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Atto a cui si riferisce:
C.1/01336    premesso che:     lo scenario geopolitico attuale è in costante mutamento e l'instabilità regna sovrana. Secondo il Global Peace Index, nel 2016, il relativo indice ha...



Atto Camera

Mozione 1-01336presentato daSCOTTO Arturotesto diMartedì 2 agosto 2016, seduta n. 666

   La Camera,
   premesso che:
    lo scenario geopolitico attuale è in costante mutamento e l'instabilità regna sovrana. Secondo il Global Peace Index, nel 2016, il relativo indice ha subito un deterioramento dello 0,53 per cento rispetto all'anno precedente;
    guerre e conflitti hanno registrato una recrudescenza. Il numero totale dei conflitti è salito drasticamente, dai 31 del 2010 si è passati ai 40 del 2015. Anche il costo economico globale dei conflitti è rilevante. Nel 2015 è stato di 13,6 miliardi di dollari e rappresenta il 13,3 per cento dell'attività economica mondiale (prodotto mondiale lordo), ovvero 11 volte la dimensione degli investimenti diretti esteri a livello globale;
    secondo il rapporto annuale Global Trends dell'UNHCR, nel 2015 sono state 65,3 milioni le persone costrette ad abbandonare la propria casa, ossia il più alto numero dall'indomani della seconda Guerra mondiale. Di queste 21,3 milioni sono rifugiati, 40,8 milioni sfollati interni e 3,2 milioni richiedenti asilo. I bambini rappresentano il 51 per cento circa del totale;
    sempre secondo il citato rapporto, nel 2015 sono state 12,4 milioni le persone costrette ad abbandonare per la prima volta la propria abitazione a causa di un conflitto o di persecuzioni e la maggioranza di essi sono sfollati interni (8,6 milioni);
    nello stesso anno, le vittime degli attacchi terroristici sono aumentate dell'80 per cento e soltanto 69 Paesi al mondo non hanno registrato eventi di terrorismo all'interno del proprio territorio;
    il terrorismo è quindi un fenomeno globale e i terribili attacchi che hanno sconvolto l'Europa negli ultimi mesi sono la prova che la guerra è arrivata fin dentro le nostre società;
    oggi possiamo dire che abbiamo un fronte interno ed uno esterno ed è quest'ultimo che ha scatenato il corso degli eventi che ci hanno portato ai tragici eventi dei nostri giorni, anche in casa nostra;
    una guerra, oramai globale, iniziata dall'amministrazione nord americana Bush con l'attacco all'Afghanistan nell'ambito della «guerra al terrorismo», risposta sbagliata agli attentati dell'11 settembre 2001, continuata con la sciagurata invasione dell'Iraq nel 2003 e protratta con l'intervento militare in Libia;
    l'esperienza delle campagne militari in Afghanistan, Iraq e Libia mostra che aver intrapreso guerre senza avere un progetto politico condiviso con le forze e le popolazioni locali sul futuro è stata una prassi che ha peggiorato e non migliorato la sicurezza globale, e soprattutto ha condannato il popolo afghano, iracheno e libico alla follia distruttiva della violenza e del terrore che oggi si estende dal Medio Oriente all'Africa e attraversa il Mediterraneo e arriva fino al cuore dell'Europa;
    lo scenario attuale mostra che, in Afghanistan, i Talebani oggi sono in grado di operare in circa l'80 per cento del Paese e controllando larghe porzioni di territorio si sono imposti con un proprio ruolo di primo piano nel sud e nell'est del Paese, mentre l'ascesa di Daesh è sempre più evidente ed è diventata una valida alternativa, seducente e determinata nella forte e preoccupante instabilità politica dello Stato;
    a distanza di 13 anni dall'invasione USA, oggi l'Iraq è occupato per un considerevole pezzo del suo territorio da Daesh, seppur con importanti perdite degli ultimi mesi, e ora quel Paese rappresenta la calamita di tutte le destabilizzazioni regionali, Siria in primis fra tutte, mentre la Libia è un pantano con la presenza di centinaia di milizie, con un governo d'unità nazionale capeggiato da Fayez al Sarraj in rotta con Tobruk e osteggiato dal potente generale Khalifa Haftar, prossimo al fallimento e con una preoccupante presenza di Daesh;
