• Testo DDL 1415

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Atto a cui si riferisce:
S.1415 Revisione della Costituzione in tema di legislazione regionale, democrazia interna ai partiti politici, fiducia al Governo, Parlamento in seduta comune.


Senato della RepubblicaXVII LEGISLATURA
N. 1415
DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE
d’iniziativa dei senatori COMPAGNA e BUEMI

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 31 MARZO 2014

Revisione della Costituzione in tema di legislazione regionale, democrazia interna ai partiti politici, fiducia al Governo, Parlamento in seduta comune

Onorevoli Senatori. -- È in questione la garanzia della democrazia costituzionale, il ruolo del Parlamento, l'effettività della sovranità popolare. Non si tratta della mera difesa di una Camera e di una Istituzione, ma del modo di essere di una democrazia moderna, veramente partecipata, articolata come giusto e necessario per una migliore qualità della rappresentanza e della produzione legislativa.

Proponiamo una riforma democratica della democrazia. Unico vero antidoto all'antipolitica, alla demagogia, al populismo. Per questo con il presente disegno di legge è tratteggiato non solo un preciso modello di sistema parlamentare, di relazione fra le Camere e di queste con il Governo, ma sono affrontate anche le questioni legate alla vita democratica interna ai partiti e ai referendum popolari.

Una visione d'insieme attenta ai valori sanciti dalla nostra Costituzione ed alla necessità di difendere davvero la centralità dei cittadini nel processo decisionale e politico.

Per questo non è accettabile l'idea che un ramo del Parlamento venga espulso dal circuito della sovranità popolare.

Difendere l'eleggibilità dei senatori, ovvero contrastare la loro riduzione a mandatari di altri enti, costituisce dunque un punto fermo e qualificante. Così come l'opposizione alla menzogna della necessità di un rafforzamento dei poteri dell'Esecutivo, che si cela tanto dietro la bozza di riforma elettorale detta «Italicum», quanto dietro la prefigurazione di un'ulteriore «corsia preferenziale» per il Governo alla Camera superstite.

In questo modo infatti, cancellato il Senato, anche la Camera verrebbe svuotata di potere e rappresentatività. L'intero Parlamento risulterebbe subordinato ad una sorta di «premierato assoluto».

A tutto questo, in nome della democrazia, si intende porre rimedio.

Cominciamo dal vedere i rapporti fra il Parlamento, in ispecie il Senato, e gli enti locali, come definitisi all'indomani dell'istituzione delle regioni nel 1970.

I. «Legislazione» regionale

Come è stato sagacemente ricordato, fino al 1970 chi avesse voluto fare del Senato una Camera delle regioni, non si sarebbe trovato queste ultime nel nostro sistema istituzionale realizzato(1) . Sono state con dovizia analizzate le ragioni politiche, tattiche, culturali di questo ritardo. Non si vuole qui ripetere, né chiosare; bensì si formula un’ipotesi e si pongono conseguenti quesiti.

Innanzitutto, le tesi di un autorevole Costituente. Costantino Mortati immaginava l'apporto futuro delle regioni nel sistema costituzionale nei seguenti termini: «Con tale riforma [regionale] si è [...] soprattutto inteso di promuovere e sollecitare l'organizzazione dei grandi gruppi di interessi omogenei nel loro interno dal punto di vista territoriale e sociale, e differenziati dagli altri per le diverse condizioni storiche, geografiche, economiche, allo scopo di far pervenire le voci più chiare e genuine di questi interessi all'atto delle deliberazioni di politica generale, sicché tali deliberazioni risultassero il più possibile aderenti alla varietà dei bisogni reali di tutta la società. E, nel promuovere l'attuazione di tale intento, si è voluto tenere presente soprattutto il Mezzogiorno, la parte d'Italia cioè meno progredita rispetto alle altre, onde sollecitare in essa una più efficiente coscienza politica, ed in tal modo dare ad essa maggior peso nell'attività statale. [...] Noi sappiamo bene che i problemi meridionali si possono risolvere solo sul piano nazionale, nell'ambito della politica generale dello Stato, in occasione delle decisioni in materia di politica doganale, tributaria, agraria, dei trasporti, degli scambi internazionali, della stessa politica estera. Ma, appunto per questo, noi pensiamo che sia necessario conferire alle regioni più arretrate la possibilità di raggiungere, attraverso l'organizzazione regionale, una coscienza più piena dei loro problemi, dei loro bisogni unitariamente intesi, per poterli rappresentare al centro con quella maggior forza che viene dalla loro visione integrale e dalla loro organizzazione. [...] Così si dica della correzione all'equivalenza dei suffragi, che si è voluta realizzare attraverso l'attribuzione di un numero fisso di senatori per ogni regione, all'infuori della loro consistenza demografica, correzione che dai suoi proponenti è stata pensata appunto in funzione del potenziamento politico del Mezzogiorno meno esteso e meno popoloso del Nord»(2) .

Quindi, per Mortati, le regioni dovevano servire per rappresentare al meglio, nelle decisioni dello Stato centrale e soprattutto del Parlamento nazionale, le esigenze, magari differenti, di tutte le aree territoriali del paese. I costituenti potevano allora solo sognare lo sviluppo politico dell'integrazione europea, che avrebbe preso l'avvio con i Trattati di Roma del 1957.

Che fossero favorevoli ad essa, nonché «alle limitazioni di sovranità necessarie», lo testimonia l'articolo 11 della Costituzione, che infatti è poi stato (e resta) fondamentale per l'adesione italiana alla CEE. Si è assistito, via via nei decenni, ad un aumento -- più o meno continuo e graduale -- dei poteri dei vari organi europei, sino ad arrivare all'elezione diretta di un Parlamento con suoi poteri sempre più significativi nella forma di governo dell'Unione, e con una sempre più ampia, dettagliata, approfondita copertura dei campi della vita associata da parte della legislazione europea. In Italia, parallelamente e contemporaneamente, cosa si è fatto? Si sono negli anni '70 istituite unità sub-statuali, cui sono state assegnate materie di legislazione previste inizialmente dal Costituente. Si è poi ampliata l'estensione di tale competenza, dapprima con legislazione ordinaria, successivamente con legislazione costituzionale (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sino al punto di arrivare a ribaltare il criterio della ripartizione per materia tra legge regionale e legge statale.

Si è, cioè, sostanzialmente diviso il residuo non coperto dalla normativa europea, che, in un’augurabile prospettiva, è destinato ad essere sempre più esiguo, tra un Parlamento nazionale e venti parlamentini regionali (senza considerare i consigli delle province autonome).

Un modo di procedere siffatto è lungimirante? È rispettoso del significato giuridico dell'atto «legge»? È funzionale ad una ragionevole gerarchia delle fonti e, prima ancora, delle istituzioni (iniziando dall'UE, fino a scendere ai comuni italiani)? È funzionale alle esigenze di razionalità e di affidamento di un sistema economico aperto alla concorrenza ed alla libertà di impresa?

