• Testo RISOLUZIONE IN ASSEMBLEA

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Atto a cui si riferisce:
S.6/00187 esaminato il Documento di economia e finanza 2016; premesso che: la crisi italiana, per quanto si sia attenuata, è tutt'altro che risolta. Resta il grande...



Atto Senato

Risoluzione in Assemblea 6-00187 presentata da GIUSEPPE RUVOLO
mercoledì 27 aprile 2016, seduta n.615

Il Senato,
esaminato il Documento di economia e finanza 2016;
premesso che:
la crisi italiana, per quanto si sia attenuata, è tutt'altro che risolta. Resta il grande gap che si è prodotto in conseguenza della tempesta scatenata dal fallimento della Lehman Brothers, per recuperare il quale occorreranno anni, se il tasso di crescita complessiva dell'economia reale non subirà una forte accelerazione. Ed invece non esistono segnali di questo tipo all'orizzonte. Nei prossimi anni, infatti, il tasso di sviluppo, sebbene approdato in campo positivo, dopo i guasti provocati da una dissennata politica di austerity, sarà pari alla metà del già basso tasso di crescita dell'economia europea. Ormai solo la Grecia è in condizioni peggiori dell'Italia. La stessa Spagna, pur con grandi sacrifici, soprattutto per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, sembra aver imboccato un sentiero positivo; ferme restando le incertezze del suo quadro politico che potrebbero rapidamente pregiudicare quanto faticosamente costruito;
in questo scenario, colpi di coda sono sempre possibili. Fattori esogeni ed endogeni contribuiscono a rendere quanto mai problematico il quadro di riferimento. Il volano del commercio internazionale, che negli anni passati aveva consentito tassi di crescita seppure modesti, ha diminuito i suoi giri, comprimendo le possibilità di uno sviluppo trainato dalle esportazioni. La domanda interna ristagna, sotto i colpi della deflazione, mentre le incertezze del quadro complessivo alimentano un senso di smarrimento complessivo che spinge i consumatori all'astensione. Come mostrano i dati relativi alla crescita della propensione al risparmio, sebbene i relativi rendimenti, almeno dal punto di vista nominale, siano negativi. Ed i salari mostrino una crescita seppur contenuta;
il cuore di queste contraddizioni è particolarmente evidente nella tenuta del sistema bancario la cui crisi risulta evidente sia negli andamenti di borsa, ma soprattutto nella crescente difficoltà a procedere lungo la strada della ricapitalizzazione delle singole imprese. Fatti di cronaca recente hanno dimostrato quanto grande sia il pericolo di fallimenti e di insolvenze, che rischiano di penalizzare fortemente risparmiatori non più protetti dalle garanzie statali. Le nuove regole del bail-in, per quanto giuste da un punto di vista astratto, hanno determinato mutamenti troppo repentini in un Paese in cui il risparmio è stato sempre una virtù nazionale, garantita da precetti - l'articolo 47 - di carattere costituzionale;
risolvere, oggi, questo problema rappresenta una priorità nazionale. Dalla sostenibilità del sistema finanziario dipende gran parte dell'economia nazionale, date le caratteristiche "bancocentriche" della sua prevalente struttura aziendale. Da esso dipende la tranquillità di coloro che hanno accumulato risparmio nel corso di un'intera vita, come presidio agli eventuali momenti di difficoltà. Incidere su questo patrimonio significherebbe alimentare una pericolosa spirale sociale, densa di implicazioni politiche, in una fase in cui le tentazioni demagogiche - populismo o meno - rischiano di minare le basi della nostra democrazia;
