadenze e azioni tese a risollevare le sorti del Mezzogiorno e delle sue città più rappresentative. Esiste solo qualche pagina con tutte le linee guida, già emesse a Novembre 2015, ma nessuna informazione di rilievo sui Patti per il Sud. Tutto è fermo a Novembre 2015, data dell'ultimo aggiornamento: sei mesi fa. Poi avendo riguardo all'Allegato Infrastrutture e Trasporti se ne ricava infine un quadro complessivo ancora più avvilente. Si legge, infatti, i trasporti carenti sono una vera e propria «minaccia» per lo sviluppo del Sud. Ma non è il rapporto Svimez a dirlo, bensì il Governo che punta il dito contro «la disomogenea distribuzione di infrastrutture e servizi sul territorio nazionale, per cui risultano svantaggiate, in termini di accessibilità, alcune aree del Mezzogiorno». A subire le conseguenze di trasporti inadeguati sono in particolare le filiere produttive meridionali e il turismo. Problemi che l'universo mondo conosce da tempo rispetto ai quali tuttavia il Governo non offre soluzioni precise senza contare che, attualmente, proprio nel settore dei trasporti a livello nazionale si sta attraversando una sorta di terra di mezzo: si è infatti stabilito formalmente di superare la Legge Obiettivo, ma non sono ancora stati varati né l'aggiornamento del Piano generale dei trasporti e della logistica (Pgtl) né il primo Documento pluriennale di pianificazione (Dpp), che dovrebbe riguardare il 2017-2019;
    l'Italia, tra le altre cose, continua a destinare meno risorse per il sostegno al tessuto economico e produttivo, rispetto agli altri Paesi europei. In base ai dati dello State Aid Scoreboard 2014 rispetto alla spesa totale in aiuti di Stato in termini relativi al PIL, nel 2013, l'Italia con circa lo 0,2 per cento del PIL si colloca ben al di sotto della media europea, 0,5 per cento del PIL europeo. L'Italia, nel corso degli ultimi dieci anni, ha progressivamente destinato sempre meno risorse in aiuti di Stato per il sostegno al tessuto economico e produttivo collocandosi in una posizione di fanalino di coda dell'Unione europea. Rispetto agli altri principali competitor europei, ad eccezione del Regno Unito che presenta un analogo livello di spesa, il gap di spesa per il nostro Paese è rilevante. Il divario, in particolare, risulta molto ampio rispetto alla Francia, che registra un valore pari allo 0,60 per cento del PIL;
    in relazione alla competitività delle imprese italiane, inoltre, il Governo annuncia l'adozione di un Piano nazionale anticontraffazione, a tutela delle imprese che proteggono con marchi, brevetti i propri asset intangibili. Attraverso l'adozione del Piano, il Governo, si propone di affiancare il Piano straordinario per il made in Italy, di cui al decreto-legge n. 133 del 2014 e legge di stabilità 2015, articolo 1, comma 202, di sostegno all'export e all'attrazione degli investimenti esteri, operativo per il periodo 2015-2017, implementato con ulteriori risorse nella legge di stabilità 2016, articolo 1, comma 370. Sotto tale profilo in materia di made in Italy, è da segnalare l’iter in corso di approvazione di un provvedimento relativo alla tracciabilità dei prodotti attraverso l'apposizione di segni unici e non riproducibili con codici a barre bidimensionali, attraverso l'adesione volontaria da parte di imprese, che rappresenta un primo passo verso il «made in» ma è necessario che l'Italia in sede di Unione europea si attivi per l'adozione del regolamento sul «made in»;
    in relazione alla Scuola, Università e la Ricerca si evidenzia che tra le priorità per il 2016 individuate dall'Analisi annuale della crescita della Commissione europea del 26 novembre del 2015 (COM(2015) 690 final) è stato incluso il rilancio degli investimenti, i quali «devono andare oltre le infrastrutture tradizionali e comprendere il capitale umano e i relativi investimenti sociali», alludendo agli investimenti intelligenti nel capitale umano dell'Europa e a quelle riforme orientate a garantire sistemi di istruzione e formazione di qualità, con conseguente miglioramento dei risultati, capaci di rilanciare l'occupazione e la crescita sostenibile;
    di contro, nella parte di prospettiva del DEF dedicata al Programma di riforma nazionale, il capitolo ricerca, scuola ed università non riserva particolari sorprese e non fa minimamente accenno della condizione in cui versano attualmente la scuola, l'università e la ricerca pubblica in Italia, specchio di quell'incessante processo di disinvestimento del nostro Paese sul proprio futuro. Infatti, in uno scenario globale nel quale tutti i Paesi industrializzati per uscire dalla crisi investono in sapere, formazione e ricerca, l'Italia procede nella più grande e sistematica operazione di distruzione del sistema di istruzione, università e ricerca investendo meno dell'1 per cento del suo PIL in R&S, contribuendo in questo modo, oltre che a dequalificare complessivamente didattica e ricerca, a costruire una scuola ed un'università sempre più classiste, e a provocare un'espulsione di massa di tutti quei tanti lavoratori precari che in questi anni hanno permesso, con la loro dedizione, il funzionamento del nostro sistema formativo;
    ed invero la ricerca in Italia è particolarmente trascurata rispetto a quella degli altri Paesi europei: non c’è classifica, con i parametri più diversi per verificarne il livello quantitativo e qualitativo, che non ci veda relegati agli ultimi posti. Secondo le ultime statistiche OCSE, infatti, l'anno 2015 si è chiuso confermando a livello internazionale quel trend di flessione degli investimenti pubblici in università e ricerca che si protrae dal 2010, quadro nel quale il nostro Paese, inginocchiato da una crisi frutto anche di mancate scelte di investimento nella conoscenza e nelle filiere alte del valore, si distingue per un colposo e costante disimpegno che conferma il sottofinanziamento cronico dell'intero settore e che, con una quota di finanziamenti erogati pari all'1,1 per cento del PIL, contro il 2 per cento destinato in media dagli altri Paesi europei, è capace di evocare lo spettro di una strisciante desertificazione culturale, scientifica e tecnologica;
    invero, la globalizzazione dell'economia e l'impetuoso sviluppo di Paesi come l'India e la Cina uniti all'accelerazione tecnologica, hanno determinato negli altri la necessità di aumentare la competitività dei propri settori produttivi, ricorrendo a nuove ricerche e sperimentazioni, al fine non solo di migliorare le condizioni di vita dei singoli individui ma anche di contribuire, in modo più incisivo, al proprio sviluppo economico: in tale accezione, la ricerca, sia pubblica che privata, rappresentando uno dei settori fondamentali e strategici per accrescere lo sviluppo culturale e la competitività economica e tecnologica di una nazione, è chiamata ad assurgere al ruolo anticiclico di driver della crescita di lungo periodo. Del resto, anche nell'ambito delle teorie dello sviluppo economico uno degli assiomi maggiormente condivisi è quello del nesso che lega gli investimenti in ricerca e innovazione di un'economia alla loro capacità di accrescere il livello di benessere nel tempo;
    la ricerca in Italia è un settore da tempo sotto osservazione per altre ragioni: accanto alla suddetta scarsa attenzione da parte delle istituzioni ed alla carenza di risorse pubbliche e private, si deve lamentare anche la cattiva gestione delle stesse e l'incapacità di incrementare il capitale umano che vi si dedica, tanto che si assiste al costante fenomeno di trasferimento in università ed imprese straniere di ricercatori italiani e scienziati (cosiddetta «fuga di cervelli») che negli altri Paesi trovano condizioni migliori per esprimere i propri talenti. Altro fattore critico è quello dell'incertezza dei tempi di finanziamento o di rimborso delle risorse: nel nostro Paese, infatti, accanto a schizofreniche disposizioni incentivanti, come il riconoscimento di un credito d'imposta per investimenti in ricerca ed innovazione, convive una burocrazia che inibisce l'operatività dei programmi comunitari e blocca l'avvio dei bandi pubblici: insomma un mix di concause che determinano quello noto oramai come il «paradosso italiano», in virtù del quale continuiamo a contribuire ai fondi europei in misura nettamente maggiore rispetto all'entità dei finanziamenti che, con l'esiguo numero dei nostri ricercatori, riusciamo ad attrarre. A tutto questo occorre aggiungere anche l'attività di ricerca diffusa ma sommersa, che sfugge alle rilevazioni statistiche e che consente all'Italia di essere, comunque, all'avanguardia in diversi settori;
    sul fronte della mobilità dei ricercatori, la scarsa attrattività dell'Italia ha portato all'estero, come si è appena visto, già molti di essi, e cioè circa 15.000 unità, creando nella ricerca un vero e proprio buco generazionale e facendoci perdere competitività rispetto agli altri Stati membri: un regalo di intelligenze non compensato da contestuali ingressi dall'estero. Secondo recenti rilevazioni, infatti, le uscite sono pari al 16,2 per cento mentre gli ingressi dall'estero sono fermi al 3 per cento. Nel 2013 operava in Italia un numero di ricercatori pubblici e privati pari a 164 mila unità (4,9 ogni 1.000 occupati), mentre negli altri maggiori Paesi europei, la presenza di ricercatori è più numerosa e capillare: 357 mila in Francia (9,8 ricercatori per 1.000 occupati); 522 mila in Germania (8,5); 442 mila nel Regno Unito (8,7); 216 mila in Spagna (6,9);