Tre esempi siano sufficienti a dare il senso dei miei quesiti: 1) in tre ore di treno si arriva da Roma a Milano, cambiando ben cinque legislazioni regionali; 2) ad un centralismo statale si è sostituito un centralismo regionale, che mortifica ancora di più le potenzialità (deprimendo contestualmente le risorse finanziarie ed umane) delle realtà comunali (che sono le istituzioni più antiche del Paese!(3) ); 3) un imprenditore reatino, che voglia aprire una seconda sede di produzione in provincia di Terni, deve augurarsi che i due consigli regionali del Lazio e dell'Umbria non abbiano esercitato in modo difforme tutte le loro prerogative legislative nella varie materie che interseca una qualunque attività economica. Siamo così tornati ad una situazione di frammentazione normativa anche peggiore rispetto a quella dell'Italia preunitaria (perché allora non vi era la necessità di uniformarsi ad una legislazione europea).

Non sarebbe più ragionevole (dal punto di vista storico, economico e costituzionale) tornare al testo dell'articolo 117 approvato in Costituente? Addirittura, per le stesse ragioni, non sarebbe più responsabile adottare la formula dell'originario articolo 117 anche più dimagrita? Ad esempio, siamo proprio sicuri che l'urbanistica e l'industria alberghiera siano materie che possano oculatamente essere oggetto di una «legislazione» differente per fazzoletti di territorio che in auto o treno si attraversano anche in una sola ora?

Non sarebbe lungimirante riaffermare la centralità del legislatore nazionale (unico vero sussidiario del legislatore europeo), seppure contemporaneamente dando ancor più autonomia amministrativa alle regioni (assegnando ad esse anche tutte le competenze delle province).

II. Democrazia interna dei partiti, deontologia politica e finanziamento della politica

Ancora Mortati poteva offrire una chiave di lettura, stavolta dalla sua relazione preliminare «Sui diritti subiettivi politici», presentata nella seduta del 20 marzo 1946 della I Sottocommissione «Problemi costituzionali» (in seno alla Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, presso il Ministero per la Costituente(4) ). Si riportano (contestualmente esplicandole e commentandole) alcune parti iniziali della relazione(5) :

«Nella realtà i partiti (in quanto naturale espressione del principio di organizzazione nel campo degli interessi politici) hanno assunto una funzione di protagonista nell'ordinamento dello Stato democratico moderno, che ha conferito loro di fatto una posizione tutt'altro che pregiuridica, come si sostiene, ma addirittura pubblicistica, per la natura dei compiti che vengono ad assumere non solo nella fase di formazione di altri organi, ma anche nella stessa gestione dello Stato, alla quale il partito di maggioranza conferisce la propria ideologia, i propri uomini, e nella quale assicura l'unità di direzione politica al di sopra della separazione dei poteri(6) . In presenza di questa realtà, sembra irrazionale continuare a fingere di ignorarne l'esistenza e sembra legittimo chiedersi se ad essi la Costituzione debba fare riferimento solo implicitamente (come avviene per lo più, in alcune costituzioni che li menzionano in occasione del procedimento elettorale) o anche espressamente ed in via più generale. [...] Sembra che condizionare ad un ordinamento del partito in senso democratico l'ammissione di questi a funzioni costituzionalmente rilevanti, corrisponda effettivamente ad un'assoluta esigenza organizzativa dello Stato moderno, venendo i partiti a porsi come il tramite necessario per la formazione e manifestazione della volontà popolare, e quindi ad assumere anche un compito educativo per la partecipazione consapevole dei singoli alla vita politica. Quest'esigenza trova una conferma nella constatazione, universalmente fatta, dello spostamento, venutosi a verificare, del centro di formazione dell'opinione politica da imprimere allo Stato dal Parlamento all'interno dei partiti o agli accordi fra partiti. Il Parlamento diviene organo di registrazione e di esecuzione di deliberazioni già prese all'infuori di esso, venendo a perdere la posizione di centro del regime di discussione, posseduta in passato. Così essendo, è evidente l'importanza di dare a questo stadio di formazione della volontà statale, che impropriamente si definirebbe pregiuridico, quelle garanzie di pubblicità e di libertà di dibattito, di prevalenza del criterio maggioritario nelle votazioni, le quali erano acquisite per l'attività parlamentare. L'accettazione del metodo democratico da parte dei partiti dovrebbe trovare il presupposto, e nello stesso tempo il suo completamento nell'espressa adesione, o per lo meno nell'assenza di contrasto, [dell]'ideologia e [dei] programmi del partito ai princìpi fondamentali che sono alla base del metodo stesso. Qui si affronta la parte più spinosa del problema, trattandosi di decidere se l'adesione richiesta debba riferirsi anche a princìpi sostanziali propri del particolare tipo di Stato (esempio, il mantenimento della proprietà privata dei mezzi di produzione), o invece solo a quelli che sono strettamente inerenti, o potrebbe dirsi sottintesi, nel concetto stesso di Stato democratico (ed anzitutto, il valore assoluto della persona umana ed i diritti conseguenti di libertà personale e di uguaglianza). Sembra che compatibile con la concezione liberale sia la soluzione in questo secondo senso. Per quanto riguarda l'imposizione di obblighi di esibizione delle contabilità, essa può trovare una giustificazione nel principio generale della pubblicità dei bilanci degli enti considerati attivi per lo Stato, ed appare corrispondente al bisogno di dare ai cittadini la possibilità di orientamenti più sicuri in ordine alla scelta da fare fra i vari partiti. Necessario altresì appare che l'accertamento del possesso dei requisiti richiesti venga sottratto sia ad organi esecutivi, e sia pure ad organi formati secondo il criterio elettivo maggioritario, ed affidato invece ad uffici che diano garanzie di imparzialità ed a cui sia assegnata una rilevanza costituzionale.

Alla stregua delle osservazioni che precedono può essere offerto uno schema, necessariamente generico, di disposizione relativa al punto in esame:

Il diritto all'organizzazione dei cittadini, al fine della partecipazione alla vita politica dello Stato, alla presentazione dei candidati per l'elezione alle cariche costituzionali (anche amministrative) dello Stato, o a [qualunque] altra attività pubblica che richieda l'intervento di partiti, o di altri enti, è attribuito a quelle associazioni, le quali ne chiedano il riconoscimento, rendano pubblici i loro statuti e bilanci e si sottopongano al controllo di apposito organo giurisdizionale [costituzionale], diretto allo scopo di assicurare l'osservanza di un metodo democratico di organizzazione e di funzionamento, [nel senso che sarà fissato dalla legge], ed il rispetto degli uguali diritti spettanti alle altre associazioni aventi finalità politiche»(7) .

