• C. 3594-A-bis EPUB COMINARDI Claudio, Relatore di minoranza per la Commissione XI Lavoro - DI VITA Giulia, Relatore di minoranza per la Commissione XII Affari Sociali

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Atto a cui si riferisce:
C.3594 [Ddl reddito di inclusione] Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali (collegato alla legge di stabilità 2016)


Frontespizio Relazione
Testo senza riferimenti normativi
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 3594-A-bis


DISEGNO DI LEGGE
presentato dal ministro del lavoro e delle politiche sociali
(POLETTI)
Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali (collegato alla legge di stabilità 2016)
Presentato l'8 febbraio 2016
(Relatori di minoranza: COMINARDI, per la XI Commissione; DI VITA, per la XII Commissione)


      

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Onorevoli Colleghi! Il provvedimento in titolo interviene nell'ambito della lotta alla povertà e della riforma del nostro sistema di politiche sociali.
      Si tratta di una delega al Governo, già anticipata nella legge di stabilità 2016 (articolo 1, commi dal 386 al 390) destinata all'attuazione di un «Piano nazionale per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale». La delega introduce: a) una misura nazionale di contrasto alla povertà; b) il riordino delle prestazioni di natura assistenziale; c) il riordino della normativa in materia di sistema degli interventi e dei servizi sociali.
      Preliminarmente si ritiene doveroso sottolineare le numerose criticità relative alla configurazione della predette misure e interventi.
      Le risorse, del valore di 600 milioni, assegnate per l'anno 2016 al «Fondo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale» (incrementato di 1.000 milioni di euro a decorrere dal 2017 con risorse ancora da individuare nella prossima legge di stabilità) sono destinate, per una quota pari a 220 milioni di euro, a un ulteriore rifinanziamento dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 16, comma 7, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, riferita alla sperimentazione dell'Assegno di disoccupazione (ASDI), prestazione di carattere assistenziale con oneri a carico della fiscalità generale, che fornisce un sostegno agli individui che hanno esaurito la NASpI e si trovino ancora senza lavoro e in stato di disagio economico. Per tale misura, erano stati stanziati in un primo momento 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016. Successivamente, con il decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148, la sperimentazione è stata prolungata e la relativa autorizzazione di spesa è stata incrementata di 180 milioni di euro per l'anno 2016, di 270 milioni di euro per l'anno 2017, di 170 milioni di euro per l'anno 2018 e di 200 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2019. In particolare, in sede di prima applicazione, gli interventi, erogati nei limiti delle risorse stanziate, sono stati prioritariamente riservati ai lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni e, quindi, ai lavoratori di età pari o superiore a 55 anni che non abbiano maturato i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. Si richiede inoltre il possesso di una attestazione dell'ISEE, in corso di validità, dalla quale risulti un valore dell'indicatore pari o inferiore a 5.000 euro.
      L'ASDI è erogata per un periodo massimo di 6 mesi nei 12 mesi precedenti il termine del periodo di fruizione della NASpI e comunque per un periodo pari o superiore a 24 mesi nel quinquennio precedente il medesimo termine. L'importo è pari al 75 per cento dell'ultimo trattamento ottenuto attraverso la NASPI, e, comunque, in misura non superiore all'ammontare dell'assegno sociale, incrementato sulla base del numero dei figli a carico. Al fine di incentivare la ricerca attiva del lavoro, i redditi derivanti da nuova occupazione possono essere parzialmente cumulati con l'ASDI entro limiti analoghi a quelli previsti per la NASpI. Per il riconoscimento dell'ASDI il lavoratore deve inoltre sottoscrivere un progetto personalizzato di presa in carico redatto dal competente servizio per l'impiego, in collaborazione con il richiedente, a seguito di uno o più colloqui individuali. Come evidenziato dalla relatrice di maggioranza per la XI Commissione, «nel parere espresso sul provvedimento il 20 gennaio 2016, la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha chiesto al Governo di tenere distinto dagli investimenti per il contrasto alla povertà il finanziamento previsto a legislazione vigente per l'ASDI, che rimane un intervento a favore di lavoratori fuoriusciti dal mercato del lavoro e si rivolge quindi ad una platea diversa da quella su cui deve intervenire una misura universale contro la povertà».
      Le predette misure si limitano a fornire un sostegno reddituale per un periodo determinato, a condizione che si abbia avuto la possibilità di versare i contributi necessari per ottenerli. Durante il dibattito in Commissione, le forze di opposizione, hanno ottenuto di modificare il testo in esame, precedentemente orientato verso una «impostazione selettiva» delle misure e interventi contro la povertà. Di fatto, tale impostazione rimane, tant’è che dal menzionato riordino sono escluse solo le persone anziane e non più in età di attivazione lavorativa, le prestazioni a sostegno della genitorialità, nonché quelle legate alla condizione di disabilità e di invalidità del beneficiario.
      Da sempre, il dibattito sulle proposte di riforma del welfare state in generale, e degli schemi di sostegno    al reddito in particolare, si è sviluppato attorno ad una questione fondamentale e cioè se occorra privilegiare un'impostazione selettiva oppure un'impostazione universale. L'interrogativo, che ha trovato risposte diverse nei vari contesti istituzionali, è se l'erogazione delle prestazioni sociali debba essere subordinata all'accertamento della condizione economica dei potenziali beneficiari, oppure estendersi a tutti i cittadini.