    in Libia in queste ore sono ripresi i bombardamenti statunitensi su richiesta del Governo di al Sarraj, mettendo in imbarazzo la Francia che formalmente appoggia il governo di unità nazionale ma che di fatto con la sua presenza in territorio libico è al fianco del generale Haftar, con l'obiettivo di consolidare i suoi interessi energetici e di estendere la sua presenza sotto il Sahel;
    la lotta a Daesh in Libia, così come avvenuto in Siria, oltre a registrare il conflitto tra le varie milizie regionali, segue la logica fin qui seguita delle guerre per procura, lanciate in questo caso in base alle promesse di accordi economici petroliferi;
    la guerra ha travolto Stati e frontiere e ha inasprito la storica rivalità tra il mondo sunnita e sciita all'interno dell'Islam, all'ombra delle ambizioni commerciali, finanziarie e geopolitiche delle grandi potenze mondiali che credevano di creare nuove democrazie e che, in realtà, hanno prodotto solo maggiore instabilità che oggi mette a repentaglio tutta l'umanità;
    in questo quadro di devastazione e macerie in cui sono stati ridotti Paesi come la Siria, l'Iraq, lo Yemen, la Libia e l'Afghanistan, appare chiaro come il «Califfato» abbia deciso, con gli attacchi di Parigi e Bruxelles e poi con la rivendicazione degli atti emulativi di Nizza e Monaco, di radicalizzare lo scontro, ipotizzando una reazione occidentale e con il probabile obiettivo di infiammare una sollevazione anti-islamica dettata dall'emotività e quindi moltiplicare i proseliti anche in Europa;
    oggi non ci si può permettere di dare forza a questo scontro e ogni ipotesi, anche guardando all'esperienza di 15 anni di guerra al terrore, va fermata sul nascere e sostituita con una diversa idea di società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza;
    questa idea deve partire dalla messa in discussione del modello di sviluppo che si arricchisce con la produzione e vendita di armi che alimentano la spirale di violenza e terrore che imperversa alle porte, nel Mediterraneo e nel vicino Oriente, e che poi si reprime con nuove armi e nuove guerre;
    negli ultimi cinque anni, mentre il Medio oriente bruciava, contemporaneamente cresceva del 30 per cento l’export di armi verso i Paesi dell'area medio orientale e del Nord Africa. Dalle relazioni inviate dal Governo alle Camere si evince che nel quinquennio 2010-2014 la meta principale delle armi italiane è stato il Medio Oriente. Secondo l'ultima relazione trasmessa nel 2015 le autorizzazioni all'esportazione degli armamenti italiani è aumentata del 200 per cento rispetto all'anno precedente, passando da 2,6 miliardi a 7,9 miliardi di euro, registrando un vero e proprio boom. Ad esempio le transazioni autorizzate con l'Arabia Saudita sono passate dai 163 milioni di euro del 2014 ai 257 milioni del 2015;
    queste armi sono state vendute in Medio Oriente e attraverso la «triangolazione» con Paesi «nostri alleati», ma anche «alleati e finanziatori del Daesh», sono arrivati nelle mani dei terroristi e quindi si è al paradosso che combattiamo contro le armi che noi stessi abbiamo venduto in Medio Oriente;
    secondo l'Unodc, l'agenzia dell'Onu che si occupa di criminalità e droga, il 90 per cento dei traffici illegali di armi proviene dal commercio legale. Frutto della triangolazione o dell'aver armato gruppi che poi cambiano alleanze, come avvenuto in Iraq e Siria. La legge italiana lo vieterebbe, ma nei fatti, una volta che sono vendute ad acquirenti ufficiali, ad esempio le Monarchie del Golfo, possono facilmente finire nelle mani sbagliate, ovvero i gruppi terroristici;
    secondo l'Istituto universitario di alti studi internazionali e dello sviluppo che ha condotto la ricerca Small Arms Survey, Daesh ha avuto disponibilità di armi provenienti dall'Arabia Saudita e la stessa accusa grava sul Qatar. A quest'ultimo Emirato è bene ricordare che dal 2012 al 2014 l'Italia ha esportato armi per 146 milioni di euro e 35 milioni soltanto nel 2015. Il committente era quindi il Paese che per David Cohen, vicesegretario Usa al Tesoro con delega per il terrorismo e l’intelligence finanziaria, ha «un habitat permissivo che consente ai terroristi di alimentarsi». Queste dichiarazioni venivano rese a marzo del 2014, mentre a luglio dello stesso anno il Qatar, che ospita l'avveniristico quartier generale Usa in Medio Oriente di Al Udeid, inviava una commessa da 11 miliardi agli Usa in armamenti, inclusi elicotteri Apache, batterie di Patriot e missili anticarro Javelin;