Anche da questa relazione appare chiaro che il vulnus originario alla sovranità popolare è la mancata attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, nella parte in cui è adombrato un controllo della democrazia all'interno dei partiti. In estrema sintesi, al fine di impedire che per l'inceppamento della cinghia di trasmissione della rappresentanza democratica, tutto l'edificio dello Stato sociale democratico di diritto fallisca il suo obiettivo storico, si persegue una tutela pubblica dei diritti politici riconosciuti ai singoli nell'ambito della comunità statale. Tali diritti non hanno ancora potuto trovare garanzia -- attraverso un corpus di norme costituzionali ed ordinarie, ed una speciale giurisdizione costituzionale-politica -- all'interno dei partiti, in quanto prigionieri di uno stesso meccanismo (partitico).

Occorre una «legge speciale costituzionale»(8) sui partiti per garantire un controllo giuridico costituzionale sulla loro vita interna, e cioè:

1) sulla presenza di meccanismi minimi di tutela delle minoranze nei loro statuti;

2) sul rispetto di queste garanzie nella formazione delle maggioranze nei vari momenti della vita del partito (tra cui la definizione delle candidature per le elezioni);

3) sulla validità (in base allo statuto del partito, ma soprattutto in base ai valori di democrazia sanciti in Costituzione) delle decisioni prese dagli organi del partito;

4) sulla presenza ed il rispetto di norme che garantiscano una certa rigidità dello statuto (che non possa cioè essere modificato, ovvero innovato, con decisione a semplice maggioranza delle assemblee di sezione o nazionali);

5) sulle modalità con cui vengono utilizzati i finanziamenti pubblici annuali ai partiti (assegnati in proporzione ai loro appartenenti presenti nei vari organi elettivi della Repubblica, ed in proporzione ai loro finanziamenti privati).

Il controllo dovrebbe essere svolto da parte di una costituenda giurisdizione costituzionale, composta da membri eletti con maggioranze qualificate dalle Camere, ovvero direttamente da parte della Corte costituzionale (se si addivenisse ad una corposa riduzione della legislazione regionale...).

Si deve garantire, in sostanza, la possibilità che si avvicendino le maggioranze (e le loro rispettive élite) politiche al governo dei partiti, in base al reciproco rapporto di trasmissione tra partito e società politica.

Si tratta di una sensata e misurata prospettiva di concreto riformismo. Dopotutto esiste un ordinamento giuridico che incanala ed indirizza, anche rigidamente, la realtà in una miriade di settori che non sono la politica. Quindi l'argomento principe dei difensori dell'anomia politica -- cioè quello che la realtà supera sempre la norma, rendendola inutile (perché inefficace) -- è facilmente confutabile se solo si pone mente alle norme commerciali sulle società per azioni quotate, alle regole comunitarie ed italiane antitrust, eccetera; e più in generale al fatto stesso dell'affermazione di un sistema di norme che, sin dalla Roma repubblicana, ha affrancato i cittadini dalla libertà-schiavitù del farsi giustizia da sé, istituendo un codice di comportamento, sanzioni alle violazioni di tale codice, una struttura deputata a tale certificazione, ed un'altra struttura depositaria della titolarità all'esercizio della forza per rendere esecutive le sanzioni.

È la quasi totale mancanza di deontologia politica(9) (espressione della mancanza di senso civico della comunità) che, data l’anomia dei partiti, condiziona la prassi politica, la condotta della vita amministrativa, lo spiegarsi delle funzioni dei vari organi dello Stato (anche costituzionali) e dei vari enti della Repubblica. Cosa assai significativa, ai fini della presente disamina, è che queste tre mancanze, congiunte all’ipocrisia del demagogico non finanziamento pubblico dei partiti, hanno orientato le scelte di politica costituzionale realizzatesi nella direzione ed allo scopo di un finanziamento pubblico occulto, e quindi smodato, attraverso la moltiplicazione dei centri di spesa pubblica. Un solo esempio: appunto la edificazione di ipertrofici, costosi, irrazionali, apparati investiti della legislazione regionale, in relazione diretta con i centri di costo mediante la finzione della messa a disposizione di risorse per i gruppi consiliari.

Ed il male maggiore non è tanto lo sperpero di risorse pubbliche, peraltro non irrilevante date le condizioni economiche pubbliche e private del Paese. Il male maggiore è proprio il fatto che le scelte di politica costituzionale e le riforme costituzionali e istituzionali sono state mosse da tutto, fuorché dall'esigenza di funzionalità del sistema complessivo.

Come nel Regno Unito la necessità di un’organica costituzione formalmente rigida non si avverte -- per la presenza di una diffusa costituzione informale (direi materiale) ben rigida -- così da noi la quasi totale mancanza di deontologia, nella vita politica, impone, a più forte ragione, norme (anche costituzionali) sulla democrazia interna dei partiti.

III. Democrazia parlamentare, «indirizzo politico» e ponderazione degli interessi, separazione dei poteri

Ancora una volta soccorre il richiamo alle parole di due costituenti. Nel 1952, così Mortati si esprimeva sul «vero e proprio» bicameralismo: «Il sistema bicamerale vero e proprio è quello in cui le due Camere sono poste in una posizione di assoluta parità, in cui cioè esse, pur costituendo organi distinti ed autonomi, possono dar vita a manifestazioni di volontà imputabili allo Stato solo quando si ottenga il consenso di entrambe sullo stesso testo di deliberazione»(10) . Sempre nel 1952, Ruini così si espresse sul bicameralismo: «Il compito di moderazione e di integrazione della seconda Camera è inteso in un senso funzionale che riguarda la legislazione e l'esercizio del controllo. Il riesame e la riflessione si possono esercitare anche da una Camera sola (vi è a tal fine il sistema delle tre letture(11) ); ma senza dubbio sono più penetranti ed efficaci quando vi sono due Camere. [...] Dal caposaldo della bicameralità non si può dedurre senz'altro come consequenziale di un sillogismo, che le due Camere debbono essere diverse. Anche se fossero eguali, strutturalmente e funzionalmente, non si tratterebbe soltanto di due letture, perché la seconda [lettura] non sarebbe della stessa Camera»(12) .

Questo, quindi, il quadro di partenza della Costituzione vigente. Ma vi erano state anche altre tesi che potevano innestarsi e far meglio fruttare tale impianto.

Dopo 66 anni di parità perfetta delle Camere in Italia (in compagnia della più grande democrazia moderna, quella statunitense; nonché della democrazia europea che ha la più antica Costituzione vigente, quella norvegese), perché non adottare quella costruzione bicamerale avanzata e moderna che in Assemblea costituente si ebbe paura di fare (e di cui pochi erano consapevoli)? Perché non superare le inerzie interessate di coloro che avevano, all'epoca, un interesse solo residuale verso una democrazia parlamentare efficiente e sensata?

