• C. 2-A-bis EPUB DI STEFANO Manlio, Relatore di minoranza

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Atto a cui si riferisce:
C.2 Trattati internazionali, basi e servitù militari


Frontespizio Relazione
Testo senza riferimenti normativi
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2-A-bis


PROPOSTA DI LEGGE
D'INIZIATIVA POPOLARE
Trattati internazionali, basi e servitù militari
Presentata alla Camera dei deputati nella XVI legislatura il 7 agosto 2008 e mantenuta all'ordine del giorno ai sensi dell'articolo 107, comma 4, del Regolamento
(Relatore di minoranza: MANLIO DI STEFANO)


      

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Onorevoli Colleghi! — Attraverso la proposta di legge in discussione si vuole porre all'attenzione tutta una serie di tematiche che riteniamo particolarmente importanti e attuali: dalla limitazione della sovranità territoriale, alla salute dei cittadini italiani e alla tutela dell'ambiente, fino al rispetto dei principi costituzionalmente garantiti del divieto di azioni militari offensive e del principio democratico di sovranità dell'istituzione parlamentare quale organo direttamente rappresentativo del popolo italiano.
      Sul territorio italiano insistono ben oltre 100 basi e installazioni NATO, di cui almeno 50 sono installazioni militari americane, come risulta dal Base Structure Report – Fiscal Year 2014 Baseline – A Summary of the Real Property Inventory del Dipartimento della difesa degli Stati (delle quali si possono considerare delle basi vere e proprie quelle di Aviano, Ghedi, Vicenza, Livorno, Gaeta, Napoli e Sigonella).
      Si tratta di un numero importante – non ufficiale e difficile da confrontare alla luce della segretezza dei trattati come si vedrà più avanti – che si aggiunge a quello del personale militare e civile USA in Italia, anch'esso altissimo: secondo quanto riportato dal sito Defense Manpower Data Center, alla data del 31 luglio 2013 si trovavano in Italia 11.963 militari statunitensi e 5.631 civili.
      Veniamo poi a un altro numero, quello delle testate nucleari custodite sul territorio italiano: fonti riportano tra le 70 e le 90 armi nucleari, ma anche qui un dato ufficiale non è mai stato fornito. Gli ordigni nucleari fanno parte del deterrente nucleare Usa e dell'Alleanza Atlantica e dovrebbero essere conservate nelle basi di Aviano e Ghedi Torre.
      Il problema delle bombe nucleari in Italia pone, allora, sia un possibile profilo di incompatibilità con il TNP (Trattato di Non-Proliferazione nucleare), ma in particolar modo è evidente come le armi nucleari presenti sul territorio italiano possano rappresentare un pericolo per la salute dei cittadini che vivono nei pressi di una base con armamenti nucleari al suo interno. Per tale ragione crediamo che i cittadini italiani abbiano tutto il diritto di sapere dove si trovino, in che quantità siano presenti in Italia e con che modalità siano custoditi gli ordigni.
      Già da questi brevi cenni emerge chiaramente come l'approvazione di questi trattati militari abbia inevitabilmente causato costi sociali, ambientali ed in termini di salute per la cittadinanza.
      Basti, al riguardo, segnalare l'impatto che hanno avuto alcune installazioni militari sulla salute dei cittadini per comprendere la rilevanza della questione.
      Solo per citare alcuni esempi si pensi ai casi di malattie tumorali (in alcuni casi addirittura infantili) e malformazioni che hanno colpito e colpiscono le popolazioni (soprattutto della Sardegna che è la regione maggiormente interessata costituendo, da sola, il 62 per cento del totale delle servitù militari italiane) che risiedono nelle vicinanze dei poligoni NATO; oppure si possono menzionare le battaglie contro l'apertura del MUOS in Sicilia, un sistema di telecomunicazioni satellitari militari posto all'interno di una riserva naturale – a pochi chilometri da Niscemi, un paesino di 10.000 abitanti – capace di generare campi elettromagnetici nocivi anche per la salute umana.
      Fatte queste premesse veniamo ora agli aspetti più propriamente giuridici.