    eppure l'istruzione universitaria è un investimento pubblico che si ripaga nel medio periodo: per i giovani che la frequentano per il quali oltre all'acquisizione di conoscenze e competenze, che consentono di svolgere attività maggiormente retribuite, essa rappresenta il principale fattore di mobilità sociale se si pensa che nel nostro Paese oltre il 70 per cento degli studenti universitari appartiene a famiglie in cui nessuno dei genitori è in possesso di una laurea; per le imprese, perché disporre di una forza lavoro con elevato grado di istruzione aumenta la competitività e rende possibile un maggiore tasso d'innovazione;
    dunque anche le politiche di reclutamento del personale universitario sono da ripensare. È oltremodo prioritario e doveroso affrontare l'attuale condizione di gravissima carenza di personale se si vuole evitare che il sistema universitario pubblico si avviti in una spirale di declino irreversibile, sottraendo all'Italia quegli strumenti indispensabili di innovazione e crescita culturale, economica e sociale di cui le Università da sempre sono centri insostituibili di sviluppo e disseminazione;
    il sotto-dimensionamento del corpo docente universitario italiano, e più in generale del complesso degli addetti alla ricerca universitaria, emerge evidente dal confronto europeo, e peggiora ogni anno di più. La consistenza numerica attuale è in Italia inferiore di almeno il 25 per cento alla media dei valori di Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, solo per limitarsi ai Paesi più simili al nostro per dimensioni e tradizioni;
    per l'effetto combinato della riduzione dei finanziamenti, dei blocchi del turnover e dei concorsi, e dell'abbassamento dell'età di pensionamento, negli ultimi sette anni si è verificato un crollo verticale del numero di docenti in servizio, pari a meno 30 per cento per gli ordinari, e meno 17 per cento per gli associati, superiore alla contemporanea modesta riduzione del numero degli studenti. A questo si aggiungano gli effetti derivanti dal graduale esaurimento della cosiddetta terza fascia prevista dalla normativa vigente;
    numerose analisi dimostrano che in assenza di interventi normativi che sblocchino l'attuale limite al turnover previsto dall'attuale regime per le assunzioni delle università statali, si assisterà da un'ulteriore pesante contrazione del corpo docente che comporterà nel 2018 il dimezzamento del numero dei professori ordinari in servizio, rispetto a quello del 2008. Effetti analoghi si avranno sempre nel 2018, nell'ipotesi in cui nel frattempo non si proceda ad alcuna nuova assunzione o promozione dei professori associati, con una sensibile riduzione degli stessi pari al 27 per cento rispetto a quelli in servizio nel 2008. L'attuale normativa, infatti, prevede che nel 2016 risulti spendibile per il reclutamento il 60 per cento del turnover, per poi passare all'80 per cento nel 2017 e solo a partire dal 2018 a stabilizzarsi al 100 per cento;
    altrettanto improponibile è la persistente chiusura del sistema universitario ai giovani ricercatori, aggravata ancora una volta da interventi normativi (come la suddetta messa ad esaurimento della fascia dei ricercatori) che, sconvolgendo il regime ordinario di carriera nell'organico docente, per di più in un contesto di carenza di risorse, hanno innescato incertezze e meccanismi di instabilità esiziali per l'ordinaria attività didattica e di ricerca;
    eppure la condizione del ricercatore a tempo determinato oltre ad essere centrale nel meccanismo di reclutamento universitario, vista la sua funzione di traghettamento verso posizioni a tempo indeterminato, assolve, allo stesso tempo, seppur in modo disordinato ed improprio, il compito di supporto formale alla permanenza nei dipartimenti per tanti giovani attivi ed interessati alla ricerca, sempre più spesso diretti responsabili del funzionamento di corsi di laurea e di dottorato;
    attualmente, la gran parte dei ricercatori italiani usufruisce di assegni di ricerca, cioè di una forma di contratto di lavoro parasubordinato che però non da luogo a tutele degne di questo nome, nemmeno nel caso di periodi, purtroppo sempre più frequenti, di disoccupazione. Essi non si vedono, infatti, riconosciuta la DIS-COLL rende evidente quanto siano necessarie spinte «esterne», affinché all'attività di ricerca dei precari possa essere attribuito un degno riconoscimento, come nel resto d'Europa. Lasciando pertanto fuori dal sistema di protezione sociale decine di migliaia di persone già sottoposte a condizioni contrattuali ed economiche di precarietà e che, nonostante questo, contribuiscono con passione alla crescita e allo sviluppo del nostro Paese, offrendo un lavoro invisibile che si cela dietro il progredire della conoscenza. Una generosità, quella dei precari, non ripagata visto che negli ultimi dieci anni più del 93 per cento di essi è stato espulso dagli atenei italiani;
    se è vero che il declino dell'università è una questione nazionale, non vi è dubbio tuttavia che una serie di fenomeni preoccupanti si concentra maggiormente al Sud, dove si acuiscono le distanze rispetto al Nord del Paese, generando un «nuovo divario» che esacerba la questione meridionale, determinandone una nuova all'interno dell'università italiana tra atenei del settentrione e quelli del meridione, attribuibile non solo al calo delle risorse generali, ma anche al rapporto tra valutazione dei sistemi accademici locali ed investimenti in arruolamento di nuovi docenti;
    tra il 2007 e il 2015, gli immatricolati sono calati del 13 per cento, un calo che assume proporzioni maggiori nel Sud raggiungendo un valore prossimo al 21 per cento: rispetto alla contrazione di 40.000 giovani, ben 27.000 mila riguardano il Mezzogiorno. Il calo osservato in tale area del Paese assume poi dimensioni drammatiche con riferimento alle immatricolazioni: 16.000 dei 17.000 mila giovani in meno risiedono nel Mezzogiorno;
    tale situazione è anche generata dall'eccessivo onere finanziario che grava sugli studenti. In dimensione comparativa, il nostro Paese non solo destina poche risorse pubbliche al sistema universitario, ma ha anche la tassazione studentesca tra le più alte d'Europa. Inoltre anche il sistema di attribuzione delle borse di studio, affidato alle regioni attraverso un meccanismo redistributivo, di fatto pone il finanziamento a carico degli stessi studenti universitari;
    in termini sociali chi patisce di più il fortissimo aumento delle tasse universitarie e l'inconsistenza del diritto allo studio sono le famiglie più povere, con un effetto negativo sulla dinamica della diseguaglianza nel nostro Paese;
    sul fronte della scuola il documento si limita a fare, peraltro con particolare enfasi, un excursus di quanto già attuato e di quanto si deve attuare relativamente alla riforma della cosiddetta Buona scuola, che appare ad oggi, a quasi un anno di distanza dalla sua approvazione, un cantiere per molti versi ancora aperto: il piano straordinario di assunzioni in essa contenuto è da leggere come diretta conseguenza della sentenza della Corte di giustizia europea, ma non è sufficiente, neanche alla conclusione del percorso, a coprire le carenze di organico nel personale docente, mentre nulla è stato fatto sul versante del personale amministrativo, tecnico ed ausiliare che pure ricopre un ruolo fondamentale nel corretto funzionamento dell'istituzione scolastica; così come l'assunzione di personale è soltanto una parte di un disegno complessivo che dovrebbe riportare la scuola al ruolo che le compete senza però rappresentare quella tanto attesa ed adeguata soluzione al fenomeno del precariato storico nella scuola capace di evitarne la sua ricostituzione;
    una riforma, quella della cosiddetta buona scuola, che per colmare l'enorme divario formativo col resto d'Europa necessiterebbe di risorse certe e adeguate, che invece tenta di supplire all'insufficienza degli investimenti pubblici con le «sponsorizzazioni» e con la concessione di crediti d'imposta a cittadini ed imprese per donazioni alle scuole. In questo modo l'intervento dei privati dovrebbe sostituirsi alla scarsità degli investimenti dello Stato, con il rischio di creare e accrescere le forti diseguaglianze tra scuole di aree economico-sociali diverse, con buona pace dell'uguaglianza d'accesso di tutti i cittadini al diritto allo studio e del carattere nazionale e unitario del sistema d'istruzione;
    l'autonomia scolastica e le scuole italiane per rispondere al meglio al diritto ad un'istruzione di qualità e alle esigenze formative e di valorizzazione delle risorse di un territorio, hanno bisogno di risorse umane e finanziarie adeguate e costanti;
    in un mondo dominato oramai dall'economia della conoscenza, la ricerca insieme all'istruzione sono i pilastri su cui si costruisce il futuro e la prosperità di un Paese, pertanto un Paese che non investe in ricerca, sviluppo e cultura è condannato a non avere futuro;
    in relazione alle politiche sociali e per la salute si evidenzia che nel DEF 2016 si segnala la totale assenza di qualsiasi riferimento alla revisione dell'ISEE, neanche in riferimento agli effetti delle nuove modalità di calcolo, anche tenuto conto delle sentenze del Tar del Lazio e della recente sentenza del Consiglio di Stato, in merito alla quali recentemente la Camera dei deputati ha approvato diverse mozioni presentate di Gruppi Parlamentari.