La storia istituzionale italiana, che non conosce la separazione tra indirizzo legislativo ed indirizzo di governo, ha bensì ricostruito -- anche in sede dottrinale -- l'indirizzo politico come categoria che li mescola e confonde, male interpretando e male copiando l'esempio britannico. Non è questa la sede per indagare le cause di questa errata interpretazione dell'esempio britannico, né le ragioni della diversità di risultati concreti che produce quel sistema quando sia applicato in comunità politiche caratterizzate da frammentato multipartitismo(13) . Tosato affermava come -- la cosa accade fisiologicamente nelle democrazie avanzate, presidenziali o parlamentari (calzanti gli esempi statunitense e norvegese) -- l'indirizzo di governo e l'indirizzo legislativo possano essere anche differenti; prospettava che, in altre parole, si affermasse che una cosa è governare, altra cosa legiferare.

Ecco perché, nei suoi vari interventi in Costituente, Tosato mise in evidenza la necessità ed opportunità di superare la visione che del governo parlamentare (o, più specificamente, del governo di gabinetto) si era avuta (e si è continuata ad avere, fino al tempo presente) in Italia: cioè del sistema in cui il Governo -- che formalmente ha l'appoggio di una maggioranza parlamentare -- amministra e governa in nome e per conto proprio, e legifera in nome del Parlamento ma sempre per conto proprio. Per rompere questi circolo vizioso, egli prospettò la possibilità di svincolare reciprocamente la funzione legislativa dalla funzione governativa, riassegnandole a distinti poteri.

Come alcuni costituenti (Tosato, Perassi, Ruini, ed -- in parte -- Mortati) avevano saputo cogliere, il bicameralismo perfetto, senza l'Assemblea nazionale, è monco (si potrebbe forse parlare solamente di un bicameralismo legislativo perfetto). L'aver previsto la seconda Camera paritaria raggiunge il suo scopo ultimo solo se si istituisce anche l'Assemblea nazionale: la perfetta duplicazione della Camera legislativa, unita alla previsione della riunione comune per sanzionare l'indirizzo politico parlamentare, servono al fine di ottenere la separazione dei poteri e la stabilizzazione degli esecutivi. E servono anche, nella situazione politico-partitica italiana, a salvaguardare le prerogative del potere legislativo. Infatti, attualmente, non è prevista in alcuna disposizione la norma che obbliga le forze politiche a far esercitare la funzione legislativa al Governo; sono al contrario le stesse forze politiche che hanno questo costume. È quindi necessario scindere in due procedure non sovrapponibili la legislazione e la funzione di indirizzo, perché le forze politiche non possano più legiferare passando sotto le -- pur volontarie -- forche caudine della questione di fiducia.

In sintonia con questa intuizione norvegese(14) ebbe modo di esprimersi Cheli nel suo intervento «Parlamento e Governo, le riforme possibili ed utili» del 1982: «Si potrebbe riferire al Parlamento in seduta comune anziché alle Camere separate l'esercizio del controllo politico espresso attraverso la fiducia e la sfiducia»(15) . Ad analoga conclusione arrivarono sia la Commissione Bozzi della IX legislatura(16) , sia la Commissione De Mita -- Iotti della XI legislatura(17) .

Se, invece, come è nella situazione attuale (ma si potrebbe dire -- generalizzando -- repubblicana ed unitaria), la maggioranza parlamentare deve approvare proposte che non condivide sottoposte dal suo Governo, ciò significa che sostanzialmente (se non, anche formalmente) il Potere esecutivo determina l'univoco indirizzo politico di entrambi i poteri. Le Camere sono rese schiave nell'esercizio della loro precipua funzione, proprio perché si è pensato che il loro essere padrone del nesso fiduciario dovesse essere ribadito e suggellato su ogni puntuale progetto di legge. È la loro individuale funzione di organi politici ad imbrigliarne la funzione legislativa. La lettura del testo dell'articolo 94, quarto comma, della Costituzione non può smentire queste considerazioni, laddove esso si premura di escludere un obbligo di dimissioni del Governo in caso di voto contrario di uno o di entrambi i rami del Parlamento, e non di prevenire un uso ricattatorio delle minacciate dimissioni da parte del Governo stesso. Ciò si è potuto pacificamente constatare lungo buona parte della vita unitaria dello Stato italiano, in presenza di un quadro partitico frammentato e della necessità di governi di coalizione.

L'asservimento all'Esecutivo del Parlamento mediante il «ricatto» della questione di fiducia -- con cui viene agitata la minaccia dell'arma «fine-di-mondo» (che manda tutti i parlamentari a casa, se non si è pronti con un governo alternativo) -- è difetto comune alle democrazie continentali, tanto che la Costituzione gollista pensò di riconoscerlo consacrandolo con il tremendo terzo comma dell'articolo 49(18) e con la riserva di regolamento del Governo(19) . Da noi, invece, emendamenti-monstre del Governo -- aventi la peculiarità di essere partoriti dalla testa di Zeus direttamente in Aula -- rappresentano una smentita, sempre più frequente, al modello tradizionale del Governo come mero esecutore della legislazione (oltre che responsabile di un esercizio discrezionale del potere di normazione secondarie e dell'amministrazione). Sul fatto che non tutto sia indirizzo politico, che non tutto legittimi la chiamata a raccolta della maggioranza, non possono più nutrirsi dubbi: la deleteria prassi del primo cinquantennio di storia repubblicana è stata addirittura esaltata nella cosiddetta seconda Repubblica, in cui maxiemendamenti proposti in Assemblea e votati uno actu con la questione di fiducia sono stati veri e propri terremoti, cui la legislazione di settore è periodicamente assoggettata. La Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 32 del 2014 sulle tossicodipendenze, proprio alla luce di quanto accaduto nel caso di specie(20) in Parlamento ha riscontrato diversi profili di vizio in procedendo: il bene giuridico tutelato è stato individuato nel mantenere «entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa» (cui per la Corte è volto il rispetto del requisito dell'omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di conversione ex articolo 77, secondo comma, della Costituzione)(21) .

Dato questo quadro, si evidenzia come assolutamente non secondario il fatto che separando la funzione politica dalla funzione legislativa, si attribuisce il corretto significato giuridico all'atto «legge», nonché si dà una qualche concretezza alla gerarchia delle fonti che vive esclusivamente nell'empireo dei manuali. Infatti, all'assenza di autonomia decisionale del Parlamento corrisponde, non solo un’usurpazione della funzione legislativa da parte del potere esecutivo, ma anche, cosa forse ancor più grave, un uso della forma legislativa per lo svolgimento delle funzioni proprie del Governo.

Dietro il formale ossequio al parlamentarismo, si nascondono commistioni tra potentati amministrativi ed economici coltivate all'ombra dell'Esecutivo; essi sono portati a sostenere il feticcio della supremazia della legge solo per eludere l'obbligo di trasparenza che, nell'imputazione della responsabilità decisionale, dovrebbe indicare agli elettori il vero autore delle scelte che li riguardano. Un Parlamento ridotto a sede del lodo tra burocrazie ministeriali, l'una contro l'altra armata, non esalta il suo ruolo, ma lo comprime col rendersi strumento del disfacimento notturno della tela di Penelope delle competenze amministrative: nella sentenza sull'ILVA (n. 85 del 2013) la Corte costituzionale ha ricordato che la legge-provvedimento da noi non è vietata, ma certo essa sollecita un sovrappiù di cautela perché si presta a dilatare oltremisura la stessa configurazione dell'assetto dei poteri costituzionali.