      Infatti dal punto di vista teorico la scelta tra selettività e universalismo riflette una diversa concezione circa il ruolo dello Stato. Nel primo caso il modello di riferimento è quello di uno stato sociale con compiti residuali, in cui la fornitura delle prestazioni non può che essere subordinata alla prova dei mezzi e il livello dei benefici deve essere appena sufficiente a garantire un livello minimo di risorse. Nel secondo caso, invece, il modello storicamente più evoluto è quello di uno stato sociale con compiti redistributivi la cui funzione è quella di erogare, in moneta o in natura, prestazioni sociali volte a garantire alla generalità dei cittadini un tenore di vita adeguato (comunque commisurato a uno standard di povertà relativa). Una delle principali motivazioni addotte a favore del ricorso a criteri selettivi è da ricercarsi nella presunta minor onerosità per il bilancio statale unita ad una maggiore efficacia in termini di equità.
      L'intervento dovrebbe avvantaggiare esclusivamente coloro che si posizionano nei decili inferiori della distribuzione. Viceversa, l'erogazione di un beneficio universale comporterebbe benefici anche per le classi medio-alte. L'esistenza di una correlazione diretta tra benefici ottenuti e posizione occupata nella scala dei redditi, suffragata da numerose evidenze empiriche a livello internazionale, ha via via costretto ad assumere un atteggiamento di maggior cautela nei confronti dell'adozione del criterio universale.
      Il provvedimento in titolo continua ad applicare le misure tradizionali allo scopo di garantire un livello minimo di sussistenza nel caso in cui i singoli individui non dispongano di fonti alternative di reddito. In particolare, tali misure agiscono come una sorta di protezione contro il rischio di non lavorare e si configurano sostanzialmente come misure redistributive per combattere la povertà di reddito. Marx è stato, forse, il primo tra gli economisti ad avanzare la proposta di corrispondere un reddito anche a coloro che si collocavano al di fuori del processo produttivo in quanto disoccupati, affermando che ognuno deve partecipare secondo le proprie capacità ed ottenere un reddito in base agli specifici bisogni. Questa proposta è stata successivamente ripresa da Russel e da Lange sotto forma di un «dividendo sociale» da corrispondere a tutti coloro che cooperano all'interno di una determinata collettività.
      L'unica misura universale, che ha come ambizione principale di riformare il quadro generale dello Stato sociale, nonché le forme di protezione e sostegno al reddito e al consumo non può che essere identificata con il reddito di cittadinanza. Tale meccanismo si propone, infatti, di completare le garanzie legate al Welfare (pensioni, sanità, indennità).
      Da un punto di vista legislativo, il diritto individuale ad un reddito minimo è evidenziato anche all'articolo 36, primo comma della Costituzione italiana: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa». Il concetto di «esistenza dignitosa» è ripreso anche dal terzo comma dell'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Emerge quindi che sia la Costituzione italiana, sia l'Onu e, infine, l'Unione europea concepiscono come fondamentali, gli strumenti in grado di «garantire libertà e dignità» a tutti coloro che non hanno i mezzi sufficienti per poter avere tali diritti.
      Il modello di protezione sociale ha consentito all'autorità pubblica di esercitare una funzione di protezione degli individui, di riduzione dei rischi sociali e d'integrazione: il cittadino era al centro del sistema. Nel corso degli anni, queste funzioni sono di fatto diminuite, a seguito delle condizioni economico-sociali e politico-culturali che hanno messo in crisi il Welfare State.
      Va aggiunto che la società capitalistica contemporanea, è passata da un sistema fordista-taylorista, dove il lavoro a tempo indeterminato e quindi sicuro rappresentava un pilastro fondamentale, a un sistema in cui il posto fisso è diventato qualcosa di raro e sempre più spesso a tempo determinato e precario, nonostante l'introduzione dei contratti a tutele crescenti. Gli incentivi occupazionali, pur promossi dal Governo, non risultano determinanti, in quanto essi sono limitati nel tempo. Gli stessi incentivi paiono commisurati a un periodo di tempo che potrà consentire alle imprese di coprire i costi del licenziamento per poi assumere a costi più bassi, oltretutto conteggiando tali ingressi come nuova occupazione. Del pari non sembrano efficaci le misure annunciate dal Governo in tema di disboscamento delle molteplici tipologie contrattuali esistenti.
      L'economia di mercato sembra quindi non lasciare spazio ad alternative di giustizia e redistribuzione del reddito, a discapito del senso di collettività e convivenza comune.
      Per tutta l'epoca del fordismo, e fino ai giorni nostri, l'Italia, è dotata di un Welfare caratterizzato da un ritardo strutturale in relazione ai mutamenti che stanno avvenendo nel mercato del lavoro.
      Il Welfare italiano non prende in considerazione le trasformazioni che riguardano il tradizionale lavoro basato su occupazione a tempo pieno, mansioni per lo più univoche e una carriera definita sul ciclo di vita.
      L'agenda di Lisbona dell'Unione europea del 2000 ha affermato come obiettivo, la piena occupazione del mercato del lavoro.
      L’élite dell'economia e della politica, non riesce a comprendere che, in una società contemporanea, l'obiettivo del pieno impiego risulta impraticabile se si vogliono garantire condizioni di lavoro dignitose.