    oltre a rifornire di armi i vari gruppi ribelli o apertamente terroristici, i Paesi sunniti del Golfo, come il Qatar, Arabia Saudita e Kuwait – quest'ultimo sempre, secondo David Cohen, definito «l'epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria» – formalmente nostri alleati nella coalizione anti-Daesh, in maniera più o meno indiretta, hanno finanziato attraverso donazioni i gruppi islamici dell'opposizione siriana, inclusi quelli estremistici come Al Nusra e Daesh;
    oggi Daesh, così come altre milizie e organizzazioni dell'arcipelago jihadista, ha in mano pozzi di petrolio, opere d'arte e anche caveau di banche conquistate nel conflitto, ma per arrivare fino a questo punto ha sfruttato le capacità di riciclaggio della finanza del Golfo e quindi ha beneficiato di donazioni «private» provenienti soprattutto dai Paesi del Golfo e transitate dal Kuwait;
    il sistema bancario del Kuwait – ossia il Paese che ha firmato un memorandum d'intesa sulla difesa con il nostro Paese l'11 settembre 2015, e che ha siglato un accordo per l'acquisizione di 28 caccia Eurofighter da un consorzio europeo in cui Finmeccanica, di cui il Ministero dell'economia e delle finanze è il principale azionista, avrà una commessa da 4 miliardi di euro, la più grande commessa mai ottenuta dall'azienda italiana – ha norme antiriciclaggio poco trasparenti e permette anche l’hawala, il trasferimento di denaro, anche all'estero, da individuo a individuo senza alcuna tracciabilità;
    in questi mesi è stata da più parti documentata la responsabilità del Governo turco e delle forze di intelligence turche nell'aver permesso che membri di Daesh e di altri gruppi jihadisti entrassero in Turchia e potessero muoversi liberamente nel Paese, così come sono note le responsabilità della Turchia nell'aver aperto i valichi di frontiera ai terroristi; nell'aver permesso il rifornimento di armi, munizioni e supporto logistico;
    la Turchia quindi, alleato e membro della Nato, ha favorito in questi anni il passaggio di migliaia di foreign fighter europei, aprendo quella che è stata denominata come l’«autostrada della jihad» mentre al tempo stesso conduceva una «guerra sporca» contro le organizzazioni curde in Siria e in Iraq, che sono tra le poche forze che hanno causato una serie di sconfitte a Daesh e che hanno dato vita ad un'esperienza di convivenza pacifica tra curdi, arabi, assiri, caldei, aramaici, turcomanni, armeni, ceceni e altre minoranze;
    la stessa Turchia, che ha vissuto ore drammatiche durante il tentativo di golpe, poi fallito e al successivo contro-Golpe voluto dal presidente Erdogan che ha prodotto decine di migliaia di arresti e purghe a tutti i livelli dello Stato;
    i numeri dell'ondata repressiva scatenata in Turchia dalle autorità di Governo hanno allarmato l'Europa e gli Stati Uniti, che dalla solidarietà espressa al presidente turco e al Governo sono rapidamente passati alla preoccupazione per il rispetto dei diritti umani, a partire dalla possibilità che venga reintrodotta la pena di morte;
    immediatamente alla fine del golpe si è assistito a disumane scene di vendetta di piazza ed episodi di giustizia arbitraria, mentre da più parti è stata espressa profonda preoccupazione per la deriva autoritaria imposta al Paese dalle massime autorità turche al Governo del Paese man mano che venivano mostrate all'opinione pubblica mondiale le foto dei militari arrestati seminudi, legati mani e piedi, ammassati per terra;
    da mesi, come documentato dagli atti più volte portati all'attenzione della Camera dei deputati, il Governo turco ha iniziato una guerra contro le opposizioni democratiche e le minoranze presenti nel Paese; ha imposto il coprifuoco in numerose città dell'Anatolia del Sud Est (Kurdistan Bakur), colpendo i suoi stessi civili, provocando migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati; ha fatto arrestare e incriminare giornalisti, giudici ed oppositori di ogni tipo;
    le misure repressive post-golpe, gestite direttamente dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, stanno facendo scivolare il Paese velocemente verso un regime oppressivo e mettono a rischio la stabilità della Turchia stessa;
