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Atto a cui si riferisce:
C.4/00050 risulta sempre più evidente che le sollecitazioni delle società multinazionali favorevoli alla produzione di organismi geneticamente modificati (OGM), estranee all'interesse comune dei...



Atto Camera

Risposta scritta pubblicata Venerdì 15 novembre 2013
nell'allegato B della seduta n. 119
4-00050
presentata da
ZACCAGNINI Adriano

Risposta. — Con riferimento all'interrogazione in esame occorre premettere che la coltivazione, anche di piante geneticamente modificate, è di competenza delle regioni e delle provincie autonome. Si ritiene, comunque, opportuno esprimere alcune considerazioni per un più adeguato inquadramento della problematica.
La Corte di giustizia europea, con sentenza pregiudiziale del 6 settembre 2012 (causa C36/11), resa nell'ambito di una controversia tra la Pioneer hi bred Italia srl e il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, ha stabilito che le autorità italiane non possono subordinare ad una autorizzazione nazionale la coltivazione di sementi geneticamente modificate già autorizzate ai sensi del Regolamento (CE) 1829/2003 e iscritte nel catalogo comune ai sensi della direttiva 2002/53/CE, invocando considerazioni di carattere ambientale o sanitario già considerate nell'istruttoria del processo autorizzativo a livello europeo. La Corte ha inoltre precisato che la facoltà concessa dall'unione agli Stati membri di introdurre misure di coesistenza tra colture transgeniche e coltivazioni tradizionali o biologiche, dando applicazione all'articolo 26-bis della direttiva 2001/18/CE, non consente – nelle more di introduzione delle stesse misure – di opporsi in via generale alla messa a coltura di tali sementi geneticamente modificate già autorizzate a livello europeo.
Nella stessa sentenza viene, altresì, chiarito che, oltre che attraverso le misure di coesistenza sopra richiamate, gli Stati membri possono imporre un divieto o una limitazione alla coltivazione di varietà sementiere geneticamente modificate nei casi espressamente previsti dall'Unione europea attraverso:
le misure di emergenza previste dall'articolo 34 del Regolamento (CE) n. 1829/2003, il quale prevede che qualora sia manifesto che un prodotto, autorizzato ai sensi dello stesso Regolamento o conformemente ad esso, possa comportare un grave rischio per la salute umana, umana o per l'ambiente ovvero qualora, alla luce di un parere formulato dal l'Agenzia-Europea per la sicurezza alimentare, sorga la necessità di sospenderne o modificarne l'autorizzazione, si possano adottare misure conformemente alle procedure previste agli articoli 53 e 54 del Regolamento (CE) 178/2002;
le misure previste dagli articoli 16, comma 2, e 18 della direttiva 2002/53/CE qualora sia accertato che la coltivazione di una varietà geneticamente modificata, iscritta nel catalogo comune delle varietà possa nuocere dal punto di vista fitosanitario alla coltivazione di altre varietà o specie o presentare un rischio per l'ambiente o per la salute umana.

A loro volta, e per quanto riguarda, l'adozione delle misure di coesistenza, talune disposizioni recate dal decreto-legge n. 279 del 2004 convertito, con modificazioni, con la legge n. 5/2005, sono state dichiarate incostituzionale a seguito della sentenza n. 116 del 2006 della Corte Costituzionale in quanto invasive della competenza legislativa regionale nella materia «agricoltura». La richiamata disposizione normativa, infatti, avente ad oggetto la disciplina legislativa della coesistenza in attuazione della Raccomandazione n. 2003/556/CE, rimandava ad un successivo atto del Ministero per le politiche agricole alimentari e forestali per la individuazione delle norme quadro sulla base delle quali le regioni avrebbero dovuto adottare i piani regionali sulla coesistenza. La questione di legittimità era stata sollevata in via principale dalla regione Marche, alla quale la Corte Costituzionale ha dato ragione, se non proprio sotto tutti i profili oggetto di censura, pronunciandosi peraltro con una sentenza che risulta molto interessante, se non altro per l'opera di chiarificazione sulla corretta ripartizione fra Stato e regioni all'interno di questa complicatissima materia che sono ormai diventati gli ogm.
È bene precisare, sul punto, che la direttiva 2001/18/CE, all'articolo 23, prevede la possibilità per uno Stato membro di invocare la clausola di salvaguardia quando, sulla base di nuove o ulteriori informazioni divenute disponibili dopo la data dell'autorizzazione e che riguardino la valutazione del rischio ambientale o sulla base di una nuova valutazione delle informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze scientifiche, abbia fondati motivi per ritenere che un organismo geneticamente modificato (ogm) come tale o contenuto in un prodotto, notificato e autorizzato ai sensi delle stessa direttiva 2001/18/CE, rappresenti un rischio per la salute umana o l'ambiente, può temporaneamente limitarne o vietarne la vendita.