per risolvere questi problemi non basta realizzare un ampio processo di riconversione produttiva: per quanto indispensabile, con il suo inevitabile corollario di una maggiore patrimonializzazione. Le scelte finora effettuate - si pensi alle banche popolari o a quelle cooperative - vanno nella giusta direzione, ma se non si realizzerà un cambiamento complessivo della politica economica quegli sforzi si dimostreranno inadeguati. Vi è un dato - tutto italiano - che non può essere trascurato. A differenza di altri Paesi occidentali - dagli USA alla Germania; dalla Francia alla Spagna; dall'Irlanda al Portogallo e via dicendo - negli anni passati la forza del sistema finanziario italiano era rappresentato dal suo forte legame con il territorio: vale a dire con l'attività di intermediazione, che rifuggiva, almeno in parte, dalle grandi operazioni speculative a livello internazionale. Banche, come allora si diceva, che "non parlavano inglese". Questa peculiarità aveva consentito di contenere la leva finanziaria, di sfuggire alle lusinghe del "moral hazard". Insomma, se è consentito l'uso di questo termine, eravamo di fronte ad un'Italietta, rispetto agli standard internazionali, che aveva preservato, tuttavia, l'integrità del sistema;
quest'originario punto di forza, con il permanere della crisi, si è trasformato in un drammatico punto di debolezza. A seguito della politica della BCE, con si suoi tassi negativi in termini nominali, i margini di intermediazione si sono ridotti. La liquidità, affluita copiosamente con il "quantitative easing" non ha avuto come contropartita un'adeguata domanda di credito solvibile, spingendo le stesse banche ad investire soprattutto in titoli di Stato. Scelte quest'ultime che preoccupano non poco gli altri partner comunitari. Non è, infatti, un caso se, soprattutto da parte tedesca, si adombrano misure volte a porre un limite preciso a queste forme di investimento. Sarebbe versare benzina sul fuoco. La soluzione del problema non è comprimere ulteriormente il sistema bancario, ma rilanciare la domanda, quale presupposto di una politica espansiva, la sola in grado di riattivare il circuito dell'intermediazione bancaria su basi più solide. Da qui la necessità di un rilancio degli investimenti produttivi. Che poi questi ultimi debbano essere realizzati da privati o dallo Stato è solo un aspetto, al momento, secondario. Quello che realmente importa è infatti che gli investimenti siano realizzati, che abbiano una loro intrinseca produttività. Come dice un vecchio proverbio cinese: "non importa se il gatto sia bianco o nero; l'importante è che dia la caccia ai topi";
se oggi questa prospettiva è quanto mai incerta, si deve alle contraddizioni della politica economica ed al prevalere, a livello europeo, di logiche tra loro incoerenti. Non siamo i soli a dirlo. L'ultimo report del FMI ribadisce una preoccupazione espressa da tempo. Tra la politica monetaria decisa dalla BCE e la politica di bilancio deve esserci - come sempre è stato - un'azione sinergica. Se il target d'inflazione deve essere pari al 2 per cento, come sostenuto da tutto il board della Banca centrale, a quest'obbiettivo deve essere orientata la stessa politica fiscale che, invece, ha un contenuto opposto: prevalentemente deflazionistico. Questo contrasto evidente determina una tenaglia che impedisce al sistema bancario di svolgere il ruolo che gli è proprio, costringendolo a rincorrere i sentieri pericolosi della semplice speculazione internazionale. Lo si è visto chiaramente nei precari equilibri di bilancio di molte grandi banche internazionali, alcune delle quali, come la Deutsche Bank, domiciliate proprio nei Paesi dell'ortodossia più intransigente;
per uscire da questa spirale perversa è quindi necessario che la politica monetaria e quella di bilancio convergano verso un unico traguardo che è simbolizzato da un target inflazionistico del 2 per cento, come antidoto alle prevalenti pulsioni deflazionistiche che caratterizzano i diversi mercati. Alla luce di questi ragionamenti è pertanto necessario che lo stesso fiscal compact sia interpretato in modo conforme prevedendo la possibilità di immettere nei diversi sistemi economici massicce dosi di flessibilità, quale pre-condizione per un rilancio della domanda interna, prevalentemente indotta da una ripresa degli investimenti. Sarebbe naturalmente opportuno, come sostiene lo stesso FMI, che quest'attività fosse svolta dai Paesi con maggiori margini finanziari, come la Germania; ma l'intera Unione europea non può rimanere prigioniera di scelte che spetterebbero solo ad un singolo Paese, la cui riottosità è, del resto, da tempo giustificata. Se questo fosse lo schema, entrerebbero in giochi valori che sono fondamentali ed irrinunciabili quali quelli della sovranità di ogni singolo Stato, la cui eventuale cessione può essere consentita, ma solo nell'eventualità del prevalere di regole democratiche per tutti vincolanti;