    a fronte di una profonda crisi economica che dura ormai da più di otto anni, e che colpisce fortemente fasce sempre più larghe della popolazione, e che richiederebbe di conseguenza un serio Programma di contrasto alla povertà, il Governo si limita a richiamare semplicemente l’iter avviato alla Camera del disegno di legge delega per il contrasto alla povertà;
    a fronte di un aumento tra il 2008 e il 2014 di circa un terzo, da 11 a 15 milioni di persone, dei cittadini con un reddito al di sotto della soglia di povertà, il disegno di legge delega mira a far uscire dalla soglia di povertà assoluta circa 280 mila famiglie rispetto ai circa 1,5 milioni di famiglie che si trovano in questa condizione. Il miliardo stanziato dal Governo con l'ultima Legge di stabilità, è solamente una piccolissima parte dei circa 7 miliardi stimati che sarebbero necessari per sostenere realmente le famiglie e le persone in povertà assoluta;
    non c’è alcun percorso di avvicinamento ad una garanzia di reddito per tutti quelli che si trovano in povertà assoluta, ma si assiste solamente a un sostegno per una piccolissima parte, circa un quinto, dei poveri assoluti;
    in pratica si conferma l'assenza, di una credibile politica di reale contrasto alla povertà nel nostro Paese;
    in tale contesto è da segnalare che nella parte del DEF in esame, relativa alle misure di contrasto alla povertà, si fa ancora riferimento alla necessità (espressamente prevista nella citata legge delega) di prevedere misure di razionalizzazione delle «prestazioni di natura assistenziale» nonché le «prestazioni di natura previdenziale», che tante polemiche, queste ultime, hanno sollevato e la cui soppressione è chiesta con forza da molte parti anche di maggioranza della Commissione Lavoro, mentre viene riaffermato il riferimento all'universalismo selettivo;
    altro tasto dolente del DEF 2016 riguarda l'intervento del Governo sul fronte delle politiche per gli asili nido. Se ne parla a pagina 88 del «Programma Nazionale di Riforma» ove si fa riferimento al Rifinanziamento del Fondo per il rilancio del Piano sviluppo servizi socio educativi per la prima infanzia (100 milioni per il rilancio del piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio educativi per la prima infanzia). Si legge poi, appena due pagine dopo, «infine si proseguirà attraverso il Piano straordinario triennale per lo sviluppo dei servizi socio educativi per la prima infanzia al fine di garantire politiche familiari che favoriscano la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Ossia il nulla;
    dal DEF 2016 non si evince nessun intervento strutturale per sostenere la presenza omogenea su tutto il territorio nazionale degli asili nido che rispondano alle esigenze effettive del Paese e il pur positivo richiamo al rifinanziamento (100 milioni di euro) del Fondo per il rilancio del Piano sviluppo servizi socio educativi per la prima infanzia, risulta del tutto inadeguato e insufficiente;
    la questione asili nido assume un ruolo centrale sia in relazione ai tempi di vita e di lavoro ma anche e soprattutto perché rappresentano la base per il sostegno all'inserimento nel mondo del lavoro delle donne;
    secondo il DEF 2016 in esame, la spesa sanitaria dovrebbe arrivare a 114,7 miliardi di euro nel 2017, a 116,1 nel 2018 e a 118,5 di euro nel 2019;
    ancora una volta la spesa sanitaria in rapporto al PIL andrà diminuendo. Il che significa che in termini reali la fetta di risorse spettante alla sanità pubblica continuerà a ridursi ancora;
    di fatto prosegue il definanziamento in termini reali della sanità pubblica per i prossimi anni, con una conseguente riduzione delle tutele;
    nel 2010 la spesa sanitaria in rapporto al PIL era del 7 per cento; nel 2015 era del 6,9; nel 2019 sarà del 6,5 per cento. Per ritornare ai livelli spesa sanitaria/PIL del 2010, secondo le indicazioni del Governo contenute in questo DEF, si dovrà aspettare il 2030-2035. Ossia bisognerà attendere 15-20 anni;
    dati confermati anche dal Rapporto Sanità a cura di C.R.E.A. Sanità-Università di Roma Tor Vergata, presentato nell'ottobre 2015, secondo il quale la spesa sanitaria italiana è del 28,7 per cento più bassa rispetto ai Paesi EU14, con una forbice, anche in percentuale del PIL, che si allarga anno dopo anno;
    in relazione alle politiche abitative si evidenzia che nel DEF 2016 si parla di casa e politiche abitative nella sezione III «Programma Nazionale di Riforma», e si afferma che per l'emergenza abitativa (in realtà sarebbe preferibile usare il termine di «precarietà abitativa») al fine di sostenere l'affitto a canone concordato (cosa alquanto improbabile visto che l'ultima legge di stabilità ha azzerato dal 2016 il fondo contributi affitto), ampliare l'offerta di alloggi popolari e sviluppare l'edilizia residenziale sociale sarebbero disponibili 1,8 miliardi di euro. In realtà questa cifra è la somma complessiva di risorse destinate ad alcuni interventi dal 2014 al 2020 e la gran parte delle risorse citate sono ascrivibili al fondo di garanzia per i mutui prima casa nonché per l'efficienza energetica che pur essendo temi importanti certo non affrontano il nocciolo della cosiddetta «emergenza abitativa» che vede in particolare la presenza di 650.000 famiglie collocate utilmente nelle graduatorie comunali e circa 80.000 sentenze di sfratto emesse annualmente, delle quali il 90 per cento per morosità incolpevole;
    in materia di immigrazione il DEF 2016 non prevede nulla di nuovo rispetto a quanto già fatto. Si fa riferimento alla «emergenza migranti» e si ribadisce esattamente quanto già portato a conoscenza nel Draft Budgetary Plan dello scorso ottobre, quando il Governo Italiano ha richiesto all'Unione europea di riconoscere la natura eccezionale dell'impatto economico e finanziario del fenomeno migratorio. Nel Draft Budgetary Plan il governo indicava una spesa collegata all'emergenza dei rifugiati pari a 3,3 miliardi di euro (0,2 per cento del PIL) per ciascuno dei due anni 2015 e 2016. Secondo le cifre del Governo l'impatto sul bilancio dell'emergenza migranti, in termini di indebitamento netto e al netto dei contributi dell'Unione europea, è attualmente quantificato in 2,6 miliardi per il 2015 e previsto pari a 3,3 miliardi per il 2016. Ovviamente le previsioni sono fatte presupponendo il mantenimento dello scenario costante, ovvero non prevedendo ulteriori arrivi di migranti. Il DEF non contiene alcuna previsione di riforma rispetto all'attuale sistema dell'accoglienza ed esclusivamente elenca i dati degli arrivi e da un quadro sommario dei migranti ospitati nelle strutture. Con riferimento all'accordo UE-Turchia sulla espulsione dei migranti dalla Grecia verso la Turchia che prevede un contributo complessivo dell'UE pari a 3 miliardi, la quota direttamente a carico dell'Italia ammonta a circa 225 milioni di euro, ripartito su un arco pluriennale. Non c’è alcuna valutazione degli oneri indiretti dell'integrazione sociale complessiva degli immigrati nel Paese, così come manca un piano positivo di integrazione per gli oltre 110 mila ospiti delle strutture. Con riferimento al 2016 mentre aumentano le spese per l'accoglienza, diminuiscono drasticamente quelle per la sanità e l'istruzione riferiti a migranti;
    con riferimento alla difesa la riforma delle forze armate consentirà di riequilibrare la spesa della difesa convogliandola, a dire del Governo, verso maggiori investimenti. Tale riforma ha portato all'adozione di uno schema di decreto legislativo approvato a febbraio 2016 e ora all'attenzione della Commissione Difesa di Camera e Senato. Il provvedimento prevede, tra le altre cose, riduzione degli assetti organizzativi, ordinativi e strutturali delle Forze armate, razionalizzazione e standardizzazione dei corpi. Ad ogni modo non vengono riportati le cifre di quanto questo presunto risparmio di spesa comporterebbe. Ulteriormente si prevede che nel corso del 2016 il settore della Difesa sarà oggetto di successivi interventi (con leggi di delega e previsioni immediatamente attuative) volti a rendere operativo il «Libro Bianco della Difesa» e il relativo programma di riforma. Tutti questi interventi non vengono precisati;
    riguardo agli interventi per l'edilizia scolastica, il DEF 2016, riporta come per il periodo 2015/2017 sono stati approvati oltre 6.000 interventi (per un fabbisogno totale di 3,7 miliardi);
    nuove risorse, ricorda il Documento in esame, sono state stanziate con la Legge di stabilità 2016: 480 milioni di esclusione dai vincoli di bilancio per gli Enti locali; 1,7 miliardi aggiuntivi per il periodo 2016-2025, che però significano 170 milioni l'anno, ossia 8,5 milioni l'anno per ciascuna regione; alle Province e Città Metropolitane è attribuito un contributo complessivo di 495 milioni per il solo 2016, e 470 milioni dal 2017 al 2020, ossia meno di 120 milioni l'anno e quindi 6 milioni per ogni regione;