      La proposta di legge in esame affronta un tema di vera sostanza giuridica, giacché quello degli accordi internazionali in materia militare e quello connesso e conseguente delle basi e servitù militari costituisce inequivocabilmente un vero e proprio buco nero del nostro diritto costituzionale. È d'uopo riscontrare, in proposito, una grave confusione e una perdurante incertezza di funzioni e di procedure, in primo luogo nei rapporti tra organi costituzionali di indirizzo politico di maggioranza tra loro (il Parlamento e il Governo) e di questi nei confronti degli organi costituzionali di garanzia (in primo luogo, il Presidente della Repubblica). Basti ricordare che, in materia di accordi internazionali, il Parlamento sembra non svolgere alcuna delle sue funzioni tipiche: non ha potere di iniziativa, non elabora il testo dell'accordo internazionale e non ne dispone l'approvazione finale.
      In verità, lo sfondo teorico di riferimento che la Costituzione repubblicana del 1947 ci propone in questa materia è chiaro, in primo luogo nella sua intelaiatura di fondo, data dalla scelta inequivocabile a favore della forma di governo parlamentare; per cui non è dato individuare alcun elemento che induca a ritenere che in questo ambito particolare le Camere abbiano un ruolo diverso e di minorità rispetto a quello ad esse generalmente e costituzionalmente attribuito. Al contempo, sussiste una pluralità di disposizioni costituzionali, collocate tanto nella prima quanto nella seconda parte della Costituzione e certamente rilevanti in materia. Queste chiamano tutte in causa il Parlamento quale organo almeno co-decisore nell'adozione delle principali scelte politiche in ambito estero-militare: l'articolo 52, comma 3, il quale sancisce che «l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», da cui deriva che l'universo militare non solo non è più separato da quello civile, ma anzi viene inscindibilmente riconnesso alla democrazia e, per essa, all'unico organo costituzionale direttamente e immediatamente rappresentativo della Nazione, il Parlamento; l'articolo 78, il quale pone in mano alle Camere (e non al Governo) la decisione sulla guerra e sulla pace; l'articolo 80, il quale chiama in causa la legge, e dunque lo stesso Parlamento, al momento di ratificare i principali trattati internazionali.
      Eppure, a fronte di tutto questo, la prassi istituzionale di questi ormai quasi settant'anni di vigenza della Carta repubblicana non appare particolarmente edificante circa il necessario coinvolgimento del Parlamento in tema di accordi internazionali in materia militare, con il corollario – altrettanto grave, se si vuole – di una coessenziale marginalizzazione del Presidente della Repubblica in questo specifico settore, la cui funzione di garanzia appare parimenti insuscettibile di dispiegarsi in termini effettivi ed efficaci. Forse anche per tale ragione, la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, istituita nel corso della IX legislatura, suggeriva di doversi autorizzare con legge la ratifica di tutti i trattati internazionali recanti anche «l'assunzione di obblighi militari»; e la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, istituita nel corso della XIII legislatura, proponeva che fosse «autorizzata con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura militare».
      In particolare, sulle estremamente rilevanti modifiche del più importante trattato militare a cui partecipa il nostro Paese dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi (il Trattato del Nord Atlantico del 1949), è mancato qualunque coinvolgimento costituzionalmente doveroso ora del Parlamento ed ora, per altro verso, del Presidente della Repubblica. Si tratta di un vero e proprio paradosso, posto che l'articolo 11 di quel Trattato stabilisce a chiare lettere, tra l'altro, che «le sue disposizioni saranno applicate dalle parti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali».
      Al contrario, si è passati dal trattato costitutivo della NATO di carattere strettamente difensivo, che si rifaceva all'articolo 51 della Carta dell'ONU, al trattato di intervento globale disegnato con il Nuovo concetto strategico (The Alliance Strategic Concept e la Defence Capabilities Initiative) approvato a Washington il 24 aprile del 1999, ove si prevede che la NATO utilizzi le sue forze militari come strumento di gestione delle crisi, di intervento e di proiezione della forza, estendendo l'area d'azione alla periferia dei Paesi membri (Parte II, 20), nonché a tutte le aree in cui vi sia il pericolo di interruzione del flusso di risorse vitali, cioè energetiche, senza che né il Parlamento né il Presidente della Repubblica abbiano potuto svolgere le loro funzioni di indirizzo politico, legislativa e di controllo, il Parlamento, di garanzia il Presidente della Repubblica.
      Il cambiamento, iniziato al Consiglio atlantico di Roma del 7-8 novembre 1991 ove venne elaborato il «Nuovo concetto strategico dell'Alleanza Atlantica» e istituito il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC), come da più parti già all'epoca, e con maggior forza e ragione dopo il 1999, si faceva rilevare sia dal mondo politico che dalla dottrina internazionalistica, era radicale e sicuramente tale da non giustificare né legittimare una approvazione con la cosiddetta forma semplificata; eppure il Parlamento non è stato chiamato in alcun modo a discuterne ed a svolgere le sue funzioni, non essendo stato tale importantissimo documento sottoposto al procedimento di ratifica di cui agli articoli 80 e 87, comma 8, della Costituzione.