tradurre questi principi in italiano, significa puntare su una politica di bilancio che abbia come priorità la riduzione del carico fiscale e la ripresa degli investimenti pubblici e privati avendo come unico vincolo il rilancio della produttività di sistema. Sia la produttività totale dei fattori, sia quella di natura più specificatamente aziendale, che non riguarda solo le imprese che operano sul mercato, ma lo stesso operatore pubblico, che deve porsi il problema dell'efficienza nell'erogazione di quei servizi che sono di propria competenza. Le riforme finora avviate, riguardanti sia il pubblico (riforma della pubblica amministrazione) sia il privato (jobs act), sono state importanti. Ma esse vanno implementate. Per il pubblico, in particolare, si tratta di ripensare completamente gli assetti istituzionali che governano i singoli territori: eliminando duplicazioni e sovrapposizioni che paralizzano il sistema amministrativo ed impediscono i processi decisionali in sintonia con la rapidità che caratterizza una moderna economia. Occorre prosciugare un pantano che favorisce i germi della corruzione, frutto di una discrezionalità amministrativa senza controllo alcuno;
una manovra di questa fatta potrà avere anche un impatto negativo sul debito: problema da non trascurare. Ma i relativi rischi possono essere attenuati da una crescita del denominatore, vale a dire del prodotto interno lordo, nella sua duplice componente reale e monetaria. Esortazioni a favore di quest'opzione provengono ormai dai principali economisti, esclusi solo quelli di rito tedesco che hanno, tuttavia, le loro convenienze di carattere nazionale. L'ultima esortazione è stata quella dell'economista Oliver Blanchard, ex capo economista del FMI. Di cui si ricordano i recenti esercizi econometrici tesi a dimostrare gli errori compiuti, dopo la crisi del 2007, nella valutazione dei coefficienti finanziari che hanno condotto, poi, alle politiche d'austerity. Il pericolo vero non è nell'aumento di spesa pubblica, ma nelle relative finalità. Essa è positiva se contribuisce in modo diretto ed immediato ad una crescita del PIL, grazie al rilancio degli investimenti, perniciosa se si traduce in spesa improduttiva o in aumenti salariali che non tengono conto del sottostante legame con la produttività;
il rilancio dell'economia nazionale è quindi una priorità assoluta, se non altro per i suoi evidenti obiettivi di carattere sociale. Essa è tuttavia necessaria anche per contenere l'ulteriore aumento del debito in rapporto al PIL. Le politiche deflazionistiche di questi ultimi anni, infatti, non hanno prodotto i risultati sperati. Nonostante le manovre d'aggiustamento finanziario, il rapporto debito-PIL è aumentato. Ed è aumentato a causa del collasso del denominatore. In altre parole, i risparmi di spesa sono stati più che compensati, negativamente, da una maggiore caduta del PIL sottostante;
ragionare in termini di sviluppo, significa tenere a mente la situazione complessiva del Paese, che è tutt'altro che omogenea. Nel Centro-Nord permangono situazioni di debolezza, ma molte aziende si sono riconvertite, anche se risentono della peggiorata congiuntura internazionale, che limita le loro capacità di esportazione. Il dramma è rappresentato dal Mezzogiorno. Qui la frattura rimane profonda, in un solco che tende ad accentuarsi. Lo dimostra l'andamento di qualsiasi indicatore si voglia scegliere: dalla crescita del PIL locale, al tasso di disoccupazione; dagli indici di povertà assoluta e relativa, al peggioramento delle ragioni di scambio tra la limitata produzione che viene esportata ed il crescente peso delle importazioni nette. Negli ultimi anni si assiste anche al fenomeno della forte caduta del reddito pro-capite, segno che la forte emigrazione non riesce a compensare il minor tasso di crescita complessivo;