A risentire dell'alterazione di questa «cornice istituzionale» è stato soprattutto il sistema politico, al quale l'elettorato ha iniziato a guardare come dotato di sempre minore presa sui processi decisionali pubblici, frutto di intese sempre più opache quando non di gestioni del tutto privatistiche. Come è stato scritto nella relazione del disegno di legge atto Senato n. 2818 della XVI legislatura, «per aprire la politica al giudizio dell'opinione pubblica, va garantita la premessa della piena trasparenza dei comportamenti assunti dal singolo parlamentare. La salvaguardia del sistema parlamentare dal plebiscitarismo -- che per quindici anni ha rivendicato una primazia costituzionale del premier di fatto eletto dal popolo, primazia clamorosamente bocciata nel referendum del 12 e 13 giugno 2011 -- passa anche e forse soprattutto per un recupero di dignità della rappresentanza del popolo»(22) .

I partiti politici italiani, cioè la società politica che li esprime, devono incominciare a muoversi diversamente a seconda della sede istituzionale che occupano i loro componenti. Non si tratta di formalismi e finzioni del diritto costituzionale, si tratta di capisaldi di ogni forma istituzionale che voglia definirsi liberaldemocratica.

Con la modificazione norvegese adombrata (che ha evidenti ricadute coercitive nelle pratiche di comportamento dei partiti politici), si potrebbe integrare la disciplina costituzionale in modo da consentire che si formino e permangano anche Governi che non hanno la fiducia in entrambe le Camere, senza intaccare la parità tra di esse nella competenza legislativa e nel rapporto fiduciario, salva la differente consistenza numerica della Camera dei deputati, che potrebbe portare ad una prevalenza politica di fatto della stessa (cosa che potrebbe essere superata riducendo e parificando il numero sia dei deputati sia dei senatori(23) , parificandone così in ogni senso l'influenza politica).

A questo proposito, Amato parlò, il 16 ottobre 1982, di una suddivisione «in numero pari, ad esempio 400, fra le due Camere», nel suo intervento «Ragioni e temi della riforma istituzionale» al seminario a porte chiuse sulle riforme istituzionali di Trevi (organizzato da Luigi Covatta, per conto della Direzione del Partito socialista, per predisporre il «Progetto socialista»)(24) . In questo disegno di legge si propone, piuttosto, un numero pari di trecento membri per ramo(25) .

Indubbiamente vi sarebbe il pregio assoluto di non consentire ad un Governo che abbia una solida maggioranza in una Camera di cadere per un colpo di mano di un pugno di parlamentari nell'altra, senza che la prima possa intervenire in alcun modo (cosa che urta, appunto, contro la perfezione del bicameralismo).

Prima di illustrare brevemente anche alcune altre modalità per rendere non sovrapponibili la normazione e la funzione di indirizzo (oltre quella norvegese), ed a latere della questione Parlamento monocamerale/bicamerale e Parlamento bicamerale perfetto/imperfetto, voglio mettere questo tema a sistema con i temi dei due precedenti punti.

Le ragioni di formalità democratica dei rapporti tra poteri, di limpidezza della gerarchia delle fonti, sono state abbozzate. Si potrebbe dire -- ed infatti viene reiterato da decenni oramai nel nostro sistema culturale -- che queste sono appunto ragioni di forma, mentre nella sostanza un gruppo politico che vinca le elezioni (e che le leggi elettorali devono mettere in condizioni di vincere quasi meccanicamente) deve realizzare il suo programma per leggi.

Prima obiezione: così non è nelle democrazie consolidate, nord europee e statunitensi. Lì vi sono prevalentemente governi di minoranza, ovvero comunque governi che non possono formalmente imporre la loro legislazione al Parlamento (includendo in questa definizione il caso dei governi di grande coalizione tedeschi, ed il governo di gabinetto britannico(26) ).

Seconda obiezione: se si rivendica una peculiarità italiana, secondo la quale tutto deve passare per una ratifica legislativa, a questo punto, perché non formalizzare la cosa. Ne nascerebbe un solo Potere che governa ed amministra legiferando.

Il filo rosso che tiene insieme la necessità dell’introduzione della separazione dei poteri con i precedenti temi del superamento della legislazione regionale e dell’introduzione della democrazia interna ai partiti, è chiaramente quello della deontologia politica(27) . Alcune brevi considerazione per sostanziare, se mai ce ne fosse bisogno.

I poteri economici privati tutelano meglio le loro esigenze, quando esse non fossero rappresentabili pubblicamente perché non in sintonia con la concorrenza di un mercato aperto, nell'ombra dei vari dicasteri, obbligando poi il Parlamento a ratificare. Quindi un solo un organo che assommi in sé Esecutivo e Legislativo è quell'oscuro oggetto dei desideri inconfessabili di chi non pratica la deontologia economica né quella politica. Il Parlamento democratico, secondo questa visione, è una forzatura innaturale (come una Autorità antitrust), perché introduce la liberaldemocrazia, secondo la quale la composizione degli interessi deve avvenire in base a scelte di valori prevalenti nel sentire della società, e non sulla base della forza bruta come succede nello stato di natura precedente la comunità politica. La liberaldemocrazia si fonda sulla separazione/controllo/collaborazione tra poteri, e sulla legittimazione dell'Assemblea legislativa attraverso la rappresentanza politica sanzionata dalle elezioni. Ma in Italia dal 1848 ad oggi vi è però solo il Governo (prima del Re poi dei vertici dei partiti) che di fatto esercita tutto il potere. Questa naturale avversione delle forze economiche che si muovono in maniera coperta si incontra con la mentalità -- non democratica al loro interno -- dei partiti, che sono retti da oligarchie che si succedono per annessioni/scomposizioni/scalate, e non su proposte politiche sensibilmente differenti.

Può facilmente osservarsi come i temi ed alcune proposte discusse in periodo costituente fossero assai più avanzate rispetto a più punti delle prospettazioni contemporanee in tema di riforme costituzionali. Questo vale anche per il tema della differenziazione per materie entro il bicameralismo. Se il Costituente non ha ritenuto di prendere in considerazione questa strada, non è stato perché non lo avrebbe potuto e saputo fare. A dimostrazione di ciò, quando si pose il problema della divisione per materie tra legge statale e legge regionale, lo seppe fare sicuramente assai meglio del legislatore costituzionale del 2001. E proprio dalla difficoltosa prassi attuativa, sanzionata da una fitta giurisprudenza della Corte costituzionale, dovrebbero emergere chiare ragioni per avere forti remore a percorrere analoghi sentieri riguardo ai due rami del Parlamento, sempre che si voglia lasciare in essere un Parlamento bicamerale «vero e proprio» (come definito da Mortati, supra). Ed infatti, sia per l'ipotesi norvegese, sia per altre due varianti, il presupposto è non differenziare per materie la competenza paritaria tra Camere nella legislazione. L'ultimo sistema è prettamente monocamerale.