      Alla luce di tali premesse, molto può essere fatto anche con una legge ordinaria, posto che il vincolo applicativo di questa sarebbe rivolto precipuamente al Governo dando attuazione per via legislativa all'articolo 80 della Costituzione.
      Se si raffronta tale disposizione a quella corrispondente dello Statuto albertino del 1848 (articolo 5), ci si avvede agevolmente di come nella Costituzione repubblicana emerga, a partire dal dibattito costituente, un deciso sfavore per i trattati segreti. Spicca, al contempo, l'esplicito riferimento, tra i trattati internazionali la cui ratifica dev'essere autorizzata con legge, a quelli «di natura politica». Questo sintagma, in particolare, appare suscettibile sia di comprimere – com'è stato sinora – sia, però, anche di espandere notevolmente il ruolo del Parlamento, nella misura in cui una legge ordinaria (non quindi, lo ripeto, costituzionale) specificasse, categorizzasse, esemplificasse i trattati internazionali in questione. A questo riguardo, puntualizzare in una legge ordinaria che tutti gli accordi internazionali recanti «l'assunzione di obblighi militari» o tutti gli accordi internazionali «di natura militare» – riprendendo le formule presenti nei testi proposti, rispettivamente, dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali o dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali – hanno natura politica, secondo l'articolo 80 della Costituzione, vuol dire attrarli nell'alveo della potestà legislativa del Parlamento (nonché, anche in questo caso, della funzione di garanzia del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione e poi di ratifica).
      Sempre con riferimento alla funzione legislativa, va detto, ancora, che non è certamente questo il primo momento in cui il Parlamento ha cercato, nei trascorsi decenni e con un set di strumenti diversificati, di far emergere e così circoscrivere il tema degli «accordi segreti», espressamente evocati in termini negativi all'articolo 1, comma 1, della presente proposta di legge, con la finalità precipua di espandere le ipotesi di intervento della legge di autorizzazione alla loro ratifica. In particolare il Parlamento ha stabilito in un'altra legge ordinaria di carattere ordinamentale, qual è la legge n. 839 del 1984 (e poi nel DPR n. 1092 del 1985), di doversi inserire e pubblicare nel testo integrale, all'interno della Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica italiana, anche gli «accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, ivi compresi quelli in forma semplificata» (articolo 1, comma 1, lettera f), e altresì di doversi trasmettere, «a cura del Servizio del contenzioso diplomatico, trattati e affari legislativi del Ministero degli affari esteri per la pubblicazione trimestrale in apposito supplemento della Gazzetta Ufficiale, tutti gli atti internazionali ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni estere, trattati, convenzioni, scambi di note, accordi e altri atti comunque denominati, che sono altresì comunicati alle Presidenze delle Assemblee parlamentari. La trasmissione avviene non oltre un mese dalla sottoscrizione dell'atto con cui la Repubblica si obbliga» (articolo 4).
      Purtroppo però anche tale norma è rimasta totalmente disattesa e la maggior parte dei trattati adottati con la forma semplificata sopra richiamata non sono mai stati pubblicati.
      Ad esempio, solo nel 1995, a seguito della famosa vicenda del Cermis, è stato reso pubblico lo Shell agreement «accordo conchiglia» e cioè il memorandum datato 2 febbraio 1995 sottoscritto tra il nostro Ministro della difesa e quello statunitense, il cui contenuto, come si è potuto apprendere, in alcun modo legittimava la sua non pubblicazione, mentre del BIA (Bilateral Infrastructure Agreement – Accordo bilaterale italo-americano), sottoscritto nel 1954, e che dovrebbe regolare l'utilizzo di 6 delle basi USA in Italia, a tutt'oggi non si ha alcuna conoscenza, come alcuna conoscenza si ha anche solo dell'esistenza di accordi relativi alle circa 113 istallazioni e basi USA in Italia. Accordo, il BIA, tenuto segreto solo perché, come espressamente ha affermato l'allora Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Ronald Spogli, perché «è presumibile che se queste disposizioni fossero rese pubbliche i partiti politici che si oppongono alla presenza militare degli Stati Uniti in Italia ed agli impegni oltremare degli S.U. farebbero pressioni sul Governo italiano affinché si attenesse ad una più restrittiva interpretazione degli accordi».