questi dati mostrano l'immagine di un Paese profondamente diviso all'interno del quale opera ancora il "circolo vizioso della povertà", quel meccanismo in base al quale il "centro" tende comunque a svilupparsi, o almeno a contenere le perdite, mentre la "periferia" scivola costantemente verso il basso. Fu questa una caratteristica generale degli anni passati. Il modello di relazioni internazionali su cui si interrogarono economisti del calibro di Paul Rosenstein-Rodan, Ragan Nurkse, Harvey Leibenstein, Gunnar Myrdal. Studi che valsero a quest'ultimo l'ambito riconoscimento del premio Nobel per l'economia, meccanismo che gli anni della globalizzazione hanno spazzato via, nella maggior parte dei casi. Quasi dappertutto: salvo che nel Mezzogiorno d'Italia;
è quindi da qui che si deve partire se si vuol dare un respiro strategico all'azione di governo, pur nella consapevolezza delle difficoltà del presente. L'esperienza internazionale dimostra che vincere questa sfida è possibile. Basti pensare a quella che era la situazione dei Paesi sottosviluppati alla fine del secolo scorso e come essi - le cosiddette economie emergenti - siano oggi determinanti per la ripresa di tutta l'economia mondiale. All'origine di questo cambiamento è stato l'affermarsi di un nuovo paradigma, basato essenzialmente sulla forza del mercato. Strumento potente, nonostante i suoi limiti. Comunque dotato di una forza intrinseca capace di far impallidire qualsiasi vocazione pianificatrice, come mostra l'esperienza cinese o quella di molte altre aree una volta connotate solo per il prevalere dei fenomeni di disgregazione sociale e di abulia. Elementi prodromici al grande dramma della "fame nel mondo", che oggi, secondo tutti gli studi internazionali, è in fase di seppur lento superamento;
nel Mezzogiorno d'Italia questa leva potente è depotenziata. Il mercato non è un'astrazione degli economisti. Presuppone un territorio fortemente integrato ed interconnesso da infrastrutture in grado di dare unità all'intero sistema. Nel Sud d'Italia, invece, questi legami sono fin troppo deboli. Per quanto limitati, sono più efficienti i collegamenti tra alcuni centri del Mezzogiorno con il Nord del Paese rispetto a quell'intelaiatura orizzontale. Negli anni '70 per comunicare telefonicamente tra Bombay e Nuova Delhi si doveva passare per Londra. Da Bari è più facile raggiungere Milano che non Catanzaro o Reggio Calabria. Il prevalere di queste relazioni verticali spiega uno dei tanti apparenti misteri del Mezzogiorno d'Italia. La sua dipendenza dalle importazioni nette: prodotti realizzati nelle restanti parti del territorio e poi trasportati nelle aree di smercio. Valori che nel tempo hanno raggiunto percentuali vicine al 30 per cento, segnali inquietanti di un vantaggio relativo, per quanto perverso. Data l'assenza di vie di comunicazioni interne, degne di questo nome, è più conveniente produrre nel Nord del Paese, per poi trasportare il tutto presso le singole unità di vendita. Il che spiega perché, nonostante questa domanda potenziale, non si sia nemmeno pensato di creare delle teste di ponte - magazzini all'ingrosso - che potessero soddisfare, a minor costo, la relativa domanda di beni;
interconnettere stabilmente il territorio rappresenta, pertanto, la priorità assoluta. Per farlo sono necessarie quelle infrastrutture la cui mancanza rappresenta la palla al piede di tutto il Paese, ma che, nel Mezzogiorno, mostrano un gap nel gap generale. Ecco allora come una politica economica, come quella descritta in precedenza, può saldarsi in un disegno organico. Abbiamo bisogno di maggiori investimenti pubblici e privati. Nel Mezzogiorno, gli investimenti pubblici in infrastrutture possono fare da apripista. Creare le condizioni in grado di alterare vecchi parametri di convenienza e spingere le stesse aziende ad operare in