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Atto a cui si riferisce:
S.1/00593 premesso che: il voto del Parlamento europeo del 12 maggio 2016 ha confermato la presa di posizione italiana contro il riconoscimento alla Repubblica popolare cinese dello status di...



Atto Senato

Mozione 1-00593 presentata da FRANCESCO SCALIA
martedì 21 giugno 2016, seduta n.641

SCALIA, TOMASELLI, GIACOBBE, SOLLO, MARGIOTTA, ANGIONI, MOSCARDELLI, DALLA ZUANNA, CANTINI, LIUZZI, MORGONI, PEZZOPANE, CONTE, PICCOLI, VALDINOSI, MASTRANGELI, FISSORE, SANTINI, GINETTI, CUCCA - Il Senato,

premesso che:

il voto del Parlamento europeo del 12 maggio 2016 ha confermato la presa di posizione italiana contro il riconoscimento alla Repubblica popolare cinese dello status di economia di mercato (SEM) a 15 anni dal suo ingresso nella World trade organization. Il voto ha evidenziato che, al di là degli impegni formali, alcune aree del mondo non competono sul mercato mondiale con regole uniformi a quelle europee e statunitensi;

tra le varie asimmetrie competitive, una riguarda i diversi limiti alle emissioni e i diversi costi dei vettori energetici utilizzati nella produzione industriale;

le emissioni di anidride carbonica sono divenute uno dei parametri della competitività produttiva, perché, se si usa energia altamente inquinante e a costo relativamente basso come il petrolio o il carbone, senza limiti derivanti da politiche ambientali, si ottiene un vantaggio competitivo rispetto a chi si approvvigiona con gas o con fonti rinnovabili. In altri termini, bassi costi energetici si riverberano in costi di produzione più contenuti, maggiore competitività sul mercato e, di fatto, uno svantaggio per chi produce, volente o nolente, con un basso impatto di carbonio;

la produzione industriale europea è gravemente penalizzata dal costo energetico e ambientale nei confronti dei competitori internazionali; a dimostrarlo sono le crescenti delocalizzazioni degli impianti e le percentuali dell'importazione di beni prodotti da nazioni ormai industrializzate, che sono, di fatto, anche dei "paradisi emissivi";

la bilancia commerciale europea, nel decennio 2002-2012, ha più che raddoppiato la propria negatività, importando 2,2 volte quello che importava all'inizio millennio; il Giappone nello stesso periodo è passato da un bilancio attivo di 84 miliardi di dollari a un passivo di 68 miliardi; gli USA hanno incrementato il loro deficit del 14 per cento; in compenso la Cina ha incrementato le proprie esportazioni del 459 per cento e la Russia del 253 per cento. Gli USA e la UE rappresentano, da soli, il 32 per cento delle importazioni complessive globali. La Cina, con quasi il doppio della popolazione congiunta di USA e UE, rappresenta solo il 12 per cento delle importazioni mondiali;

ma questi dati non bastano a chiarire il fenomeno. Tendenzialmente, i Paesi industrializzati esportano nei Paesi in via di sviluppo percentuali significative di servizi, cioè attività con un basso impatto di inquinamento e beni prodotti con alti livelli di efficienza energetica e percentuali significative di fonti rinnovabili. Diversamente, importano soprattutto beni fabbricati da opifici non efficienti e che si approvvigionano con vettori energetici fossili: la Cina, ad esempio, produce oltre l'80 per cento della propria elettricità con il carbone;

gli stessi produttori europei, pur continuando ad avere come sbocco il mercato continentale, scelgono di spostare i propri opifici in Paesi il cui costo dei lavoratori, i loro diritti, gli adempimenti amministrativi e di tassazione sono di molte volte inferiori a quelli europei, ma soprattutto dove la differenza di costi dell'energia crea un vantaggio competitivo sul costo finale del bene;

l'Europa sta delocalizzando la produzione dei beni che le necessitano e i dati, apparentemente confortanti, in merito alla bassa intensità emissiva delle produzioni interne non compensano il suo declino produttivo;

nel momento in cui si pongono limiti e obiettivi su un'area economica come l'Europa, è ovvio che vengano favoriti indirettamente comportamenti che basano la loro concorrenzialità sulla mancanza di tali limiti;

la cosa meno evidente, e per taluni aspetti peggiore, è che, con questo trend economico, le attuali politiche europee sui vincoli ambientali premiano l'industria extra UE e i consumatori europei di fatto incentivano l'aumento delle emissioni globali acquistando beni prodotti in aree ad alta intensità emissiva. Infatti, se per produrre in UE un determinato bene si emette un chilogrammo di anidride carbonica, acquistando quel bene prodotto in un Paese al di fuori della UE si emettono con buona approssimazione 2 chilogrammi di anidride carbonica;

in altri termini, l'Europa sta adottando una politica basata sul sostegno delle economie emergenti anche attraverso l'acquisto di beni prodotti con l'utilizzo di vettori energetici inquinanti e a basso costo;

occorre ripensare la competitività dell'industria europea alla luce di una perequazione dei costi energetici e ambientali: non attenuando i limiti ambientali, ma rifiutando di accogliere passivamente nel proprio mercato interno beni e materie che godono di un vantaggio competitivo basato su bassi costi energetici e bassi standard ambientali;

tra i Paesi più virtuosi, quindi paradossalmente più colpiti, c'è proprio l'Italia che, con una leadership su efficienza energetica e produzione rinnovabile, vede i propri settori energivori, come acciaio, carta, cantieri navali, vetro e alluminio, perdere costantemente competitività sul mercato mondiale;

considerato che la risoluzione approvata il 4 giugno 2015 dalle Commissioni riunite 10a e 13a (Industria e Ambiente) del Senato sugli atti comunitari n. 60, n. 61 e n. 62 (Doc. XVIII, n. 92), fra l'altro, afferma: "andrebbe riconsiderata l'alternativa dell'introduzione graduale di forme articolate di carbon tax a valere sia sulle merci prodotte nella UE sia su quelle di importazione, così da evitare, nel rispetto degli accordi WTO, negativi effetti di spiazzamento dell'Europa nel commercio mondiale; nel perseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni e di sicurezza degli approvvigionamenti si sottolinea inoltre l'importanza di interventi volti a promuovere il risparmio energetico e l'uso di risorse domestiche",

impegna il Governo:

1) a prendere iniziative in sede europea, per rompere il meccanismo vizioso dell'attuale politica UE di decarbonizzazione, superando l'Emission trading scheme e introducendo un'imposta (così come esplicitata nel libro "CO2 nei beni e competitività industriale europea" di A. Gerbeti) sull'intensità carbonica dei prodotti, da applicare in modo non discriminatorio sia ai prodotti UE che a quelli importati, sulla base del contenuto di anidride carbonica emesso per la produzione di tali beni, in modo da riconoscere i meriti ambientali delle produzioni manifatturiere UE senza discriminare quelle extra UE che rispettano gli stessi standard ambientali, innescando un meccanismo virtuoso di miglioramento della qualità ambientale dei prodotti e accelerando il raggiungimento degli obiettivi globali di decarbonizzazione;

2) ad individuare misure direttamente applicabili a livello nazionale che agiscano come leva di fiscalità ambientale tramite la modulazione delle aliquote IVA. Tali misure non avranno l'obiettivo di aumentare il gettito fiscale, ma saranno finalizzate ad incentivare le produzioni più pulite e a disincentivare le altre, a prescindere da dove i beni vengano prodotti.

(1-00593)