      Il reddito di cittadinanza si distingue dalle altre tradizionali forme di trasferimento monetario, non solo perché il suo livello è generalmente superiore alla pura sussistenza, ma principalmente per la sua giustificazione e per i criteri di eleggibilità.
      Il reddito di cittadinanza non ha natura assistenziale a posteriori. Esso si basa sul presupposto che in un sistema capitalistico avanzato, in cui il problema è la scarsità di un lavoro per tutti i cittadini, sia possibile ed economicamente conveniente destinare a tutti i cittadini una parte delle risorse collettive ex-ante ed indipendentemente da qualsiasi attività lavorativa. Le argomentazioni a favore di questa misura sono state sviluppate attorno al dilemma «diritto al lavoro/diritto al reddito». Più che sul diritto al lavoro il contratto sociale che lega i cittadini dovrebbe reggersi sul diritto alla sicurezza, alla libertà ed all'informazione.
      Un reddito di cittadinanza più elevato, rispetto ai sussidi economici che il provvedimento in titolo intende introdurre, potrebbe a nostro avviso contribuire all'alleggerimento del bilancio dello Stato, ad es. attraverso la riduzione degli ammortizzatori sociali presenti nel sistema. In questa situazione riteniamo, infatti, che il bilancio dell'INPS verrebbe sgravato di una serie di costi e, in aggiunta, verrebbe garantita una riduzione dei contributi sociali a vantaggio dei salari e redditi da lavoro. Di conseguenza, una riduzione o eliminazione dell'indennità di disoccupazione, di mobilità e cassa integrazione determinerebbero un incremento dei salari da lavoro.
      In un mercato del lavoro, destinato a diventare sempre più flessibile, il reddito di cittadinanza permetterebbe di avere una continuità economica per i periodi in cui non c’è occupazione, e ciò sarebbe positivo innanzitutto per i lavoratori, ma anche per il mercato stesso.
      Sempre per quanto concerne il livello sociale, attraverso una misura di questo genere, sarebbe possibile prevenire l'esclusione sociale degli individui con un reddito non continuo ed esiguo. Con la presenza del reddito di cittadinanza sarebbe possibile combattere il lavoro nero, ci sarebbero meno presupposti per incoraggiarlo, in quanto ci si potrebbe dotare di un minimo vitale e anche perché, nel momento in cui si compie il reato, vi sarebbe la sospensione del sussidio.
      Tale misura potrebbe inoltre portare, ad una diminuzione del costo della politica, perché se già dotati di reddito di base, questo potrebbe essere un fattore che permetta di attribuire loro una remunerazione minore.
      Il reddito di cittadinanza permetterebbe di sviluppare riforme e politiche innovative e sostenibili, determinando un possibile cambiamento storico, o comunque divenendo un importante punto di partenza.
      Se accostato a politiche di tutela ambientale, il reddito di cittadinanza potrebbe incentivare la cura dell'ambiente e l'ecologia. È uno strumento che permette effettivamente un cambiamento reale della società contemporanea, è un'idea progressista, che vede l'uomo al centro del progetto, e della società che si va a creare. Pertanto, solo sostenendo il reddito di cittadinanza, si potrebbe dare una visione maggiormente universale a favore dei cittadini, superando così la citata impostazione selettiva, con effetti reali contro la povertà e l'esclusione sociale.
      Invece, ci troviamo di fronte ad un altro provvedimento che interessa direttamente le fasce più fragili della nostra popolazione e che non sembra seguire affatto i principi fin qui illustrati.
      Infatti, con il disegno di legge, il Governo dichiara di volersi impegnare a realizzare un intervento di profonda riforma delle politiche sociali nel nostro Paese, tuttavia, nel farlo, ammette che da troppi anni si è operato con interventi per «stratificazione»: hanno aggiunto prestazioni a quelle esistenti senza ordinarle, bonificarle, ridare razionalità e finalizzazione a scelte che inevitabilmente sono diventate farraginose, costose e dunque inadeguate per affrontare i problemi legati alla povertà. Ammette inoltre che tutto questo è avvenuto «in assenza di verifiche sulla loro efficacia rispetto ai bisogni», sconfessando di fatto le pratiche giustificazioniste che lo stesso Ministero e le sue direzioni hanno utilizzato negli anni, sostenendo che le misure introdotte erano diverse, che sarebbero state verificate e confrontate con le pratiche tradizionali, che sarebbe stata verificata la loro efficacia. Si sono così consumate molte risorse senza risultati, questo è innegabile, che sarebbero potute essere utilizzate in modo migliore.
      Sostenere che il nostro Paese è «uno dei pochi nell'ambito europeo a non essere dotato di una misura di contrasto della povertà» e subito dopo aggiungere che «esistono strumenti di protezione del reddito di specifiche fasce di cittadini fragili» significa negare e affermare la stessa cosa. Significa cioè ammettere che non siamo all'anno zero nella lotta alla povertà e che il problema è stato affrontato in tanti modi, ma con lo stesso denominatore comune: «trasferimenti monetari», cioè risposte uguali con denominazioni e destinatari in parte uguali e in parte diversi.
      Passare da tante misure a una unica potrebbe essere un ulteriore cambio di misura, ma senza modificare la strategia.