      Con la legge in esame, non si chiede, quindi, un'acritica uscita dall'Alleanza Atlantica, come invece suggestivamente afferma la relazione di maggioranza, ma esclusivamente il ripristino della legittimità costituzionale e il rispetto della centralità del Parlamento (nonché il rispetto degli accordi internazionali di cui l'Italia è parte).
      Appare assai difficile comprendere, infatti, come l'Italia possa partecipare al trattato TNP che all'articolo 1 espressamente prevede il «divieto di consegnare direttamente o indirettamente ad altri Stati, soprattutto se non nucleari, armi atomiche» e all'articolo 2 il «divieto degli Stati non nucleari di accettare direttamente o indirettamente il possesso e la disposizione di armi nucleari» e scoprire, poi, che nelle basi militari di Ghedi e di Aviano sono presenti degli ordigni nucleari e che esiste un accordo «segreto» tra gli USA e l'Italia del 24 maggio 1961. Assai difficile da comprendere è poi come si possa essere parte di accordi quali la Convenzione di Parigi del 1993 (ratifica autorizzata con la legge n. 496 del 1995) sulle armi chimiche; la Convenzione di Ottawa sulla messa al bando delle mine antipersona del 1997 (ratifica autorizzata con legge n. 106 del 1999); il Trattato ATT (sul commercio delle armi adottato il 2 aprile 2013 con la legge n. 118 del 2013); il Trattato di sulle armi biologiche BWC (Biological Weapons Convention) entrato in vigore nel marzo del 1975 (ratificato con la legge n. 618 del 1974); la Convenzione su certe armi convenzionali (la CCW – Convention on Certain Conventional Weapons) adottata a Ginevra nel 1980 (legge n. 715 del 1994); la Convenzione di Oslo firmata a Dublino nel 2008 (ratificata con la legge n. 95 del 2011) e allo stesso tempo non prevedere dei divieti a sottoscrivere trattati con Paesi che non solo non li hanno firmati ma che agiscono in totale contrasto con i principi ispiratori di tali accordi.
      Inoltre, va constatato come, al di là del fatto che il nostro Parlamento non si sia mai potuto e dovuto pronunciare sull'opportunità di tale strategia, la stessa sta dimostrando in modo sempre più evidente i propri limiti e la propria inadeguatezza ad affrontare pericoli che non sono più determinati da conflittualità di tipo «tradizionale» tra gli Stati, ma da cause ben diverse – legate molto spesso agli squilibri socio-economici imposti dai Paesi più ricchi – che sempre più spesso generano fenomeni terroristici di livello globale, contro i quali nessuna funzione di deterrenza possono svolgere gli insediamenti militari di tipo convenzionale che anzi, paradossalmente, acuiscono l'eventualità di attentati e, dunque, l'insicurezza per i Paesi che li ospitano.
      Oggi non si può, inoltre, non rilevare come la strategia USA e NATO non abbia portato al previsto miglioramento della sicurezza globale ma che, anzi, abbia contribuito a produrre una situazione di instabilità e rischio di conflitti molto più ampia di quanto prima esistente.
      Non va infine trascurato nemmeno, come sottolineato dai vari comitati che si battono per la riconversione degli insediamenti militari a usi civili, l'aspetto della difficile coabitazione di quest'ultimi con le comunità locali, che si vedono ingiustamente espropriate di ampie e bellissime zone, che vivono nella preoccupazione delle conseguenze ambientali e sanitarie delle attività militari (responsabili di diversi tipi di inquinamento: dell'aria, dell'acqua e del suolo) e che temono la presenza di armi nucleari a pochi metri dalle proprie abitazioni.
      Le lotte delle popolazioni civili (specie in Sardegna) per la chiusura dei poligoni di tiro e contro le esercitazioni militari della NATO, contro gli ampliamenti delle basi militari e contro la formazione di nuove basi (ad esempio la lotta di Vicenza contro il Dal Molin), contro i siti di stoccaggio di nuovi armamenti (vedi gli Eurofighter a Grosseto, i cacciabombardieri a Cameri), le lotte contro l'uso dei nostri porti e delle ferrovie per il trasporto di macchine da guerra (trainstopping) devono avere risposta istituzionale attraverso l'approvazione in Parlamento del presente testo di legge di iniziativa popolare.

Manlio DI STEFANO,
Relatore di minoranza