loco, piuttosto che produrre all'esterno per poi trasferire quel prodotto nelle zone di smercio. Occorre quindi un grande impegno programmatico, che faccia il punto delle opere finora realizzate, nella loro incompiutezza, che ne completi i tracciati, assicurando una continuità del finanziamento, anche per evitare stati di abbandono che deturpano l'ambiente e si traducono in un grande spreco di risorse. Basti pensare a quel che avviene in Sicilia. Mancano solo pochi chilometri di strada per completare l'anello autostradale, che favorirebbe collegamenti più rapidi, consentendo, se non altro, enormi risparmi di costo in termini di energia. Senza considerare i suoi riflessi positivi sull'ambiente;
ma non è su una nuova autarchia che si deve puntare. Il Mezzogiorno d'Italia è il punto terminale di una grande piattaforma logistica in grado di intercettare il commercio Nord-Sud: tra i nuovi luoghi di produzione industriali - l'hub cinese - ed il resto dell'Europa. Realizzare le necessarie infrastrutture di completamento - si pensi al porto di Taranto o di Gioia Tauro - garantiscono un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti europei straordinario. Tra Taranto e Rotterdam - l'altra porta per l'Europa - la differenza, in termini di giorni di navigazione, è di circa una settimana. Se questi nostri porti - non solo Taranto, ma lo stesso Napoli - fossero integrati con collegamenti terrestri veloci - sia su gomma che su ferro - l'Italia avrebbe un ruolo straordinario da giocare. Una nuova "via della seta", da sviluppare, prima che si si realizzino costosi collegamenti terrestri tra l'Asia ed il territorio russo. L'esperienza della lex mercatoria, fin dal lontano Medio Evo, dimostra quali siano le potenzialità di questo sviluppo: non solo traffico di merci, ma progressiva integrazione dei diversi rapporti: commerciali, industriali, finanziari. E via dicendo;
a livello internazionale il Governo cinese ha mostrato più volte interesse per questo disegno. Lo si è potuto constatare in riunioni di esperti, tavole rotonde, convegni, rapporti con le autorità locali dei distretti più industrializzati. Sono anche disposti ad investire direttamente, per contribuire a realizzare le necessarie infrastrutture, che oggi mancano. E' quindi indispensabile non far cadere queste aspettative, soffocandole con lungaggini burocratiche o mostrando disinteresse. Occorre, al contrario, un'iniziativa incisiva. Contatti serrati, anche in vista del prossimo G20, che vedrà la presenza del Presidente del Consiglio italiano. Se l'Italia vuol recuperare terreno sul fronte degli investimenti esteri deve dimostrare tutta la sua volontà propositiva e presentarsi nelle riunioni che contano con progetti già individuati;
puntare sullo sviluppo del Mezzogiorno, dopo anni di colpevole abbandono, è anche la via maestra per combattere le organizzazioni criminali che rendono insicura la vita di milioni di cittadini. Il brodo di cultura della mafia, della 'ndrangheta o della camorra, solo per citare le più famigerate, è la mancanza di prospettive. Questo è il grande stagno dove pescare la necessaria manovalanza, traviare i giovani, offrendo loro un'alternativa, per quanto esecrabile, ad una vita che non ha, comunque, una speranza di futuro. L'azione di contrasto, non solo repressiva ma culturale, per quanto necessaria, è tuttavia insufficiente. Lo si è visto nei vari tentativi, compiuti a livello internazionale, per combattere i grandi traffici. L'arma più potente per ridurre la devianza sociale, quando essa assume le caratteristiche di fenomeno sociale, è quella di una crescita del tessuto civile. Ma quest'obiettivo potrà essere conseguito solo se avrà come fondamento una sua base materiale, quello sviluppo economico che finora è mancato;
tutto ciò premesso, impegna il Governo:
a perseverare lungo la linea intrapresa, con l'obiettivo di rilanciare la crescita e lo sviluppo, come vero antidoto a quel malessere sociale che turba non poco gran parte del popolo italiano;