      Cosa cambierà veramente? I poveri continueranno a ricevere «a diverso titolo» quello che già ricevono? Oltre al denaro riceveranno anche servizi o solo progetti personalizzati destinati a esaurirsi nel nulla più totale? Dare con «progetti personalizzati» non è una novità. L'attivazione gestita con progetti condivisi con le persone è una consuetudine nei servizi territoriali che funzionano. Ma proprio perché funzionano evidenziano che non basta. Per questo la legge e il piano di lotta alla povertà non devono limitarsi a rinominare, modificando l'ordine dei fattori senza un cambio sostanziale di passo e di visione. Lottare contro la povertà significa contrastarla e vincerla. Non significa dare con altro nome le stesse cose, con le stesse modalità.
      A dispetto degli annunci del Governo, le misure contro la povertà varate con l'ultima legge di stabilità – cui si collega a filo diretto il presente disegno di legge – appaiono largamente insufficienti a coprire tutti quelli che oggi vivono in una condizione di povertà assoluta e non si pongono l'obiettivo di trovare strumenti strutturali e universali di lotta alla povertà nel medio e lungo periodo.
      L'impressione è che queste costituiscano solo una rimodulazione di strumenti già esistenti, non un welfare più inclusivo ma solo uno spostamento di risorse da una platea all'altra. Appare del tutto evidente l'impossibilità di configurarla come una misura di reddito minimo, essendo gli stanziamenti assolutamente insufficienti persino a coprire l'intera platea di persone in condizione di povertà assoluta, figurarsi quelle in povertà relativa, compresi disoccupati, inoccupati, NEET e working poors.
      In particolare il comma 1 indica la finalità generale del provvedimento, modificata durante l'esame in commissione, ossia quella di, contrastare la povertà e l'esclusione sociale, ampliare le protezioni fornite dal sistema delle politiche sociali per renderlo più adeguato rispetto ai bisogni emergenti e più equo e omogeneo nell'accesso alle prestazioni. Sebbene il principio dell'universalismo selettivo nell'accesso al beneficio sia apprezzabilmente stato soppresso dal testo, di fatto esso permane nella sostanza, come ha dichiarato pubblicamente la relatrice del provvedimento, dicendo che esso è solo stato espunto, ma «è intenzione delle relatrici prevedere che la misura unica di contrasto alla povertà sia sottoposta alla prova dei mezzi», così come puntualmente riportato nell'articolo 1, comma 1, lettera a).
      Invero, nessuna misura può essere universale se è selettiva, una misura di contrasto alla povertà è universale se si rivolge a tutti i poveri, tra l'altro il testo non definisce la povertà, né in termini di povertà assoluta né relativa. L'intenzione di formare delle categorie tra poveri e selezionare chi abbia la precedenza rispetto ad altri è una forma di inaccettabile discriminazione. È giusto dare la priorità a chi sta peggio, ma ciò non può essere fatto suddividendo la popolazione in mere e asettiche categorie, bensì utilizzando dei parametri appositamente precostituiti per misurare il grado di povertà, partendo dai gradi di povertà più alti e via via a scendere. Ormai il Governo, come accade nel settore sanitario, ha imboccato la strada dell'abolizione, di fatto, dell'universalismo sancito dalla nostra Costituzione, all'articolo 32, spingendo verso una privatizzazione sempre più massiccia dei servizi socio sanitari, accessibili, quindi solo a chi può permetterselo e negando i diritti agli altri.
      Nell'ambito della succitata finalità generale è specificato che i decreti legislativi devono recare:

          a) l'introduzione di una misura nazionale di contrasto della povertà, intesa come l'impossibilità di disporre dell'insieme dei beni e dei servizi necessari a condurre un livello di vita dignitoso, e dell'esclusione sociale individuata come livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente in tutto il territorio nazionale;

          b) il riordino delle prestazioni di natura assistenziale finalizzate al contrasto della povertà, fatta eccezione per le prestazioni rivolte alla fascia di popolazione anziana non più in età di attivazione

lavorativa, per le prestazioni a sostegno della genitorialità e per quelle legate alla condizione di disabilità e di invalidità del beneficiario; pertanto non si parla più di razionalizzazione, come nel testo originario, ma di riordino delle prestazioni di natura assistenziale finalizzate al contrasto della povertà;

          c) il rafforzamento del coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali, al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni, nell'ambito dei principi di cui alla legge 8 novembre 2000, n. 328.

      È evidente che il disegno di legge prevede una delega molto ampia – una circostanza alla quale il Governo ci ha ormai da tempo abituati e che continua sempre più ad esautorare, erodendolo pian piano, il ruolo del Parlamento – con principi e criteri direttivi che sarebbe stato opportuno definire in modo più dettagliato.
      Se la misura dovrà riguardare tutte le famiglie e i cittadini in difficoltà, sarebbe stato necessario individuare con chiarezza la «soglia del bisogno», quindi i beneficiari della misura, destinare alle misure che si intendono introdurre un'adeguata copertura finanziaria e prevedere un sistema di verifica del bisogno/erogazione del sostegno capace di raggiungere la popolazione senza dover escludere alcuno. A tal proposito non si comprende a quale «livello di vita dignitoso», si intenda far riferimento nel testo e a cui deve parametrarsi la misura. Anche in tal caso è evidente l'eccesso di delega poiché il Governo potrà liberamente stabilire chi è povero e chi non lo è, senza dover necessariamente tener conto delle soglie indicate, ad esempio, dall'ISTAT o dall'Eurostat, che comporterebbero l'impiego di maggiori risorse. Ci si domanda se questo sia voluto.