    va ricordato che al 1o marzo 2016, alla struttura tecnica di missione per l'edilizia scolastica, sono arrivate oltre 1.800 richieste di prenotazioni per investimenti in edilizia scolastica, per un importo che sfiora il doppio dei 480 milioni ora disponibili;
    il traguardo che ci si era posti, delle 41.000 scuole da mettere a norma, è quindi ancora lontano. Si stima che per la messa a norma di questi 41.000 plessi scolastici servirebbero ancora 3 miliardi di euro. Inoltre i dati a disposizione confermano che le risorse del Fondo Kyoto da utilizzare per l'efficientamento delle scuole, è stato finora utilizzato solo per il 28 per cento;
    anche quest'anno la lettura del Documento di economia e finanza mostra la pochezza delle misure che questo Esecutivo ha avviato e prevede di mettere in atto in campo ambientale;
    i pochissimi provvedimenti positivi approvati non sono infatti ascrivibili all'azione di questo Governo: la legge sugli ecoreati, attesa da anni e finalmente approvata definitivamente, è stato un provvedimento di iniziativa parlamentare; il Collegato ambientale approvato con la legge n. 221 del 2015, e che certamente contiene norme importanti per la tutela ambientale, nasce da un disegno di legge presentato dall'allora Ministro dell'Ambiente Orlando del Governo Letta;
    per il resto il Governo attuale si è caratterizzato per l'approvazione del decreto «sblocca Italia», uno dei provvedimenti più nocivi per la tutela dell'ambiente, e anche riguardo alle iniziative in materia di impulso alle energie rinnovabili, questo esecutivo si è caratterizzato principalmente nell'aver tagliato gli incentivi alle energie verdi, peraltro in maniera retroattiva, con il decreto-legge cosiddetto «spalmaincentivi»;
    nulla si dice e si prevede riguardo alle risorse, attualmente insufficienti, che dovrebbero essere stanziate per le bonifiche, a cominciare dalle bonifiche da amianto, e per programmi di tutela e la messa in sicurezza del nostro territorio;
    il DEF per il 2016 afferma solo che è in fase di definizione un provvedimento legislativo (così detto Green Act), volto al completamento dell'azione per la sostenibilità ambientale, contenente misure finalizzate alla decarbonizzazione dell'economia, all'efficienza nell'utilizzo delle risorse, alla protezione e al ripristino degli ecosistemi naturali e alla finanza per lo sviluppo, azioni strategiche per il sistema produttivo dell'Italia. Il cronoprogramma del DEF 2016 prevede la definizione del Green Act entro il 2017, si tratta in effetti di un rinvio ulteriore in quanto già il DEF 2015 prospettava il Green Act entro il giugno 2015, che avrebbe dovuto contenere misure in materia di efficienza energetica, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, con particolare riguardo alla rigenerazione urbana, nonché per l'uso efficiente del capitale naturale;
    in materia di trasporti, con particolare riferimento al trasporto ferroviario, il DEF 2016 afferma che la strategia di investimenti per la rete ferroviaria costituisce una delle priorità del Governo in materia di trasporti e infrastrutture. A tal fine vengono citati gli investimenti previsti nei contratti di programma relativi alle ferrovie: 9 miliardi di euro destinati all'aggiornamento del Contratto di Programma con RFI ed altri 8 miliardi di euro che vengono annunciati dal Governo per il 2016;
    il Governo afferma che tali risorse saranno destinate a migliorare la sicurezza e le tecnologie di circolazione dei treni, a potenziare il trasporto passeggeri nelle aree metropolitane, regionali e lungo i corridoi europei;
    rimangono prioritari gli obiettivi di sicurezza, qualità ed efficientamento delle infrastrutture assicurando continuità ai programmi manutentivi del patrimonio infrastrutturale esistente, per i quali si prevede la programmazione degli interventi di manutenzione delle infrastrutture esistenti, il miglioramento del livello di servizio e della sicurezza delle infrastrutture, il potenziamento tecnologico delle infrastrutture e incentivi per lo sviluppo di Sistemi di Trasporto Intelligenti;
    tra le linee strategiche rientra l'obiettivo stabilito dal Governo per lo sviluppo urbano sostenibile, attraverso la così detta «cura del ferro», l'accessibilità alle aree urbane e metropolitane, la qualità e l'efficienza del trasporto pubblico locale, la sostenibilità del trasporto urbano e le tecnologie per città intelligenti;
    la Commissione europea, nel documento sugli squilibri macroeconomici, evidenzia che gli investimenti in infrastrutture di trasporto sono scesi rapidamente da un picco dell'1,6 per cento del PIL nel 2006 allo 0,5 per cento nel 2013 e che la qualità delle infrastrutture di trasporto italiane è ancora bassa nonostante un certo miglioramento;
    del resto, le ragioni della drammatica situazione in cui vivono i pendolari nel nostro Paese sono chiare. I treni innanzitutto risultano essere sono troppo vecchi. In Italia attualmente sono circa 3.300 i treni in servizio nelle regioni con convogli di età media pari a 18,6 anni, con differenze però rilevanti da regione a regione. In secondo luogo i treni risultano essere troppo pochi. Dal 2010 a oggi, complessivamente, si possono stimare tagli pari al 6,5 per cento del servizio ferroviario regionale proprio quando nel momento di crisi è aumentata la domanda di mobilità alternativa più economica rispetto all'auto, anche se con differenze tra le diverse regioni;
    tra il 2010 e il 2015 il taglio ai servizi ferroviari è stato pari al 26 per cento in Calabria, 19 per cento in Basilicata, 15 per cento Campania, 12 per cento in Sicilia;
    inoltre, il maggior aumento del costo dei biglietti è stato in Piemonte con +47 per cento mentre è stato del 41 per cento in Liguria e del 25 per cento in Abruzzo e Umbria, a fronte di un servizio che non ha avuto alcun miglioramento;
    il trasporto pendolare dovrebbe rappresentare una priorità delle politiche di Governo, sia perché risponde a una esigenza reale e diffusa dei cittadini, sia perché, se fosse efficiente, spingerebbe sempre più persone ad abbandonare l'uso dell'auto con vantaggi ambientali, climatici e di vivibilità delle nostre città;
    ad oggi, tuttavia, un cambio di rotta delle politiche di mobilità ancora non si vede. Al contrario degli altri Paesi europei, in Italia negli ultimi 20 anni neanche un euro è stato investito dallo Stato per l'acquisto di nuovi treni. Alcune regioni hanno fatto investimenti attraverso i contratti di servizio, altre più virtuose, individuando risorse nel proprio bilancio o orientando in questa direzione i fondi europei. In assenza di una regia nazionale ci si trova sempre di più di fronte a un servizio di serie A, per i treni ad alta velocità, di serie B nelle regioni che hanno individuato risorse per evitare i tagli, e di serie C nelle altre regioni;
    il trasporto ferroviario italiano conta treni troppo vecchi, lenti e lontani dagli standard europei di frequenza delle corse. Negli ultimi dieci anni sono stati realizzati alcuni interventi per la sostituzione del materiale rotabile, ma ciò non basta assolutamente. Perché occorre aumentare il servizio con nuovi treni, a partire dalle linee più frequentate e smettere immediatamente di attuare politiche fondate sui tagli agli investimenti per il trasporto pubblico locale e ferroviario;
    l'unico aspetto positivo che riguarda la drammatica situazione in cui versano i pendolari in Italia si trova a pagina 450 del PNR ove si legge, e ciò probabilmente a seguito della mozione integralmente approvata dal Parlamento presentata dal Gruppo Sinistra Italiana che si sta valutando la possibilità di introdurre misure innovative per sostenere l'uso del mezzo pubblico attraverso la detrazione fiscale degli abbonamenti e agevolazioni fiscali per le spese sostenute dai datori di lavoro a favore dei dipendenti e di loro familiari per l'utilizzo del servizi TPL. Ma siamo ancora alle valutazioni;
    a tutto questo fa da contraltare la circostanza che gli investimenti in mezzi di trasporto 2015 + 19,7 per cento e 2016 + 14,3 per cento. Sono dati che poi rientrano (2017 + 2,4 per cento) ma che indicano chiaramente come la ripresina italiana alla fine sia stata trainata dagli acquisti di auto... con buona pace dei nuovi modelli di consumo;
    con riferimento al trasporto aereo nell'allegato contenente le «Strategie per le infrastrutture di trasporto e logistica» il risultato che si intende conseguire è quello di un miglioramento dell'efficienza nel trasporto aereo nell'ambito della strategia riguardante la valorizzazione del patrimonio esistente. Sono delineate pertanto le direttrici, attuative del Piano nazionale sopra ricordato, su cui fondare le condizioni di uno sviluppo organico del settore con l'obiettivo principale di favorire la specializzazione degli aeroporti e superare la conflittualità fra aeroporti prossimi incentivando la costituzione di sistemi e reti aeroportuali;