essenziale, a tal fine, è perseverare nel processo di riforma, a partire da quelle di carattere istituzionali che devono rappresentare, tuttavia, solo l'inizio di un percorso destinato a durare nel tempo per aggredire le arretratezze strutturali che finora hanno ridotto le possibilità di sviluppo complessivo. In proposito il prossimo referendum sulle riforme di carattere costituzionale deve essere considerato come la base di partenza per una visione più ampia, nella consapevolezza che solo quell'atto, così impegnativo, può dare una nuova speranza di cambiamento;
al tempo stesso tutte le risorse disponibili - a partire dalla spending review e dalla maggiore flessibilità di bilancio - dovranno essere utilizzate per il rilancio di quegli investimenti, che è premessa indispensabile per una crescita della domanda interna, che è pre-condizione della possibile ripresa;
di questa complessa strategia, parte integrante dovrà essere il corretto e tempestivo uso dei fondi comunitari, innovando profondamente rispetto alle prassi del passato. Occorre evitare che questi fondi non siano spesi oppure dispersi in mille rivoli che, a differenza delle migliori altre esperienze internazionali, come in Spagna o in Portogallo, non hanno dato luogo ad effettivi contributi per lo sviluppo;
in questo contesto, un deciso intervento a favore del Mezzogiorno resta la chiave di volta non solo per evitare ulteriori divaricazioni territoriali, ma per rimettere in moto l'intero meccanismo dello sviluppo nazionale. Occorre, in altre parole, evitare che quella frattura diventi insanabile e che su questa frattura possano svilupparsi fenomeni che non sono solo di carattere sociale, ma che abbiano una recrudescenza di carattere politico. La lotta contro le organizzazioni criminali - mafia, camorra e 'ndrangheta - non presuppone solo l'inevitabile e necessaria azione di contrasto da parte delle Forze dell'ordine, ma deve essere supportato da una crescita organica di quei territori: l'antidoto più sicuro per prosciugare gli stagni in cui la malavita organizzata recluta i propri addetti, spesso spinti dalla sola necessità di sopravvivenza. Se è vero, com'è vero, che ad ogni euro speso per combattere militarmente il terrorismo internazionale deve accompagnarsi un euro per la battaglia culturale, a maggior ragione quest'impegno deve valere per le nostre terre;
nel contesto indicato, le azioni immediate da compiere riguardano soprattutto la realizzazione delle necessarie infrastrutture, a partire dalle opere incompiute, per integrare e proteggere i singoli territori. Rispetto al gap nazionale, nei confronti dell'estero, nel Mezzogiorno questo divario è ancora più profondo. Porvi rimedio deve rappresentare una grande priorità nazionale che va braccetto con la necessità di un uso razionale e tempestivo dei fondi comunitari, onde evitare gli sprechi e i ritardi del passato;
lo stesso sforzo dovrà essere compiuto per l'agricoltura, vero presidio per la tenuta dell'ambiente, che se abbandonato rischia ulteriormente di degradare, mentre sullo sfondo resta il grande tema del turismo foriero di un possibile ed immediato sviluppo;
ad inserire nel DEF 2016 l'adozione di un Piano straordinario per il Mezzogiorno che abbia una visione di insieme e di durata;
a valutare misure per una politica industriale specifica per il Sud, con l'attivazione di corsie preferenziali per accedere al credito;
a predisporre forme di fiscalità di vantaggio idonee a compensare i gap competitivi che penalizzano il Mezzogiorno d'Italia rispetto ai Paesi dell'Est Europa;
a valutare l'istituzione presso il Ministero dello sviluppo economico di un Fondo per la riduzione del costo del credito;
a valutare la predisposizione di un intervento per le infrastrutture che affronti le emergenze attuali di manutenzione di quelle esistenti e di mobilità della popolazione e risolva il ritardo del Mezzogiorno rispetto al resto d' Europa.
(6-00187)
RUVOLO, BARANI, AMORUSO, AURICCHIO, BONDI, CONTI, COMPAGNONE, D'ANNA, FALANGA, GAMBARO, IURLARO, LANGELLA, LONGO EVA, MAZZONI, PAGNONCELLI, PICCINELLI, REPETTI, SCAVONE, VERDINI.