      Suscita in generale perplessità la previsione di cui all'articolo 1, comma 2, lettera b), in quanto la capienza del Fondo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale risulta assolutamente inadeguata alle esigenze della popolazione. Sarebbe stato opportuno quindi destinare una copertura finanziaria maggiormente adeguata alle finalità del disegno di legge all'esame.
      Durante l'esame in Commissione è stata modificata la disposizione che prevedeva la razionalizzazione delle prestazioni di natura assistenziale e quelle di natura previdenziale sottoposte alla prova dei mezzi del soggetto beneficiario.
      Semplificare e riordinare sono cosa diversa dal razionalizzare, anche se il termine razionalizzazione è stato soppresso e sostituito con il riordino delle prestazioni. La razionalizzazione delle prestazioni di natura assistenziale e previdenziale, in tal senso si è paventato anche il rischio che si volessero «tagliare» o rivedere le pensioni di reversibilità, ha rappresentato un elemento fortemente critico del provvedimento, poi espunto durante l'esame in Commissione, infatti, tra gli emendamenti presentati in Commissione, il Governo ha provveduto a presentarne uno che prevedeva la soppressione della razionalizzazione delle prestazioni previdenziali, approvato e dunque facendo un passo indietro rispetto ai timori e alle preoccupazioni sollevate dai più, a seguito della forte contestazione che il Movimento 5 Stelle ha dovuto mettere in atto sia dentro il palazzo sia fuori, insieme ad associazioni e l'opinione pubblica tutta.
      Il riordino auspicato da M5S, sia nell'ambito dei servizi per l'impiego e sia nell'ambito dell'assistenza integrata sociale e sanitaria, prevede senz'altro una riforma complessiva delle strutture esistenti ma nell'ottica precipua di valorizzare e ampliare il soggetto pubblico e le sue strutture. Il «nessuno deve rimanere indietro» non è uno slogan ma un progetto preciso e soprattutto un'idea di Stato che deve farsi carico dei cittadini e dei loro problemi garantendo a tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà relativa anche un reddito minimo che garantisca «un livello socialmente decoroso di esistenza, possibilità di scelta e autodeterminazione dei soggetti sociali».
      Nel provvedimento in questione il Governo intende parametrare il contrasto

alla povertà, nell'ottica di razionalizzare le prestazioni e di meglio «selezionare» i bisognosi, agganciandolo all'ISEE (l'indicatore della situazione economica del beneficiario) e senza che a monte vi sia stata peraltro una riforma dell'ordinamento tributario e del sistema sociale che garantisca una migliore ridistribuzione del contributo fiscale e che risolva alla radice il problema dell'evasione fiscale e della elevata pressione tributaria e contributiva.
      Le misure indicate nel provvedimento all'esame non rispondono in concreto (al di là dell'enunciazione della «misura nazionale di contrasto alla povertà») agli obblighi imposti dall'Unione europea che a riguardo, con diverse raccomandazioni e comunicati (già dal 1992!), invita gli Stati membri a dotarsi di adeguati sistemi di protezione sociale, raccomandando di riconoscere il diritto basilare di ogni persona di disporre di un'assistenza sociale e di risorse sufficienti per vivere in modo dignitoso.
      È apprezzabile l'intento di riordinare le diverse misure di sostegno sociale che si sono susseguite e stratificate nel corso degli anni. A condizione tuttavia che il riordino non si traduca in una contrazione delle risorse destinate a tali finalità e che per poter beneficiare delle misure di sostegno siano introdotti requisiti più stringenti, in particolare tramite un utilizzo distorto «dell'ISEE ed eventualmente delle sue componenti», che potrebbero escludere molte famiglie dall'averne diritto.
      In riferimento all'articolo 1, comma 1, lettera b) e comma 3, sosteniamo dunque l'esigenza che il previsto riordino, anche qui, non si traduca in una contrazione delle risorse all'uopo destinate, né tantomeno delle poche e comunque inadeguate risorse fiscali relative ai carichi familiari. Al riguardo riteniamo sarebbe stato opportuno un preventivo e preciso «censimento» delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche, anche per rendere l'opera di riordino realmente efficace. Altrettanto necessario in tale ottica sarebbe stato un dibattito pubblico aperto ai contributi sia delle Istituzioni sia della società civile.
      Il comma 4 indica i princìpi e criteri direttivi in relazione al rafforzamento del coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali, al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni, prevedendo la costituzione di un organismo di coordinamento per gli interventi, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali (che lo presiede), con la partecipazione di regioni, autonomie locali e INPS, la cui finalità è quella di favorire una maggiore omogeneità territoriale nell'erogazione delle prestazioni e definire linee guida per le singole tipologie di intervento; tale organismo consulterà periodicamente le parti sociali e gli organismi rappresentativi degli enti del Terzo settore al fine di valutare l'attuazione delle disposizioni di cui alla presente legge e potrà costituire gruppi di lavoro, con la partecipazione dei predetti soggetti, finalizzati alla predisposizione di analisi e di proposte in materia di contrasto della povertà; in capo al Ministero del lavoro sono attribuite funzioni di verifica e controllo del rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale; il medesimo Ministero, anche avvalendosi dell'organismo di coordinamento, effettuerà un monitoraggio sull'attuazione della misura di sostegno e delle altre misure di contrasto della povertà, pubblicandone, con cadenza almeno annuale, gli esiti nel proprio sito internet. Quest'ultima previsione è stata introdotta grazie all'approvazione di un emendamento del Movimento 5 Stelle.