    il Fondo Speciale per il Trasporto Aereo (FSTA) è stato istituito dall'articolo 1-ter del decreto-legge n. 249 del 2004 convertito dalla legge n. 291 del 2004. In base alla legge istitutiva, il Fondo ha il fine di intervenire in casi di crisi di aziende del settore del trasporto aereo, per erogare specifici trattamenti a favore di lavoratori interessati da riduzioni dell'orario di lavoro, da sospensioni temporanee dell'attività lavorativa o da processi di mobilità; finanziare programmi formativi di riconversione o riqualificazione, tale istituto venne introdotto per gestire importanti vertenze come quella Alitalia e di altre primarie aziende del settore aereo-aeroportuale: una successione di interventi mirati, in assenza di una crisi del comparto, ad espellere personale a più alto costo per sostituirlo con personale senza diritti, precario e con salari inferiori. Il FSTA consente ai lavoratori del comparto aereo-aeroportuale di beneficiare di un trattamento integrativo affinché, ad esempio, alla indennità di mobilità e a quella di Cigs possa essere aggiunta una prestazione che porti l'indennizzo percepito dal lavoratore fino all'80 per cento della retribuzione dell'anno precedente alla sospensiva stessa o al licenziamento. Tale prestazione del FSTA è quindi sostanzialmente integrativa. Nell'ambito della prevedibile trasformazione del FSTA in fondo di solidarietà, come sancito dalla Riforma Fornero, ad agosto del 2014 sono stati stipulati degli accordi al Ministero del Lavoro, tra le OO.SS. maggiormente rappresentative del settore e le associazioni datoriali del comparto, per l'erogazione di una prestazione che prolungasse, al termine della indennità di mobilità, il sostegno al reddito dei lavoratori licenziati dopo il luglio del 2014 stesso. Tale prestazione, non più solo integrativa, ma di fatto «sostitutiva» degli ammortizzatori sociali avrebbe dovuto assicurare un sostegno ai lavoratori licenziati, a partire da coloro che a fine 2015, cioè ad 1 anno dall'espulsione dal lavoro, avendo un'età anagrafica inferiore ai 40 anni, sarebbero rimasti senza alcun sostegno economico;
    in realtà a tutt'oggi sono diverse centinaia i lavoratori licenziati dopo luglio 2014 che, pur avendo terminato la indennità di mobilità, non percepiscono la prestazione prevista e annunciata negli stessi accordi sindacali propedeutici al licenziamento, nonché citata negli accordi conciliativi sottoscritti da alcuni dipendenti interessati dalle procedure di licenziamento collettivo attivate dalle società del comparto aereo-aeroportuale;
    tale disastroso ritardo nell'attivazione della prestazione sarebbe stato determinato da un rinvio dell'approvazione del decreto interministeriale di conversione del FSTA in fondo di solidarietà: una trasformazione obbligatoria per consentire l'intervento di prestazioni che non siano solo integrative ma di fatto sostitutive degli ammortizzatori sociali;
    se non verrà convertito urgentemente il FSTA in fondo di solidarietà oltre ai lavoratori sotto ai 40 anni di età, presto rimarranno senza reddito anche i lavoratori di età anagrafica compresa tra i 40 ed i 50 anni, che entro la fine del 2016 termineranno l'indennità di mobilità;
    con riferimento all'attuazione dell'Agenda digitale che, come riportato nel Programma nazionale di riforma ha un orizzonte quinquennale (2015-2020) definito, nel marzo 2015, dalla Strategia italiana per la banda ultralarga e dalla Strategia italiana per la crescita digitale, il DEF 2016 da semplicemente conto dei principali interventi programmati in tale ambito. Viene definita, a tale proposito, prioritaria l'approvazione del decreto legislativo contenente il nuovo codice dell'amministrazione digitale (in attuazione di quanto previsto dall'articolo 1, comma 1, della legge n. 124 del 2015). Tra gli interventi già in essere e di cui è prevista l'implementazione è ricordato il decreto legislativo n. 33 del 2016 volto a semplificare le modalità di utilizzo delle infrastrutture fisiche per la realizzazione delle reti a banda ultralarga e a favorire la realizzazione del «catasto delle infrastrutture» individuato quale strumento essenziale per lo sviluppo della banda ultralarga nella citata Strategia;
    quanto agli ulteriori interventi previsti si tratta principalmente di sviluppi di iniziative concernenti le attività previste per l'implementazione dell'Agenda digitale già definiti negli anni precedenti ma non ancora attuati e nelle more di tale situazione l'Italia continua a posizionarsi tra gli ultimi Paesi per crescita digitale e diffusione della banda larga e ultralarga,

impegna il Governo:

   a cambiare l'orizzonte delle sue politiche economiche – abbandonando le politiche di austerità – rimettendo al centro delle sue scelte un impianto di politiche espansive e non restrittive, fondate sugli investimenti pubblici, sulla progressività del sistema fiscale, il lavoro, nella istruzione, ricerca ed innovazione, un nuovo modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale, la qualità sociale, i diritti, il disarmo;
   a farsi promotore di un'iniziativa nell'Unione europea e nell'Unione Monetaria per la revisione dei trattati (Fiscal compact, eccetera), relativamente ai parametri e ai vincoli legati alla riduzione del debito, del rapporto deficit-PIL, eccetera e contemporaneamente a farsi promotore di un'iniziativa nell'Unione europea per una politica fiscale ed economica comune, anche con la promozione di eurobond finalizzati ad abbattere il debito e promuovere la crescita;
   a prendere tutte le iniziative necessarie volte a rivedere il principio del pareggio di bilancio, prendendo se necessario, tutte le iniziative legislative necessarie;
   a destinare tutte le risorse necessarie per rispettare gli obiettivi della strategia Europa 2020; soprattutto relativamente agli obiettivi europei in materia di istruzione, innovazione e ricerca, occupazione;
   a introdurre, già a partire dalla presentazione della Nota di aggiornamento al DEF 2016, l'utilizzo di «indicatori di benessere», per valutare l'impatto sociale, ambientale e di genere delle politiche economiche in modo da adeguare le scelte di spesa pubblica agli obiettivi individuati;
   a recuperare le necessarie risorse per realizzare una manovra di finanza pubblica diversa:
    1) utilizzando tutto lo spazio esistente del rapporto deficit-PIL consentito dai Trattati portando l'indebitamento netto ad un valore vicino al 3 per cento, permettendo così di liberare risorse non inferiori a 8 miliardi di euro;
    2) ricavando non meno di 5 miliardi di euro da una riorganizzazione delle tax expenditures facendo tesoro del lavoro commissionato dal Ministero dell'economia e delle finanze al Dott. Vieri Ceriani che nell'ambito del proprio rapporto sull'erosione fiscale del 22 novembre 2011 aveva individuato il valore politico e l'impatto sociale di ogni singola agevolazione ivi prevista e, in particolare, avendo riguardo a un gruppo di 4 agevolazioni la cui totale abrogazione comporterebbe risparmi per oltre 10 miliardi di euro, ovverosia: a) l'imposta sostitutiva sui maggiori valori attribuiti in bilancio, all'avviamento, ai marchi di impresa e ad altre attività (n. 224 – 6.402 milioni di euro); b) l'imposta sostitutiva sui maggiori valori attribuiti in bilancio agli elementi dell'attivo costituenti immobilizzazioni materiali e immateriali (n. 230 – 1.030 milioni di euro); c) l'imposta sostitutiva con aliquota del 20 per cento per le plusvalenze realizzate all'atto del conferimento di immobili e di diritti reali su immobili in SIIQ, in SIINQ oppure in fondi comuni di investimento immobiliare (n. 239 – 481,6 milioni di euro); d) l'applicazione dell'imposta sostitutiva in luogo delle imposte di registro, di bollo, ipotecaria e catastale e tassa sulle concessioni per le operazioni concernenti il settore del credito (n. 482 – 2.225 milioni di euro). Inoltre, si impegna il Governo ad astenersi nel modo più assoluto dall'intento di ridurre le agevolazioni fiscali socialmente più impattanti che comportino un aggravio di spese nei confronti delle fasce di popolazione più deboli, nonché a confermare le agevolazioni recentemente previste dalla legge di stabilità 2016 sotto forma di credito d'imposta per il Mezzogiorno riservate alle imprese che acquistano beni strumentali nuovi;
    3) ricavando un gettito aggiuntivo di 3,5 miliardi dalla Tobin tax, recentemente riportata alla ribalta nell'ambito del dibatto europeo, considerato che la tassa sulle transazioni finanziarie varata dalla ultima legge di stabilità del Governo Monti risulta essere assolutamente «light», poiché vengono tassate le transazioni finanziarie relative a poco più del 3 per cento delle azioni e solamente il «saldo di fine giornata». Tassando le transazioni di tutti i prodotti finanziari (derivati, sdo, eccetera) e tassando – anche con una modestissima aliquota dello 0,01 per cento – le singole operazioni di natura speculativa e non solo il «saldo di fine giornata», si potrebbero recuperare almeno 3,5 miliardi di euro;