Queste, quindi, le modalità istituzionali per rendere scindere la normazione e la funzione di indirizzo:

a) esempio norvegese, migliorato secondo la proposta Tosato, con due Camere che legiferano separatamente ed alla pari, ed esprimono l'indirizzo politico esclusivamente in sede congiunta;

b) primo esempio derivato dagli Stati Uniti d'America (USA), innestato nella forma di governo parlamentare secondo la proposta Mortati, con due Camere che legiferano separatamente ed alla pari, ed esprimono l'indirizzo politico esclusivamente in sede congiunta ma con la durata fissa del Governo investito della fiducia;

c) secondo esempio derivato dal bicameralismo perfetto USA, innestato nella forma di governo parlamentare, con due Camera che legiferano separatamente ed alla pari, e con una sola di esse che esprime l'indirizzo politico;

d) terzo esempio derivato dalla rigidezza della durata del governo USA, innestato nella forma di governo parlamentare, con una sola Camera che legifera e che esprime l'indirizzo politico, ma con la durata fissa del Governo investito della fiducia.

Quando in dottrina si vuole denigrare il bicameralismo perfetto italiano non si parla degli USA, ma si associa l'Italia alla Romania (che evidentemente è giudicata di minor lignaggio sia rispetto agli USA, sia rispetto alla Norvegia). Vorrei liquidare con non più che una battuta la questione rumena. In Romania c'è attualmente il bicameralismo perfetto; ma è anche vero che in questi ultimi anni in quel Paese si è, dapprima, lasciato il bicameralismo perfetto, e poi vi si è tornati. Perché si è tornati al bicameralismo perfetto non viene detto. Quindi, certi paragoni demolitori vanno anche saputi fare.

Merita poi riportare che nel 2009, in Norvegia, si è passati, dopo 195 anni di nascosto bicameralismo meno che perfetto, ad un monocameralismo rafforzato(28) . Si è cioè comunque mantenuta la necessità di una doppia pronuncia sull'identico testo, distanziata da un tempo minimo prefissato. A questo punto, la domanda che potrebbe porsi è: ma perché farlo fare alla stessa persona, e non ad un'altra, ancorché eletta e legittimata nella stessa maniera? Sarebbe comunque una testa diversa. Abbiamo già visto la risposta di Ruini (supra).

E siamo finalmente al più antico e vigente bicameralismo perfetto. Perché gli USA vengono sempre volutamente dimenticati? Le banali scuse sono due: è una democrazia presidenziale, è uno stato federale.

Non viene detto però che la seconda Camera non ha alcun legame «organico» con gli stati federati, né per derivazione né per elezione di secondo grado, bensì viene eletta dallo stesso Corpo elettorale (!) che elegge la Camera bassa e con il medesimo sistema elettorale (inclusa la formula!). Né viene detto che la perfezione USA risiede proprio nel campo della funzione legislativa (che viene messa in discussione in Italia, insieme alla funzione di indirizzo). Né -- ancora -- viene detto che, nel campo del controllo politico, il Senato USA ha poteri che non ha la Camera bassa (per cui, complessivamente, si può parlare di bicameralismo più che perfetto). Donde, questo richiamo agli USA è assai opportuno, e potrebbe anzi giustificare che in Italia l'indirizzo lo esprima esclusivamente il Senato (questi profili erano emersi anche nei lavori della Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, presso il Ministero per la Costituente, del 1945-1946).

Data l'impostazione del Costituente a proposito del ruolo delle comunità regionali, che abbiamo visto all'inizio della disamina, non sarebbe il caso di sviluppare quella traccia dell'esempio USA per la formazione della seconda Camera. Essa è presente infatti nella locuzione «base regionale» di cui all'articolo 57, primo comma, della Costituzione(29) : potrebbe essere sviluppata a pieno rimanendo in una composizione a suffragio diretto (salvi eventualmente i senatori a vita), ma con una distribuzione pari del numero dei seggi assegnati alle circoscrizioni regionali. Ovviamente, in questa ottica, si potrebbero contestualmente correggere le ragioni di più macroscopica sovrarappresentazione di più piccole comunità, accorpando alcune realtà regionali(30) .

Ed ora alcune brevi illustrazioni sull'articolato seguente.

Nell'ottica di valorizzare complessivamente la democrazia costituzionale (entro i partiti e nel rapporto tra i poteri), si propone di contenere gli strumenti che in questi decenni hanno prestato maggiormente il fianco alle spinte della demagogia e del plebiscitarismo (entrambi incompatibili con la democrazia). Questa la ragione per l'innalzamento del numero di firme necessarie a proporre referendum abrogativi. Poi, il divieto espresso di incisione sulla normativa elettorale, oltre che per le stesse ragioni, è volto anche a sanare una forzatura che venne perpetrata in sede di coordinamento formale del testo approvato in Costituente. Infatti un analogo espresso divieto di sottoposizione a referendum abrogativi era presente nel testo approvato dall'Assemblea Costituente.

È proposta un’uniformazione dell'elettorato attivo e passivo per le due Camere. Più un sistema per la formazione delle Camere, e cioè il voto unico per entrambe(31) . In connessione a ciò, si prevede poi il superamento dello scioglimento anticipato limitatamente ad una sola Camera.

Date le nuove funzioni del Parlamento in seduta comune, si prevedono più chiaramente anche le sue capacità regolamentari.

La normazione di primo grado consentita al Governo viene meglio precisata e regolata, alla stregua dei princìpi affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

La legislazione regionale viene significativamente ridotta; viene fissato il numero dei componenti delle rispettive assemblee regionali; viene consentito solo ai comuni, e non più alle regioni, la possibilità di ricorso all'indebitamento (solo per finanziare spese di investimento).

Infine sul funzionamento della questione di fiducia, secondo i proposti commi aggiunti all'articolo 94 della Costituzione.

Il nuovo quarto comma codifica dei limiti alla posizione della questione di fiducia, che sono presenti, ancorché impliciti, nella forma costituzionale vigente.

I commi quarto e sesto formalizzano in Costituzione la consuetudine (rectius convenzione) circa l'approvazione delle questioni di fiducia poste dal Governo, ne correggono l'uso distorto e ne coordinano la procedura con le mozioni (di fiducia o sfiducia, salve le sottoscrizioni necessarie per quest'ultima). Nell'attuale sistema, può accadere che la questione di fiducia sul medesimo progetto di legge non sia (stata) posta nell'altra Camera, perché non è detto che il progetto di legge incontri le stesse difficoltà nell'iter, ovvero che sia necessario rispettare particolari scadenze od impegni. Ma accade anche che la questione di fiducia sia lo strumento con il quale l'Esecutivo si appropria in via esclusiva della funzione legislativa (contro la quale spoliazione Tosato ammonì la Costituente(32) ). Per condurre a fisiologia tale uso, si propone la presunzione della fiducia nell'altro ramo e comunque la discussione e votazione del legame fiduciario nella riunione comune, sede altra rispetto a quella deputata alla legislazione.