      Ci troviamo di fronte all'ennesima istituzione di un organismo, come già avvenuto ad esempio nel provvedimento relativo alla riforma del terzo settore, privo di una sufficiente dotazione di risorse per funzionare adeguatamente e privo di autonomi poteri di monitoraggio e controllo, che permangono in capo al Ministero del lavoro.
      Il provvedimento svela peraltro la ormai palese e dichiarata volontà di privatizzare il sociale laddove, nell'ambito dei criteri direttivi per il riordino della normativa in materia di sistema degli interventi e dei servizi sociali, si fa riferimento alla promozione di accordi territoriali tra i servizi sociali e gli altri enti od organismi competenti per l'inserimento lavorativo, l'istruzione e la formazione e la salute, nonché l'attivazione delle risorse della comunità e, in particolare, delle organizzazioni del terzo settore e del privato sociale impegnate nell'ambito delle politiche sociali, al fine di realizzare un'offerta integrata di interventi e di servizi che costituisce livello essenziale delle prestazioni.
      Si ricorda che nell'articolo 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328, è già contemplato il ruolo del terzo settore, sia nel rispetto del principio di sussidiarietà e sia nel rispetto delle consuete forme di aggiudicazione o negoziali che consentono ai soggetti del terzo settore di cooperare con gli enti territorialmente competenti. Il termine «attivazione delle risorse» nell'accezione di empowerment culturale, sociale, educativo e territoriale è certamente condivisibile in linea di principio, tenuto conto che è particolarmente connaturato proprio al settore del sociale dove le esperienze territoriali, senza ombra di dubbio, vanno valorizzate e «attivate». Ciò nonostante si rileva che è proprio l'impostazione delle politiche di questo Governo a non convincere o a non far ritenere «affidabile» il riferimento «all'attivazione delle risorse del terzo settore o del privato sociale», impostazione che, come desumibile anche dai diversi provvedimenti di recente approvazione (v. «Terzo settore» oppure «Dopo di noi»), svela il vero intento o il reale percorso verso un sistema privatizzato e finanziarizzato dei diritti fondamentali cui lo Stato, orientato dalla Costituzione ed in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione medesima, dovrebbe in primis garantire con propri mezzi e risorse, usufruendo di soggetti terzi (o terzo settore) solo in un'ottica di collaborazione e di sussidiarietà.
      Il provvedimento contempla il rafforzamento della gestione associata nella programmazione e nella gestione degli interventi a livello di ambito territoriale (come indicati all'articolo 8 della legge 8 novembre 2000, n. 328) e, anche grazie all'approvazione di un emendamento Movimento 5 Stelle, è stata soppressa la previsione secondo la quale il Governo provveda ad una nuova definizione di princìpi generali per l'individuazione degli ambiti medesimi, scongiurando così il rischio di limitare e accorpare anche i servizi sociali resi dai comuni. Gli ambiti territoriali, ai sensi dell'articolo 8, comma 3, lettera a) della legge n. 328 del 2000, sono definiti dalle regioni e comprendono il territorio di più comuni che si associano per gestire i servizi sociali e assistenziali di base e solitamente coincidono coi distretti sanitari per le prestazioni sanitarie che già sono stati diffusamente accorpati, per esigenze di spending review, con conseguenti disagi per gli utenti. Una riorganizzazione è possibile a patto che garantisca il mantenimento di servizi sanitarie e sociali integrati e soprattutto vicini al cittadino.
      Con altrettanta fermezza sollecitiamo Parlamento e Governo a valutare attentamente l'utilizzo dell'ISEE quale parametro di riferimento per l'accertamento delle condizioni d'accesso al beneficio previsto dal disegno di legge in discussione: abbiamo a più riprese segnalato nel corso dell'attuale legislatura la parziale inadeguatezza del nuovo ISEE a certificare la reale situazione economica delle famiglie. All'esito della prima applicazione, da più parti si è segnalato che il nuovo ISEE ha di fatto escluso dall'accesso a prestazioni agevolate milioni di famiglie che invece ne avrebbero bisogno, famiglie che ora appaiono come «ricche» mentre non lo sono, famiglie con situazioni di disagio che l'ISEE non è in grado di valutare adeguatamente, famiglie con tanti figli che l'attuale scala di equivalenza dell'ISEE non è in grado di tenere in opportuna considerazione.
      In sostanza il Governo, nel mettere in campo una delega su un tema così importante, ricorre a uno strumento cui peraltro dovrà metter necessariamente mano a seguito delle recenti sentenze del Consiglio di Stato, operando così una scelta inopportuna, temporanea e inevitabilmente destinata a rivelarsi fallimentare.
      Sarebbe stato invece assolutamente opportuno che il Governo avesse prima proceduto ad una definitiva e seria riforma dello strumento ISEE affinché il calcolo fosse effettuato tutelando realmente i soggetti più deboli della nostra società in maniera del tutto conforme alle citate pronunce del giudice amministrativo, e non preferire invece l'adozione di una soluzione temporanea, per utilizzarla poi come parametro fondamentale di riferimento e con ruolo centrale e determinante per l'erogazione della misura prevista dal disegno di legge.