L'articolo 12, comma 1, della stessa direttiva, come peraltro evidenziato nella ulteriore Sentenza dell'8 settembre 2001 della Corte di Giustizia europea (avente ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Consiglio di Stato della Francia) enuncia che gli articoli da 13 a 24 non si applicano agli OGM come tali o contenuti in prodotti, autorizzati da atti comunitari che prescrivono, da un lato, una valutazione specifica del rischio ambientale ... omissis .... nonché, dall'altro, obblighi in materia di gestione del rischio, etichettatura, eventuale monitoraggio, informazione al pubblico e clausola di salvaguardia almeno equivalenti a quelli previsti dalla presente direttiva.
In attuazione, poi, delle previsioni recate dallo stesso articolo 12, comma 3, con il Regolamento (CE) 1829/2003 sono state stabilite le procedure per garantire che la valutazione del rischio, gli obblighi in materia di gestione del rischio, etichettatura, eventuale, monitoraggio e informazione al pubblico e clausola di salvaguardia, siano equivalenti a quelli stabiliti nella stessa direttiva.
Nel caso dei prodotti geneticamente modificati per alimentazione umana e animale che fossero stati legalmente immessi sul mercato comunitario prima della data di applicazione del predetto Regolamento, valgono le disposizioni contenute, rispettivamente, nei propri articoli 8 e 20, recanti Status dei prodotti esistenti. E cioè, che in deroga alle previsioni dell'articolo 4, comma 2, e dell'articolo 16, comma 2, i prodotti immessi sul mercato ai sensi della direttiva 90/220/CEE possono rimanere sul mercato e continuare a essere utilizzati a patto che, entro sei mesi dalla data di applicazione dello stesso Regolamento (CE) n. 1829/2003, gli operatori responsabili dell'immissione in commercio notifichino alla Commissione la data in cui essi sono stati per la prima volta immessi sul mercato comunitario. La notifica dovrà essere corredata di tutti gli elementi menzionati nell'articolo 5, paragrafi 3 e 5, per gli ogm destinati all'alimentazione umana, e all'articolo 17, paragrafi 3 e 5, per gli ogm destinati all'alimentazione animale, ivi compreso il piano di monitoraggio post-commercializzazione previsto dall'Allegato VII della direttiva 2001/18/CE.
Quindi, entro nove anni dalla data in cui gli ogm sono stati autorizzati all'immissione in commercio come alimenti o mangime, gli operatori responsabili della loro immissione in commercio possono presentare una domanda di rinnovo dell'autorizzazione conformemente agli articoli 11 e 23 del Regolamento (CE) n. 1829/2003.
Per quanto attiene, adesso, al caso che più ha fatto discutere nei mesi passati, si rileva che in conformità alle previsioni normative di cui sopra, la Monsanto Europe ha notificato il MON 810 come prodotto esistente alla Commissione europea l'11 luglio 2004 e ne ha richiesto il rinnovo dell'autorizzazione il 4 maggio 2007.
Il quadro normativo e giurisprudenziale sopra brevemente delineato risulta, ancora più in sintesi, il seguente: mentre l'applicazione della clausola di salvaguardia deve essere riferita alla normativa precedente al completamento delle disposizioni in tema di ogm avvenuto con l'adozione del Regolamento (CE) n. 1829/2003 e la cui attuazione rimane subordinata al verificarsi dei presupposti ivi riportati, la disciplina delle misure di emergenza può applicarsi a tutti quei casi riferibili a ogm già autorizzati ai sensi della direttiva 90/220/CE e soggetti a rinnovo dell'autorizzazione ai sensi dello stesso Regolamento (CE) n. 1829/2003.
Quindi, sempre prendendo ancora ad esempio il mais MON 810, autorizzato all'immissione in commercio prima dell'entrata in vigore del Regolamento (CE) n. 1829/2003 e soggetto al rinnovo dell'autorizzazione nel 2009 ai sensi dell'articolo 20 del medesimo, le misure a carattere d'urgenza che potrebbero essere prese per vietarne la coltivazione sembrerebbero unicamente quelle dell'articolo 34 del medesimo Regolamento, con le modalità di cui agli articoli 53 e 54 del Regolamento (CE) 178/2002, mentre resta assai complessa, sul piano tecnico-giuridico, l'adozione della clausola di salvaguardia prevista dall'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE, appunto in base alle modifiche operate successivamente con il più volte richiamato Regolamento (CE) n. 1829/2003.