    4) recuperando oltre 6 miliardi di euro attraverso il definanziamento delle risorse destinate al programma di acquisizione e costruzione dei cacciabombardieri F35, il programma di sviluppo delle unità navali FREEM e la realizzazione delle grandi opere come il TAV Torino-Lione e il MOSE;
    5) ottenendo oltre 5 miliardi di gettito dall'introduzione di una patrimoniale sulle ricchezze finanziarie e la riforma delle norme che regolano l'imposta di successione e donazione. Dai dati attualmente disponibili l'ammontare delle ricchezze finanziarie – escluse quelle immobiliari – detenute da società famiglie e singoli corrisponde a 3.500 miliardi di euro. Quelle superiori a 1 milione di euro risulterebbero in mano ad una fascia ristrettissima della popolazione (non più del 5 per cento). Escludendo la fascia sotto il milione di euro con un'imposizione aggiuntiva minima (su rendite, azioni, eccetera) dello 0,5 per cento si potrebbero recuperare ben più di 5 miliardi di euro;
    6) ricavando risorse dall'applicazione delle misure di contrasto all'evasione dell'iva proposte dal centro studi NENS quali la comunicazione telematica all'amministrazione fiscale dei dati relativi alle fatturazioni che è cosa diversa dalla fatturazione elettronica. Tale sistema consentirebbe di verificare automaticamente e in tempo reale le posizioni a debito e quelle a credito, consentendo di intervenire con efficacia nei casi di incongruenze. In riferimento al citato studio una stima prudenziale indica un recupero di gettito superiore ai 10 miliardi all'anno (in considerazione del recupero IVA e imposte sui redditi). Poiché l'introduzione della comunicazione telematica delle fatturazioni richiede tempo per essere generalizzata, nell'immediato va introdotta la trasmissione telematica dei dati delle fatture ai fornitori. Si tratta di una misura più circoscritta. L'obbligatorietà della comunicazione telematica dei dati delle fatture potrebbe inizialmente essere richiesta soltanto a una parte dei contribuenti, come la grande distribuzione;
    7) rivedendo sensibilmente le norme contenute nella Legge di Stabilità 2016 relative all'innalzamento della soglia del contante a 3.000 euro, nonché quelle che prevedono per il 2017 una diminuzione dell'aliquota IRES al 24% che corrisponde ad una diminuzione ingiustificata ed in maniera generalizzata dell'imposta sui profitti: in buona sostanza un vero e proprio regalo alle imprese il cui gettito poteva essere meglio orientato ad altri scopi;
    8) interrompendo la politica dei tagli indiscriminati da spending review nei confronti dei Ministeri, delle Regioni e degli enti locali alla luce dei riflessi disastrosi che questi hanno prodotto in termini di inefficienza dei servizi e conseguenti aggravi e costi nei confronti dei cittadini;
    9) adottando un piano di contrasto alla delocalizzazione fiscale delle imprese e introdurre la digital tax sulle imprese del digitale con sede all'estero;
   a utilizzare queste risorse prioritariamente per:
    adottare un piano straordinario del lavoro, capace di attivare investimenti che possano creare almeno 500.000 nuovi posti di lavoro: piccole opere, lotta al dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole, diffusione delle energie rinnovabili, welfare, recupero e riutilizzo del patrimonio pubblico inutilizzato a fini abitativi, sociali e culturali e per la salvaguardia e la promozione del patrimonio storico-artistico, attivando piano non assistenziale, ma capace di attivare una consistente «domanda di lavoro» grazie all'iniezione di dosi massicce di investimenti pubblici;
    istituire e adottare il reddito di cittadinanza come strumento strutturale, effettivo ed efficace di contrasto alla povertà e di reinserimento nella società, allo scopo di affrontare la povertà e la disoccupazione nonché per garantire un sostegno concreto ai lavoratori che perdono temporaneamente il posto di lavoro,

impegna, inoltre, il Governo:

   in relazione alle politiche per il lavoro, lo sviluppo industriale e il rilancio del Mezzogiorno del Paese:
    all'adempimento della sentenza della Corte costituzionale n. 178/2015 che sancisce il diritto dei lavoratori pubblici al rinnovo dei contratti collettivi nazionali, unico strumento attraverso cui è possibile garantire una crescita delle competenze, l'innovazione e la riqualificazione dell'organizzazione, la qualità dei servizi;
    a destinare al rinnovo dei contratti nel pubblico impiego e del settore metalmeccanico una adeguata dotazione finanziaria tenuto conto che da 8 anni e la previsione è fino al 2019, ai lavoratori della pubblica amministrazione è negato l'adeguamento dei contratti;
    a procedere al superamento del blocco del turn over, in particolare nella settore della sanità, anche attraverso lo stanziamento di congrue risorse economiche;
    a prevedere il finanziamento dell'ottavo intervento finalizzato alla salvaguardia delle lavoratrici e dei lavoratori derivante dagli effetti dei requisiti pensionistici derivanti dall'applicazione della riforma Fornero;
    a risolvere in via definitiva annose questioni relative alla tutela pensionistica dei lavoratori del comparto scuola (Quota 96) e altre categorie di lavoratori come i macchinisti ferrovieri e altri soggetti che svolgono lavori usuranti;
    a garantire che nella definizione dei contenuti di interventi normativi sulla riforma della contrattazione aziendale venga salvaguardata la centralità del primo livello di contrattazione, ovverosia quello nazionale, avendo riguardo alle esperienze maturate negli ultimi anni dalle parti sociali e al testo unico sulla rappresentanza del Gennaio 2014, prevedendo altresì che ai fini dell'esigibilità e dell'efficacia dei contratti aziendali sia garantita la consultazione dei lavoratori interessati;
    ad adottare apposite iniziative normative finalizzate a reintrodurre la cosiddetta «Clausola Ciampi» in forza della quale si prevede un vincolo di destinazione del 45 per cento del totale delle risorse individuate per gli investimenti nel Mezzogiorno;
    a presentare entro una scadenza prefissata un programma nazionale di politica industriale per il Paese e la rinascita del Mezzogiorno, guardando al rafforzamento degli insediamenti esistenti, la valorizzazione dell'industria della trasformazione agricola, per la riunificazione e l'accorciamento delle filiere, nonché il riutilizzo e/o la riconversione di intere aree industriali dismesse, l'insediamento di produzioni ad alto contenuto innovativo, la riconversione ecologica delle produzioni industriali a forte impatto ambientale come l'Ilva di Taranto, valutando al contempo di definire in tempi brevi un piano triennale per il lavoro per il Mezzogiorno nell'ambito di un programma di interventi urgenti ai fini ecologici e social finalizzata all'assunzione di lavoratori da parte di amministrazioni pubbliche e aziende private;
    a introdurre apposite iniziative per riconoscere uno sgravio contributivo per le nuove assunzioni giovanili riservato alle imprese che operano nel Mezzogiorno innalzando a 8.060 euro annui lo sgravio massimo, anziché a 3.250 euro ed estendendolo a tutti i contributi previdenziali e non solo ad una quota pari al 40 per cento come, peraltro, previsto attualmente dalla legge di stabilità 2016 approvata in via definitiva dal Parlamento;
    ad affrontare attraverso specifici interventi il processo di progressivo spopolamento delle aree interne del Mezzogiorno e dell'invecchiamento della popolazione che assume priorità d'azione, con particolare riferimento agli anziani non autosufficienti attraverso la previsione di servizi dedicati;
    ad incrementare i finanziamenti a tasso agevolato nei confronti delle start-up che investono in ricerca e sviluppo nei settori: a) delle energie rinnovabili, del risparmio energetico e dei servizi collettivi ad alto contenuto tecnologico, nonché nell'ideazione di nuovi prodotti che realizzano un significativo miglioramento della protezione dell'ambiente per la salvaguardia dell'assetto idrogeologico e le bonifiche ambientali, nonché nella prevenzione del rischio sismico; b) dell'incremento dell'efficienza negli usi finali dell'energia nei settori civile, industriale e terziario, compresi gli interventi di social housing; c) dei processi di produzione o di valorizzazione di prodotti, processi produttivi od organizzativi ovvero servizi che, rispetto alle alternative disponibili, comportino una riduzione dell'inquinamento e dell'uso delle risorse nell'arco dell'intero ciclo di vita; d) della pianificazione di interventi nell'ambito della gestione energetica, attraverso lo sviluppo di soluzioni hardware e software che consentano di ottimizzare i consumi, e della domotica; e) dello sviluppo di soluzioni per la gestione del ciclo dei rifiuti, con particolare riferimento ai modelli di raccolta, trattamento e recupero, e per la gestione idrica, attraverso la progettazione di strumenti che garantiscano un monitoraggio più attento della rete idrica; f) della progettazione di nuovi sistemi di mobilità ecologici e sostenibili, anche attraverso la definizione di processi che possano ottimizzare la logistica dell'ultimo miglio e le attività di trasporto proprie delle compagnie private in aree urbane, tenendo in considerazione il traffico generato la congestione, l'inquinamento e il dispendio energetico; g) della ideazione di progetti relativi all'introduzione di nuove tecnologie per i servizi di comunicazione al cittadino e alle imprese, in conformità agli obiettivi dell'Agenda digitale e del Piano nazionale della banda larga e ultralarga;