In questa maniera si introduce il primo e forse più significativo elemento di separazione dei poteri. Il Governo non potrà più avvalersi della questione di fiducia per portare ad approvazione definitiva un progetto di legge che propone. La sede della conferma della fiducia non avrà alcun effetto sull'iter legislativo di quello specifico progetto di legge. Ciò porterà ricadute positive sulla qualità della legislazione, ai fini della quale potrebbero convergere maggioranze diverse da quella che sostiene il Governo in carica, secondo il merito dei provvedimenti all'esame e quindi secondo una più serena valutazione tecnica (che è politica) della normativa prodotta. Quindi, nel settimo comma, si stabilisce il principio che la presunzione della fiducia, concessa dall'una Camera (approvando una mozione di fiducia, respingendone una di sfiducia, approvando una questione), possa essere superata nell'altra Camera solo dalla presentazione in quest'ultima di analoga mozione o questione, che attivano il Parlamento in seduta comune.

L’ottavo comma prevede tale seconda riunione come automatica nel caso di voto di sfiducia su una questione o mozione (sia essa di fiducia o di sfiducia). La prevede anche nel caso di presentazione del Governo in seguito alla sua formazione, ma posticipandola al pronunciamento di entrambe le Camere separatamente, e vincolandola solo al caso in cui una di esse abbia negato la fiducia. Anche nel caso in cui il Governo abbia posta la questione di fiducia su un progetto di legge in discussione in un ramo del Parlamento, e questo l'abbia respinta, l'appello automatico e necessario sarà solo nella sede comune e, quindi, sempre senza alcun legame con la funzione legislativa che le Camere esercitano separatamente.

Pertanto, separando il corso dell'iter legislativo dalla sussistenza del vincolo fiduciario, se ne ottiene un Governo che non costringe le Camere ad approvare i suoi progetti di legge; ma ne viene fuori anche un Governo che non può più dimettersi appena li veda respinti con la motivazione della sfiducia pronunciata, essendo l'attivazione delle Camere riunite una procedura obbligatoria. Se infatti si consideri che, come è presumibile aspettarsi, l'intervento delle Camere riunite confermerebbe la fiducia assai più di frequente di quanto non la negherebbe (salvo dissidi fondamentali ed insanabili esplosi all'interno della maggioranza di governo(33) ), il Governo sarebbe di fatto inchiodato a tutta la sua responsabilità di governare ed amministrare; attività da cui potrebbe emergere anche un autonomo profilo politico.

Ciò costituirebbe il massimo della separazione possibile congiunto con il massimo della stabilizzazione possibile, entro il governo parlamentare. A differenza dell'esempio statunitense (in cui l'indirizzo di governo e l'indirizzo legislativo costituiscono essi stessi due separati indirizzi politici), e diversamente dall'esempio norvegese (dove l'indirizzo legislativo non è separato dall'indirizzo politico parlamentare, essendo espressi entrambi dal Parlamento riunito), in Italia, determinandosi a Camere separate l'indirizzo legislativo, ed esprimendosi invece a Camere riunite l'indirizzo politico parlamentare, non vi sarebbe stretta e necessaria coincidenza tra quest'ultimo e la legislazione.

Per tale ragione, ipotizzando una comparazione che non fu, o almeno che non fu manifestata, Tosato avrebbe potuto sostenere che tale istituto poteva funzionare anche meglio che in Norvegia. Anche se in tal modo verrebbe a mancare l'arma di ricatto delle dimissioni, esercitato del Governo sulla legislazione (che può indirettamente spingere il Capo dello Stato ad uno scioglimento anticipato), rimarrebbe comunque in piedi la possibilità per il Parlamento di sostituire un ministero la cui autonomia di indirizzo si spingesse troppo oltre i confini tracciati dal rapporto fiduciario.

Siamo, quindi, ad una rilettura della categoria di indirizzo politico: stante la possibile compresenza di due diversi indirizzi politici, l'affermazione della prevalenza di quello parlamentare sarebbe sempre nella piena disponibilità del Parlamento (cioè delle forze politiche in Parlamento). Sarebbe il Parlamento libero di valutare:

1. se sanzionare, ed in che misura, la divergenza tra il suo indirizzo legislativo e l'indirizzo esecutivo del Governo;

ovvero

2. se considerare tale divergenza tollerabile, nel caso che già il suo indirizzo politico sia -- su punti specifici -- differente dalla legislazione via via prodotta (e magari così aderendo all'indirizzo politico governativo);

ovvero

3. se sanzionare, ed in che misura, la divergenza tra l'indirizzo politico parlamentare (non coincidente con quello legislativo) e l'indirizzo politico governativo.

E non sarebbe certo lecito osservare che così si obbligano il Governo ed i suoi ministri a rimanere in carica con un Parlamento ostile politicamente, perché tale obiezione meriterebbe tutte queste risposte:

1. la fiducia del Parlamento è comunque confermata e sancita;

2. la legislazione non è materia precipua del Governo;

3. perché non si è tentati di fare analoga osservazione quando si considerino gli esecutivi statunitensi, elvetici, francesi (in coabitazione), e tutti i frequenti esecutivi di minoranza delle mature democrazie nord-europee? Tutti quegli esecutivi governano pur non determinando la legislazione.

Riprendendo l'articolato proposto dal punto di vista del rapporto di fiducia, la vecchia e la nuova procedura si integrerebbero a vicenda nella seguente maniera.

Nel caso di formazione di un Governo (anche in seguito a nuove elezioni), si potrebbero avere le seguenti varianti:

a) esso riceve la fiducia da entrambe le Camere separatamente (secondo il terzo comma dell'articolo 94 della Costituzione);

ovvero

b) la fiducia viene negata da entrambe le Camere (nulla quaestio, il Governo non nasce, secondo i commi primo e secondo dell'articolo 94 della Costituzione, integrati con l’ottavo comma, secondo periodo, che introduce la votazione necessaria di una Camera anche quando l'altra ha già negato la fiducia);

ovvero

c) la fiducia è negata da una Camera ed accordata dall'altra; l'ultima parola spetta al Parlamento in seduta comune.

Nel corso poi della normale vita istituzionale del Governo, funzionerebbero in prima battuta i commi secondo e sesto dell'articolo 94 della Costituzione, per cui potrebbe essere presentata in una Camera una mozione motivata di sfiducia (firmata da un decimo dei componenti di essa), discussa e votata nei tempi e nei modi prescritti. Se fosse approvata, invece della crisi, si avrebbe automaticamente, il terzo giorno successivo al voto di sfiducia, la seduta del Parlamento a Camere riunite (secondo l’ottavo comma, primo periodo). Ed in quella sede sarebbe detta sempre l'ultima parola sulle sorti del Governo. Stessa cosa succederebbe se una Camera negasse l'approvazione di una mozione o questione di fiducia.