E, appunto, in relazione all'utilizzo di tale prodotto geneticamente modificato, è stato messo in evidenza, a seguito di studi e ricerche condotte da vari organismi, sia nazionali che comunitari, che la sua coltivazione è chiaramente suscettibile di presentare un grave rischio per l'agrobiodiversità in assenza di misure di gestione che siano in grado di limitare tale rischio.
A tale conclusione è giunta, peraltro, la Autorità europea per la sicurezza alimentare – EFSA, nel ritenere che i risultati derivanti da uno studio sulla coltura del mais Bt1 siano applicabili anche al mais MON 810, in quanto entrambi producono la medesima tossina Cry1Ab, così come ad analoghi risultati sono pervenuti gli studi svolti dal Consiglio per la ricerca in agricoltura (Cra) e dall'Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra).
Sulla base degli elementi di cui sopra, il Ministero della salute nel marzo 2013 aveva rappresentato alla Commissione europea, ai sensi dell'articolo 34 del Regolamento (CE) n. 1829/2003, la necessità che venisse effettuata una nuova valutazione completa del MON 810 e definite adeguate misure di gestione obbligatorie per detto Ogm, non esclusa quella di sospenderne la coltivazione nell'Unione europea.
Peraltro, si era rilevata la impossibilità di utilizzare la clausola di salvaguardia ex articolo 23 della direttiva 2001/18/CE per inibire l'utilizzo del MON 810 sul territorio nazionale sulla base della analoga preclusione rilevata dalla Corte di giustizia europea nel 2011 con riferimento alla Francia che vi aveva fatto ricorso. Non rimaneva, così, come più sopra sottolineato, e sussistendone le condizioni, il ricorso all'adozione delle misure cautelari provvisorie previste dall'articolo 54 del Regolamento (CE) 178/2002, anche nelle more e in funzione delle eventuali misure che sarebbero state adottate dalla Commissione europea opportunamente interessata.
E, infatti, nel successivo mese di aprile 2013 le Autorità italiane avevano informato, come prescritto, la Commissione europea della necessità di adottare misure di urgenza in conformità alla procedura di cui all'articolo 53 del Regolamento (CE) 178/2002, più volte citato.
Poiché risultava che a seguito della segnalazione di cui sopra nessuna iniziativa era stata avviata in proposito da parte della Commissione europea, al fine di cambiare le condizioni di messa in coltura del mais MON 810 per imporre l'attuazione di misure di gestione necessarie per la protezione dell'ambiente, secondo, peraltro, le raccomandazioni formulate dall'Efsa, si è ritenuto di procedere con l'adozione delle misure di urgenza previste dall'articolo 54 del ripetuto Regolamento (CE) 178/2002.
La situazione in atto, infatti, alla luce delle considerazioni sopra riferite, si riteneva che il mantenimento della coltura del mais geneticamente modificato MON 810 senza adeguate misure di gestione non tutelasse a sufficienza l'ambiente e la biodiversità.
E, così, si è pervenuti alla firma in data 12 luglio 2013 del decreto del Ministro della salute adottato di concerto con i Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali e dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con il quale è stato disposto il divieto della coltivazione, sul territorio nazionale, di varietà di mais MON 810, proveniente da sementi geneticamente modificate, sino alla adozione di misure comunitarie di cui all'articolo 54, comma 3, del Regolamento (CE) 178/2002, di cui sopra, e comunque non oltre diciotto mesi dalla data del provvedimento stesso.
Detto decreto, immediatamente trasmesso alla Commissione europea e agli altri Stati membri dell'Unione europea ai sensi e per gli effetti dei commi 1 e 2 dello stesso precitato articolo 54, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Serie generale n. 187 del 18 agosto 2013 ed è entrato in vigore il giorno successivo.
Tanto si è riferito in risposta al quesito posto dall'interrogante quale applicazione nel caso concreto delle iniziative adottate per contrastare, secondo gli strumenti messi a disposizione dalla normativa interna e comunitaria, l'indebito utilizzo di prodotti geneticamente modificati che, in assenza di opportune misure di gestione, possano recare possibili danni, anche irreversibili, all'ambiente, alla biodiversità nonché alla qualità della produzione agricola nazionale, convenzionale e biologica, di riconosciuta eccellenza a livello mondiale.
Sarà, naturalmente, cura del Corpo forestale dello Stato svolgere con la consueta ed elevata professionalità ed efficienza tutte le azioni di sorveglianza e repressione ad esso istituzionalmente rimesse per garantire l'osservanza del divieto.
Il Sottosegretario di Stato per l'ambiente e la tutela del territorio e del mare: Marco Flavio Cirillo.