      Oltretutto, l'aver inserito, con l'approvazione di un emendamento delle relatrici, l'inciso «ISEE ed eventualmente le sue componenti» dimostra che il Governo è consapevole che l'esclusivo utilizzo dell'ISEE, anche a seguito della sua futura ridefinizione, non è adeguato a fotografare fedelmente la condizione di povertà del Paese, e dunque, lasciare in una delega indicazioni così generica, ovvero «eventualmente» e «componenti», sembra quasi voler dire che non si è in grado o non si vuole definire quali altri parametri s'intenda impiegare. Siamo sicuramente anche qui di fronte ad un eccesso di delega.
      Ciò che deve essere assolutamente escluso nell'esercizio della delega è che si riduca il numero degli aventi diritto, che si tenda a «fare cassa» attraverso l'eliminazione di altre misure di protezione sociale (assegno sociale, assegni familiari, detrazioni per familiari a carico etc.) e che la misura proposta sia di fatto un «assegno assistenzialista»: i beneficiari della misura dovranno attivarsi concretamente per uscire dallo stato di bisogno.
      In tal sento apprezziamo comunque l'intento di personalizzare l'intervento pubblico a sostegno delle famiglie e persone in difficoltà, di voler definire gli obiettivi di presa in carico degli aventi diritto e di finalizzare le iniziative al loro reinserimento sociale, economico e lavorativo.
      Auspichiamo tuttavia che non si ripeta quanto accaduto con la recente esperienza della sperimentazione del SIA (Sostegno per l'inclusione attiva), ovvero che l'attivazione dei progetti personalizzati di presa in carico stenti a decollare e ad avere un concreto impatto nel reinserimento sociale delle persone in situazione di disagio. In tal senso è opportuno e necessario che l'ente locale di riferimento, competente alla presa in carico dei soggetti interessati dalla misura, sia messo in condizione di poter operare rapidamente, con risorse adeguate e con la dotazione di una rete informatica di supporto utile alla trasmissione e condivisione delle best practice e dei dati, sia con le amministrazioni centrali che con le altre amministrazioni locali, relativi all'applicazione della misura e agli esiti dei progetti personalizzati assegnati, ciò in particolare nell'ottica di riuscire a garantire i livelli essenziali delle prestazioni sociali su tutto il territorio nazionale, cui si ambisce con il provvedimento in discussione. Il provvedimento, in tale ottica, prevede il rafforzamento del Sistema informativo dei servizi sociali e, in particolare, del Casellario dell'assistenza, e la sua integrazione con i sistemi informativi sanitari e del lavoro nonché con i sistemi informativi di gestione delle prestazioni già nella disponibilità dei comuni; il miglioramento della fruibilità delle informazioni del sistema informativo dei servizi sociali da parte degli enti locali, a supporto della gestione, della programmazione e del monitoraggio della spesa sociale locale e per la valutazione dell'efficienza e dell'efficacia degli interventi realizzati nei singoli territori; il rafforzamento degli obblighi di trasmissione di dati al Casellario dell'assistenza da parte degli enti, delle amministrazioni e dei soggetti obbligati, ivi comprese le segnalazioni relative a trattamenti indebitamente percepiti, e introduzione di sanzioni per i soggetti inadempienti.
      Nella speranza che si risolva il problema dell'adeguatezza di tale casellario, che fino ad ora non ha potuto funzionare correttamente poiché è mancato il necessario raccordo tra enti locali e amministrazione centrale, questa potrebbe essere l'occasione di risolvere il problema della scarsa informatizzazione della rete territoriale dei servizi sociali. Pur apprezzandosi la previsione di obblighi e sanzioni, questi non possono ritenersi sufficienti e inoltre si ritiene sarebbe stato utile che il Ministero del lavoro di concerto con il Dipartimento della funzione pubblica avesse disposto    un preventivo censimento per conoscere il grado di informatizzazione dei comuni e delle competenze dei funzionari comunali che lo dovrebbero gestire, considerata in particolare la circostanza che, specie nei comuni del sud, si registra il dato sconfortante di profonde carenze nella conoscenza di rudimenti di informatica.
      Preme ricordarsi che al termine della prima fase di sperimentazione della misura del SIA, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha provveduto a pubblicare un rapporto con cui si riportavano esclusivamente i dati statistici relativi in particolare all'individuazione della platea dei beneficiari della misura e alla ripartizione monetaria del relativo beneficio connesso.
      Tuttavia il ministero, ad oggi, non ha ancora fornito nessun approfondimento o dato specifico che illustri l'esito dell'attività prevista dal SIA, parimenti rilevante, circa gli esiti del procedimento di predisposizione dei progetti personalizzati di presa in carico, dei nuclei familiari, cui i comuni avrebbero dovuto contestualmente provvedere.
      A tal proposito, preme sottolineare che negli ultimi due anni il Movimento 5 Stelle ha più volte richiesto ai comuni interessati dalla misura che gli venisse fornito il report relativo allo stato di attuazione del SIA, che evidenziasse in particolare aspetti positivi e criticità eventualmente emersi, nonché il resoconto pur sommario dei progetti personalizzati medio tempore definiti e organizzati in favore dei beneficiari dai comuni medesimi. Ad oggi, relativamente ai progetti, non abbiamo ricevuto risposte, pertanto non è stato possibile avere riscontri sulla reale efficacia della misura. La stessa misura sulle cui basi il Governo fonda la misura di contrasto alla povertà, con il rischio evidente del fallimento e dell'inevitabile spreco di risorse pubbliche.