    la Turchia oggi non è un Paese sicuro e l'accordo Unione europea-Turchia sui rifugiati (o pseudo tale, in quanto sotto il profilo giuridico deve considerarsi alla stregua di una decisione dei Capi di Stato e di Governo e non un vero e proprio accordo dell'Unione europea) vìola gravemente il diritto europeo e tradisce i fondamenti democratici ispirati alla tradizionale tutela dei diritti umani nell'Unione europea e in Italia;
    quanto emerge dall'applicazione concreta di questo pseudo accordo è che in cambio di denaro si esternalizzano le frontiere dell'Unione europea, chiudendo gli occhi sul rispetto dei diritti umani, sulla repressione delle libertà fondamentali, nonché sulla forte repressione anti-curda che il Governo turco sta mettendo in piedi negli ultimi mesi, addirittura dimenticando le gravi responsabilità di quest'ultimo nel supporto a Daesh appena citate;
    oggi l'Unione europea viene addirittura ricattata dal Governo turco, che minaccia di far saltare l'accordo se non verranno soddisfatte le sue richieste e quindi non si approvi il suo regime. È preoccupante che lo stesso modello di «accordo» con la Turchia si sta poi nei fatti applicando con le peggiori dittature del mondo: l'Egitto, l'Eritrea, il Sudan, la Somalia, il Gambia, solo per citarne alcune;
    oggi occorrerebbe istituire corridoi umanitari per agevolare l'arrivo in sicurezza di chi decide di scappare dalla sua terra e stabilire la possibilità di ottenere visti umanitari, che consentano anche il passaggio nei Paesi di transito, in luoghi attrezzati vicini alle zone di fuga; invece sorgono muri in tutta Europa. Come un tempo esisteva la Cortina di ferro, in Ungheria e Croazia oggi i muri assumono la forma fisica di rete metallica e filo spinato, mentre in Francia, Austria, Svezia e Germania vengono chiamati «momentanea sospensione di Schengen», che di fatto ripristinano le frontiere;
    anche l'Europa non è immune al mutato scenario geopolitico che mette a repentaglio la conquistata pace, l'affermazione della democrazia e la tutela dei diritti umani; in Europa oramai il dibattito politico è dominato da connotati fortemente nazionalistici e a tratti esplicitamente xenofobi, da veleni ideologici, da paure indotte, dagli stessi rigurgiti nazionalisti che hanno alimentato il consenso degli antieuropeisti britannici durante la campagna sul «Brexit»;
    le decisioni della NATO prese all'ultimo vertice tenuto a Varsavia devono ritenersi le più importanti dalla fine della guerra fredda soprattutto per una serie di misure politiche e militari preventive nei confronti della Russia; una delle principali questioni trattate al vertice di Varsavia riguarda il parziale superamento di un accordo stipulato con la Russia nel 1997, in cui si stabiliva che l'alleanza atlantica non può mantenere le proprie truppe da combattimento in modo permanente nei Paesi a est della Germania, a meno che le condizioni di sicurezza degli Stati alleati non siano in pericolo. Evidentemente, i rappresentanti dei Paesi dell'alleanza atlantica considerano cambiate queste condizioni, e nei fatti programmano delle azioni militari lungo quello che viene già chiamato «fronte orientale»;
    il vertice di Varsavia ha anche segnato una importante novità nelle relazioni NATO-Unione europea con la pubblicazione del primo comunicato congiunto tra la NATO, attraverso il segretario generale, Jens Stoltenberg, e l'Unione europea, nelle persone del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, con l'intento di annunciare il nuovo piano strategico di partnership;
    in questi anni poco o nulla è stato fatto per tagliare i canali tra Daesh, la galassia jihadista e i suoi Stati finanziatori. Nulla è stato fatto per svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi né per supportare le richieste di democrazia che nascevano dalle primavere arabe e dalle esperienze positive di convivenza tra i popoli che emergevano nel vicino oriente che, al contrario, sono state brutalmente attaccate dalla follia distruttiva della violenza e del terrore. Di contro, si è prestato colpevolmente – per interessi – il fianco a piccoli conflitti che sono cresciuti fino a diventare, nel tempo, incontrollabili;