    al fine di un efficace contrasto della contraffazione e di affermazione del «made in Italy» ad attivarsi concretamente in sede di Unione europea al fine dell'adozione in tempi brevi del Regolamento sul «made in» unico strumento efficace di sostegno alle azioni e dei programmi delle produzioni di qualità nel nostro Paese evitando che queste siano rese inattuabili da violazioni in materia di aiuti di stato;
    a individuare adeguate risorse affinché l'Italia raggiunga lo 0,5 per cento del PIL omogeneizzando così la spesa a quella media destinata dai Paesi dell'Unione europea al sostegno al tessuto economico e produttivo, tenuto conto che l'Italia destina solo lo 0,2 per cento del PIL;

   in relazione alle politiche in materia di Scuola, Università e Ricerca:
    a rilanciare, con la massima urgenza, il comparto della ricerca italiana, attraverso l'immediato varo dell'annunciato Programma nazionale per la ricerca 2015-2020 e ad elevare l'attuale spesa per investimenti in Ricerca e Sviluppo ad un livello pari al 3 per cento del PIL, anche al fine di accrescere i livelli di produttività, di occupazione e di benessere sociale del nostro Paese;
    ad abolire dal 2017 il meccanismo di contingentamento delle assunzioni eliminando dalla normativa ogni limitazione del turnover per tutte le figure del mondo universitario e della ricerca pubblica;
    a rilanciare un ampio e pluriennale reclutamento straordinario di nuove posizioni tenured che garantisca la tenuta del sistema universitario italiano e permetta la stabilizzazione nel ruolo di un ampio numero di studiosi attualmente relegati ai margini delle università;
    a riformare il percorso di accesso in ruolo, del pre-ruolo e dello stato giuridico della docenza universitaria;
    ad avviare nella scuola un piano straordinario di assunzioni, che comprenda anche tutti i precari che lavorano da anni nella scuola, gli educatori e il personale ATA, attuato, in primis, grazie allo scorrimento di tutte le graduatorie permanenti, il solo capace di contrastare il fenomeno del precariato storico nella scuola e di evitarne la sua ricostituzione;

   in relazione alle politiche sociali e della salute:
    a prevedere la revisione dell'ISEE e il rimborso alle persone disabili alle quali è stato precluso nel corso del 2015 l'accesso alle prestazioni ovvero sono stati obbligati alla compartecipazione a causa dell'inserimento dei redditi derivanti da assegno di accompagnamento o da pensione di invalidità nel reddito complessivo;
    a invertire le politiche di continui e pesantissimi tagli di risorse alle regioni e degli enti locali per il finanziamento degli interventi di welfare, a cominciare dai Fondi per le politiche sociali, per le politiche della famiglia e per l'infanzia e l'adolescenza;
    a incrementare sensibilmente le risorse da destinare al programma di contrasto alla povertà, al fine di allargare fin da subito la platea dei beneficiari a tutti i soggetti in situazione di povertà assoluta, prevedendo contestualmente un graduale incremento di dette risorse al fine di arrivare a regime a uno stanziamento complessivo a regime di 6-7 miliardi di euro;
    a escludere la prevista «razionalizzazione delle prestazioni di natura previdenziale» dal disegno di legge delega, ora all'esame della Camera;
    a prevedere un incremento delle risorse e un finanziamento pluriennale strutturale, per il rilancio del Piano sviluppo servizi socio educativi per la prima infanzia;
    ad adottare ogni iniziativa volta a escludere dal Patto di stabilità la spesa sociale e a garantire a tutti i cittadini la necessaria assistenza sanitaria pubblica, attraverso un rafforzamento dell'universalità e dell'equità che deve e dovrà contraddistinguere il nostro servizio sanitario nazionale, quale pilastro fondamentale del nostro sistema di welfare, portando la sua incidenza ad almeno il 7,2 per cento del PIL (media europea registrata nel 2013) dal 6,8 per cento registrato nel 2015;
    a rivedere conseguentemente le risorse a favore del sistema sanitario pubblico, che sono previste in riduzione in rapporto al PIL in maniera preoccupante nei prossimi anni;
    a predisporre efficaci iniziative, anche normative, volte a intensificare il contrasto alle frodi e alla corruzione, purtroppo troppo presente in questo settore, nonché alle diseconomie e agli sprechi tutti interni alla sanità, anche al fine di liberare risorse importanti per il finanziamento del nostro Servizio sanitario nazionale;
    a investire maggiormente sulla prevenzione, l'assistenza domiciliare e territoriale soprattutto ad alta integrazione sociale (anziani, salute mentale, disabilità), e sulla razionalizzazione delle reti ospedaliere salvaguardando piccoli presidi in zone disagiate;
    ad avviare le opportune iniziative legislative volte a superare una criticità ormai non più tollerabile, quale quella dell'impossibilità del nostro servizio sanitario a garantire in tutte le strutture sanitarie del Paese, il pieno diritto delle donne all'interruzione volontaria di gravidanza riconosciuto dalla legge n. 194 del 1978;

   in relazione alle politiche abitative:
    ad affrontare in maniera strutturale e programmatica la precarietà abitativa attraverso: a) il finanziamento di un piano strutturale nazionale finalizzato all'aumento dell'offerta di alloggi a canone sociale attraverso il recupero ad uso abitativo del vasto patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato a partire da quello del demanio civile e militare, in attuazione di quanto previsto dal comma 1-bis dell'articolo 26 della legge 11 novembre 2014, n. 164; b) al rifinanziamento del fondo contributo affitto di cui all'articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, c) all'incremento del fondo nazionale sulla morosità incolpevole; a sostenere ulteriormente il recupero e la riqualificazione anche in termini di risparmio energetico degli immobili di edilizia residenziale pubblica attualmente in degrado e non utilizzabili; d) il riconoscimento delle aziende di gestione di edilizia residenziale pubblica come alloggi sociali esentandoli dal pagamento di IMU e TASI;

   in relazione alle politiche per la giustizia e le riforme:
    ad attuare, infine, nel corso della legislatura, le seguenti indispensabili riforme:
    a sostenere la rapida approvazione definitiva di una legge efficace per contrastare i conflitti di interessi;
    a ripristinare e rafforzare il controllo di legalità in tutto il ciclo economico pubblico e privato in cui tracciabilità e prescrizione sulla regolarità dei procedimenti siano assunti come punti di forza nella lotta alle mafie (norme più incisive in tema di anticorruzione, riforma del codice degli appalti per contrastare l'infiltrazione mafiosa, maggior trasparenza nel finanziamento della politica, reintroduzione del reato di falso in bilancio), abrogando le leggi che premiano i comportamenti non virtuosi, quali i condoni e l'elusione fiscale, nonché la legge cosiddetta «ex-Cirielli» che, tra gli effetti negativi introdotti nel sistema, ha anche accorciato i tempi di prescrizione per gravi reati;
    a rinforzare gli strumenti di prevenzione, controllo, incentivare la celerità dei processi, nonché le misure alternative alla detenzione;
    a promuovere concrete misure a tutela e sostegno delle vittime dei reati;
    a procedere ad interventi incisivi sulla struttura e i tempi del processo civile, rinforzando inoltre strumenti di mediazione non obbligatoria e di risoluzione stragiudiziale delle controversie;
    a sostenere la rapida approvazione delle proposte di legge attualmente in discussione in parlamento tesi ad una diversa regolamentazione della Cannabis, in particolare per la sua legalizzazione;
    a sostenere la ripresa della discussione e l'approvazione delle proposte in tema di omofobia e di introduzione del reato di tortura, il cui iter ormai è fermo da tempo in Senato.