      Ulteriore preoccupazione desta la grossa mole di lavoro che l'applicazione della misura implica a carico delle amministrazioni comunali e delle relative risorse per farvi fronte. I Comuni, infatti con le poche risorse che hanno dovranno prendere in carico queste situazioni disagiate, creare dei progetti sociali, monitorarli, coordinarli, a fronte dei continui e ingenti tagli di risorse registrati negli ultimi anni. Lo «sforzo» dello Stato centrale sembra molto meno oneroso dato che il suo ruolo sembra invece essere solo quello di concedere risorse, tra l'altro non a regime, perché non si tratta di una misura strutturale, quindi ogni anno l'efficacia e la reale portata della misura resteranno un'incognita. In tal senso il Movimento 5 Stelle attraverso la proposta di introduzione del reddito di cittadinanza, propone anche una seria riforma dei centri per l'impiego nell'ottica di rendere pienamente operativi tali organi statali, già esistenti, ma scarsamente efficienti, e renderli quindi finalmente produttivi, anche al fine di coadiuvare e sollevare le amministrazioni comunali nei molti compiti loro spettanti.
      In conclusione riteniamo che rispetto al tema della povertà l'Italia, anche con la misura che si intende varare col presente disegno di legge, rimanga drammaticamente indietro rispetto al resto d'Europa, continuando ad essere l'unico Paese insieme alla Grecia a non aver mai previsto delle forme definitive di sostegno del reddito.
      In altri termini, il Governo non considera ancora la lotta alla povertà all'interno di un ragionamento più ampio sulle politiche di redistribuzione, avendo proceduto ancora una volta in un'ottica in cui il welfare sembra sempre più spostato sul terreno della beneficenza e sempre meno su quello dei diritti sociali.
      Il finanziamento complessivo della misura unica di contrasto della povertà che il Governo intende estendere su tutto il territorio nazionale risulta ugualmente una cifra insufficiente, se paragonata alla proposta del Movimento 5 Stelle relativa al reddito di cittadinanza.
      Il reddito di cittadinanza è una misura che tutela e restituisce vera dignità ai cittadini più deboli: è destinato ai disoccupati e a coloro che percepiscono un reddito di lavoro o una pensione inferiori alla soglia di povertà. Si tratta di uno strumento che assicura, in via principale e preminente, l'autonomia delle persone e la loro dignità, e non si riduce a una mera misura assistenzialistica contro la povertà.
      A differenza della misura introdotta dal governo, la soluzione proposta dal Movimento 5 Stelle rappresenta una vera e propria manovra finanziaria che ha il pregio sia di individuare in maniera specifica i beneficiari della misura di sostegno, sia di reimmettere risorse nel circuito commerciale del nostro Paese, offrendo, oltre al sostegno economico, la concreta possibilità di tornare a fare parte della società e del mondo del lavoro nel pieno rispetto dei principi solennemente sanciti dalla Carta costituzionale e come con successo sperimentato in alcune realtà locali amministrate dal Movimento 5 Stelle, come ad esempio il comune di Livorno.
      Auspichiamo inoltre che la sommatoria degli interventi e delle somme erogate ai soggetti in stato di bisogno non comporti l'affievolimento della volontà di «darsi da fare» o non diventi una scusa per non impegnarsi nel lavoro. In altre parole che la misura si riduca, malgrado le dichiarazioni di intenti, ad un mera estensione monetaria della misura del SIA già sperimentata negli scorsi anni con esiti alquanto discutibili.
      Al riguardo riteniamo opportuno e necessario che venga ipotizzato – come peraltro previsto nella nostra proposta di reddito di cittadinanza – di condizionare in maniera precisa e dettagliata il riconoscimento del beneficio in modo tale che nella fase di non occupazione dei soggetti presi in carico sia assicurato il loro impiego – per il tramite degli enti locali o dei centri territoriali per l'impiego – ad esempio in servizi a favore della collettività.
      Preme ricordarsi che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (Carta di Nizza) definisce il reddito minimo come un diritto sociale fondamentale, destinato a fungere da strumento di protezione della dignità della persona e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica».
      Oltretutto la piena partecipazione alla vita sociale è richiesta come obiettivo da garantire alla Repubblica italiana dall'articolo 3 della Costituzione.
      È necessario pertanto rilanciare con forza l'ormai irrimandabile necessità dell'inserimento di un reddito minimo per una lotta alle diseguaglianze, evitando d'ora in avanti che si utilizzi il tema della lotta alla povertà in maniera propagandistica, utilizzando altre misure surrogate, diverse nei contenuti e nelle finalità e soprattutto di scarsa efficacia.
      L'unico elemento positivo di questo provvedimento è che con esso finalmente si affronta un dibattito istituzionale sull'emergenza povertà, ma ci chiediamo se siamo dinanzi ad un piccolo passo in avanti nella lotta alla povertà oppure se si tratta dell'ennesimo provvedimento di propaganda elettorale, come purtroppo il Governo ci ha abituato sino ad ora.

Claudio COMINARDI,
Giulia DI VITA,
Relatori di minoranza