    Daesh è un cancro e va estirpato, si vuole incutere terrore, suscitare una risposta repressiva e dimostrare così la non praticabilità della democrazia e l'inadeguatezza dei principi democratici, liberali e laici su cui si fonda l'Europa;
    è bene non dimenticare che i terroristi delle recenti stragi di Parigi e Bruxelles sono nati e cresciuti nelle città occidentali, in Europa, e che oltre alla repressione occorre una nuova grande opera di prevenzione. Sarebbe necessario lavorare sulle periferie trascurate, e sempre più dimenticate dalle istituzioni, che sono il luogo dove attecchiscono le parole dei predicatori dell'odio in assenza dello Stato;
    occorre per questo avere cura delle comunità e promuovere il dialogo interculturale e interreligioso, fermando i predicatori d'odio da qualunque parte vengano, compresa la cultura del razzismo e il rischio di una crescente islamofobia. Si hanno a disposizione le «armi» del diritto e della democrazia per impedire che le società alzino muri invalicabili che producano discriminazioni e divisioni, e conducano a quanto sta drammaticamente accadendo al di là del Mar Mediterraneo e nel vicino Oriente;
    non è più rimandabile l'avvio nel nostro Paese di una strategia di contro-radicalizzazione mediante la formazione di operatori qualificati e una campagna di prevenzione che coinvolga la società civile e le istituzioni a tutti i livelli, partendo dalle scuole, vero primo livello dell'integrazione nella società, per l'individuazione del disagio e la prevenzione del rischio di radicalizzazione dei ragazzi e con l'obiettivo di creare una vera e propria rete sociale che, partendo proprio dalla scuola, coinvolga famiglie, associazionismo, istituzioni e accompagni i bambini, sin dai primi anni di vita, nel loro percorso di sviluppo del pensiero critico;
    bisogna invece intervenire nelle aree di crisi per trovare soluzioni di pace, senza alimentare ulteriori guerre, o sostenere nuovi e vecchi dittatori e senza sostenere le posizioni di organizzazioni terroristiche, promuovendo concretamente i processi di composizione dei conflitti e le transizioni democratiche con la società civile, il dialogo tra le diverse comunità,

impegna il Governo:

   a sostenere la composizione della storica questione mediorientale e del conflitto israelo-palestinese, dando attuazione alle mozioni votate in Parlamento il 27 febbraio 2015, a partire dal riconoscimento dello Stato di Palestina come impulso alla ripresa dei negoziati di pace;
   con specifico riferimento alla Siria, a promuovere con gli altri partner internazionali la ricostruzione delle aree liberate dalla presenza dello Stato Islamico nel Rojava e nel resto del nord della Siria, facendo sì che la Turchia apra le frontiere per permettere il passaggio dei convogli umanitari, al contempo favorendo il dialogo tra le forze democratiche del Paese e gli attori regionali, lavorando per la ripresa dei negoziati di pace e quindi la road map tracciata dal vertice di Vienna a cui devono essere invitate anche le altre parti in conflitto, le istituzioni autonome del Rojava-Siria del nord e le Forze siriane democratiche (SDF);
   con riferimento all'Iraq, a favorire la composizione di un governo inclusivo che non discrimini le minoranze non-sciite del Paese;
   a intraprendere urgenti iniziative per impedire la vendita di armi ai Paesi responsabili di aver supportato direttamente o indirettamente Daesh e a proporre in sede europea e nei consessi internazionali una moratoria sulla vendita di armi e un embargo ai Paesi coinvolti direttamente o indirettamente nei conflitti o che sono sospettati di aver armato o finanziato gruppi terroristici;
   ad assumere iniziative, anche in collaborazione con gli altri partner internazionali, per interrompere i flussi di finanziamento a Daesh, prevedendo rigide sanzioni per gli Stati che finanziano direttamente o indirettamente il terrorismo o che facilitano, con legislazioni «opache», la raccolta di donazioni «private» destinate alle organizzazioni terroristiche;