    a intervenire per mantenere le specializzazioni delle diverse forze di polizia;
    a garantire la presenza dello Stato sui territori, con prefetture e Camere di commercio;
    a intervenire per un sistema della portualità che tenga conto delle specificità e potenzialità dei territori;

   in relazione alle politiche migratorie e di difesa;
    a chiudere Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie), dei Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) e a ridurre progressivamente il sistema di accoglienza straordinario a vantaggio di quello ordinario (Sprar – Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) che va potenziato attraverso nuovi stanziamenti e a dare risorse aggiuntive agli interventi di inclusione sociale e lavorativa dei migranti e rifugiati, fortemente ridimensionati negli anni futuri dal DEF e a stanziare maggiori risorse per i centri di accoglienza per minori stranieri non accompagnati;
    a stanziare risorse idonee per affrontare l'emergenza sociale che si determina sui territori sede degli hotspot, allorquando devono affrontare la gestione dei migranti raggiunti da provvedimenti di respingimento differito e lasciati sul territorio comunale senza mezzi economici e a supportare in questo senso l'impegno dei comuni e degli altri enti locali;
    a proseguire nella riforma delle FFAA prevedendo il rispetto di quanto già previsto nell'equilibrio di bilancio: 50 per cento personale; 25 per cento investimenti; 25 per cento esercizio, tenendo conto che attualmente all'esercizio viene destinato soltanto il 9 per cento;
    a portare il livello degli effettivi delle Forze armate a 150.000 unità (riconvertendo tale forza lavoro) entro un paio di anni anche alla luce che lo schema di decreto in discussione in commissione difesa non porterà alcun risparmio in riferimento alla riduzione dell'organico dove si prevede: l'allargamento dell'ausiliaria e dell'aspettativa per riduzione quadri; il transito del personale militare negli organici civili con il mantenimento del trattamento economico pregresso;
    a eliminare quindi l'istituto dell'ausiliaria per sradicare un vero e proprio privilegio ormai incompatibile con la normativa vigente in tema di previdenza e allo stesso tempo producendo un robusto risparmio immediato di spesa;
    a ridurre l'investimento per i Programmi d'armamento a partire dalla immediata cancellazione dei fondi dello Sviluppo economico attualmente messi a disposizione della Difesa;
    a proporre una legge nazionale per la riconversione dell'industria militare con la costituzione di un Fondo per sostenere le imprese impegnate nella riconversione da produzioni di armamenti a produzioni civili;

   in relazione alle politiche per l'edilizia scolastica, ambientali ed energetiche:
    a incrementare le risorse per la messa in sicurezza e l'efficientamento energetico degli edifici scolastici;
    a varare un serio programma pluriennale per la messa in sicurezza del nostro territorio, attraverso lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie rinvenibili anche dalla riallocazione degli importi attualmente stanziati per opere infrastrutturali non necessarie e non più prioritarie;
    a rivedere radicalmente la «Strategia energetica nazionale», alla luce degli impegni presi a Parigi in sede di COP21, in modo da accelerare il superamento delle fonti fossili e la decarbonizzazione dell'economia, promuovendo in tal senso un piano nazionale di riconversione ecologica ed energetica;
    ad avviare un programma di rapida riduzione dei sussidi diretti e indiretti alle fonti fossili e ad anticipare al 2016 la definizione del provvedimento legislativo, cosiddetto Green Act contenente misure finalizzate alla decarbonizzazione dell'economia, all'efficienza nell'utilizzo delle risorse, alla protezione e al ripristino degli ecosistemi naturali e alla finanza per lo sviluppo. Azioni strategiche anche per il sistema produttivo dell'Italia;

   in relazione alle politiche per le infrastrutture, i trasporti e le comunicazioni:
    a presentare il Piano Generale dei Trasporti e adottare finalmente scelte coraggiose e mirate in termini di mobilità urbana ed extraurbana, a partire dallo stanziamento di maggiori risorse per arrivare a 5.000.000 di cittadini trasportati ogni giorno nel 2020, portando il trasporto ferroviario agli stessi standard qualitativi europei;
    ad attivarsi al fine di garantire il diritto alla mobilità con collegamenti ferroviari efficienti al Nord come al Sud tra i principali capoluoghi, integrati con il sistema di porti e aeroporti, ponendo in essere ogni iniziativa di competenza finalizzata ad impedire il perdurante taglio dei collegamenti ferroviari, avviando un'azione di monitoraggio sulla rete pubblica affidata in concessione a Rete ferroviaria italiana finalizzata ad un ripensamento degli investimenti indispensabili ad aumentare la velocità dei collegamenti che parta innanzitutto dalla necessità di valorizzare la presenza di treni pendolari rispetto a quelli a mercato nella definizione delle tracce;
    ad attivarsi al fine di avviare un programma decennale di investimenti che preveda almeno 300 milioni di euro di risorse statali l'anno per l'acquisto di treni regionali;
    a realizzare concretamente politiche relative alla mobilità mettendo al centro gli utenti della mobilità, assumendo iniziative, in conformità con quanto previsto nel DEF 2016, per ripristinare il finanziamento di alcune norme introdotte durante il Governo Prodi nell'ambito della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008) e non più rifinanziate dai successivi Governi che prevedono la possibilità di portare in detrazione le spese sostenute per l'acquisto dell'abbonamento annuale ai servizi di trasporto pubblico locale, regionale e interregionale;
    a rivedere l'orientamento a favore della decisione per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina;
    a intervenire per approvare in tempi rapidissimi per ogni provvedimento necessario alla definitiva trasformazione del FSTA in fondo di solidarietà, condizione necessaria per il ripristino della prestazione del FSTA ai lavoratori del trasporto aereo;
    a varare iniziative che incoraggino l'uso della banda ultralarga – aree rurali e montane comprese – e l'accelerazione di un'offerta di nuovi servizi digitalizzati ai cittadini, con particolare riferimento ai processi di alfabetizzazione digitale della popolazione, nonché a definire in via definitiva il contesto regolamentare all'interno del quale si muove, e si muoverà, lo sviluppo della banda ultralarga, definendo le tariffe di accesso alle infrastrutture finanziate nelle aree a fallimento di mercato e monitorando l'effettivo sviluppo delle reti pubbliche;
    a garantire un'adeguata copertura su tutti i cluster stabiliti dal Piano nazionale per la banda ultralarga ed istituire un meccanismo di monitoraggio relativo allo stato di avanzamento della realizzazione delle infrastrutture a banda ultra larga attraverso la posa della fibra da parte dei soggetti coinvolti.
(6-00245) «Marcon, Melilla, Scotto, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, D'Attorre, Duranti, Daniele Farina, Fassina, Claudio Fava, Ferrara, Folino, Fratoianni, Carlo Galli, Giancarlo Giordano, Gregori, Kronbichler, Martelli, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti, Zaccagnini».