   ad adoperarsi per impedire insieme alla comunità internazionale il commercio illegale che finanzia i gruppi terroristici, a cominciare da Daesh, prevedendo sanzioni per gli Stati che permettono il contrabbando del petrolio;
   ad arginare il flusso dei foreign fighters soprattutto assumendo ogni utile iniziativa nei confronti della Turchia e a chiedere che al confine tra Turchia e Siria venga dislocato un controllo internazionale della frontiera sotto mandato ONU e che la Turchia cessi immediatamente ogni forma di ostilità nei confronti delle milizie curde dello YPG/YPJ e dello HPG che stanno combattendo contro Daesh in Siria e Iraq;
   a riconoscere formalmente le istituzioni autonome della Rojava-Siria del Nord;
   ad adoperarsi con tutti i mezzi a propria disposizione affinché riprenda il processo di pace tra Turchia e Pkk e affinché quest'ultimo sia cancellato dalla lista delle organizzazioni terroristiche internazionali;
   ad avviare un'azione diplomatica nei confronti della Turchia, finalizzata al rispetto dei diritti umani, delle minoranze e dello Stato di diritto;
   a promuovere attività di spionaggio mirato anche con forme di intelligence tradizionali a discapito di una sorveglianza di massa, scarsamente efficace e costosa, non solo in termini di diritti civili, promuovendo attività coordinate tra le agenzie di intelligence degli Stati europei e aumentando i fondi ad esso destinati, anche riducendo le ingenti spese per le campagne militari all'estero, costose e controproducenti;
   a promuovere misure per il dialogo interculturale e interreligioso contro l'emarginazione, e quindi per l'integrazione e contro l'odio, avviando una vera strategia di contro-radicalizzazione, affinché si debellino le motivazioni e le radici che conducono alla radicalizzazione e al terrorismo;
   a sostenere la revoca dell'accordo Unione europea-Turchia per contrarietà al diritto europeo, alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'articolo 10, terzo comma, della Costituzione italiana e più in generale ai principi fondamentali della nostra civiltà giuridica e della nostra tradizione democratica e a promuovere l'apertura immediata di corridoi umanitari di accesso in Europa per garantire «canali di accesso legali e controllati» attraverso i Paesi di transito ai rifugiati che scappano da persecuzioni, guerra e conflitti per mettere fine alle stragi in mare e in terra, e quindi debellare il traffico di esseri umani;
   a sostenere, in sede europea, tutte le iniziative tese alla cancellazione o in subordine, all'alleggerimento significativo delle sanzioni dell'Unione europea nei confronti della Federazione russa;
   a chiedere in sede europea un approfondimento sulla partnership strategica tra Unione europea-NATO come definita dall'ultimo vertice di Varsavia, chiedendo che non ci debba essere mai una sovrapposizione della NATO e dell'Unione europea nella risoluzione dei conflitti, a partire dall'Ucraina e nel rapporto con la Russia;
   a lavorare per la stabilizzazione della Libia, coinvolgendo gli altri partner europei e membri della NATO, scongiurando ulteriori azioni militari e soprattutto con l'obiettivo di limitare gli interessi strategici stranieri in terra libica che sono alla base della destabilizzazione del Paese;
   ad adoperarsi per la ricomposizione della crisi in Tunisia, coinvolgendo i Paesi dell'Unione europea per la predisposizione di un programma di aiuti economici finalizzati alla stabilizzazione del Paese;
   a mettere in atto tutte le iniziative diplomatiche a disposizione per favorire la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba, a partire dalla rimozione totale del «bloqueo», anche in considerazione degli accordi bilaterali sottoscritti dal nostro Paese il 13 luglio 2016 sul trattamento del debito di Cuba, attuativi dell'intesa multilaterale firmata a Parigi il 12 dicembre del 2015 da Cuba e da 14 Paesi creditori;
   a valutare iniziative diplomatiche finalizzate alla restituzione a Cuba della base navale statunitense di Guantanamo.
(1-01336) «Scotto, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, D'Attorre, Duranti, Daniele Farina, Fassina, Fava, Ferrara, Folino, Fratoianni, Carlo Galli, Giancarlo Giordano, Gregori, Kronbichler, Marcon, Martelli, Melilla, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti, Zaccagnini».