Quindi, depositarie del vincolo fiduciario resterebbero sempre entrambe le Camere separatamente, nella misura in cui entrambe potrebbero approvare per prime una mozione di sfiducia (ovvero respingere una mozione o questione di fiducia) nella vecchia maniera; dopo di che si attiverebbe la nuova procedura; ma con la significativa differenza che nessuna delle due Camere sarebbe l'arbitra sola e decisiva (come è ora) della permanenza in vita del Governo in carica o della legittimazione di un Governo appena formato. Solo nel caso di presentazione alle Camere di un Governo neoformato, e solo nella iniziale fase di investitura, si avrebbe la necessità del voto separato delle due Camere, non valendo la presunzione di fiducia.

Una chiosa finale merita il nono comma. Intanto va da sé che una questione di fiducia prevarrebbe su eventuali precedenti mozioni ancora da discutere (anche nell'altra Camera), e che il Governo non potrebbe mai vedersi votata la stessa questione nelle due Camere. Stabilita quindi una procedura così gravida di conseguenze (per il fatto che alla Camera che arrivi per seconda si preclude la possibilità di pronunciarsi autonomamente, se non nel caso della presentazione del Governo appena formatosi), è assai delicato stabilire come procedere quando siano compresenti più mozioni di fiducia/sfiducia nei due rami del Parlamento, per evitare attriti tra di essi. E la residuale decisione a maggioranza nella riunione tra i due Presidenti ed i corrispondenti Vicepresidenti, serve proprio a fornire un criterio risolutivo efficiente e collegiale.

Si vuole concludere questa relazione rivolgendo un invito ai parlamentari tutti. Sentano la responsabilità delle loro scelte e decisioni. Pensino con coscienza alla qualità e funzionalità della democrazia.

Un ulteriore invito è rivolto agli onorevoli deputati: sentano ancora di più tale responsabilità, non assecondando scelte di altri, preconfezionate con la esclusiva ragione di eludere tutte le questioni sostanziali (costituzionali, politiche, economiche e sociali) che si sono, solo parzialmente, provate ad accennare, e che sono decisive per le sorti del Paese.

Non pensino che la potatura di un ramo del Parlamento, l'altro ramo sia salvo. Nonpensino che con questa amputazione possano essere tenuti indenni dalla cieca demagogia per oltre una decina di giorni.

Non pensino che questa amputazione sia un miglioramento della democrazia parlamentare. Siano invece certi che questo è solo il primo passo per un’aggressione alla forma della democrazia parlamentare (che pure abbiamo visto essere stata abbastanza vuota dal 1848 sino ad ora), per scongiurare in maniera assoluta ed irreversibile che nel futuro tale forma possa essere riempita di contenuti analoghi a quelli di questo modesto disegno di legge.

1) L. Covatta, La riforma del Senato nella lunga transizione italiana, in V. Casamassima, A. Frangioni, Parlamento e storia d’Italia, Edizioni della Normale, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2012.

2) Seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente del 18 settembre 1947.

3) Si è, in questo modo, lontani anni luce dell’autogoverno delle realtà territoriali più diretta espressione delle comunità, praticata nella più antica democrazia, quella britannica; mimata dalla dottrina europea con il concetto di sussidiarietà, successivamente storpiato dal provincialismo italiano per legittimare l’ipertrofia regionale.

4) Per indicazioni bibliografiche e, soprattutto, archivistiche rinvio a D. Argondizzo, 1945-1947. Il bicameralismo in Italia tra due modelli mancati: Congresso Usa e Stortinget, Quaderni della Rivista Il Politico, n. 59, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.

5) Devono essere effettivamente retti democraticamente i partiti?, inedito.

6) Per come questa realtà, nell’esperienza italiana unitaria (a partire da quella monarchica), abbia svuotato sostanzialmente la separazione dei poteri, rinvio alle parole di Tosato e Mortati. Essi parlarono espressamente di «confusione» dei poteri: Tosato nella seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente del 19 settembre 1947; Mortati nel 1949, in Sulla funzionalità delle Istituzioni rappresentative, in «Cronache sociali», 1949, n. 21 (anche in «Problemi di politica costituzionale - Raccolta di scritti», Milano, Giuffrè, 1972, v. IV).

7) Testo così integrato, sulla base della versione definitiva pubblicata: Ministero per la Costituente - Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (a cura), Relazione all’Assemblea Costituente, Roma, Stabilimento tipografico Failli, 1946, pp. 136-137.

8) Come sosteneva Lavagna, commentando l’articolo 47 del Progetto di Costituzione, nel suo Alcune impressioni e proposte sulla «Forma di Governo», in «Annuario di Diritto comparato e studi legislativi», 1947, XXIV, pag. 9 e ss.. L’Autore affermava in particolare che vi dovesse essere un «controllo statale sulle procedure interne, nonché sulle fonti di finanziamento» (cfr. E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti, Edizioni di Comunità, Milano, 1982, pag. 279, nota n. 55). Lo stesso strumento di massimo rango legislativo era utilizzato dal progetto del Gruppo di Milano (Galeotti, 1983) e da quello della stessa Commissione Bozzi nel gennaio 1985. Per la sufficienza di un disegno di legge ordinaria, invece, v. lo storico disegno di legge di Sturzo (n. 124 della III legislatura), nonché i progetti di Valdo Spini nel 1992 e di Claudia Mancina nel 1998.

9) G. Buonomo, Elementi di deontologia politica, in «Nuovi studi politici», aprile-settembre 2000.

10) C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, ed. II, Padova, CEDAM, 1952, p. 231.

11) Anche se le tre letture interne, frequenti nei sistemi nordici, quasi mai richiedono l’approvazione ripetuta dell’identico testo. Analogamente accadeva per le tre letture di epoca statutaria italiana.

12) M. Ruini, Il Parlamento e la sua riforma. La Costituzione nella sua applicazione, in «I Quaderni della Costituzione», Milano, Giuffrè, 1952, pp. 39, 87.

13) Tosato e Mortati accennarono a ciò: Tosato nella relazione «Sul Capo dello Stato e sul Governo» (consegnata il 7 febbraio 1947 alla II Sottocommissione (Commissione per la Costituzione), che non venne mai pubblicata nella serie degli Atti dell’Assemblea Costituente, ma che è reperibile fra le carte dell’Archivio Storico della Camera dei deputati) e nella seduta pomeridiana del 19 settembre 1947; Mortati nella seduta della II Sottocommissione del 3 settembre 1946.

14) Addirittura l’epos omerico, secondo documentate ricerche, è costituito da tradizioni orali appartenenti a popolazioni che vivevano nel Baltico tra il 2500 ed il 2200 a.C., migrate fino alla penisola greca per il raffreddamento di quell’area del nord Europa, ed avendo esse anche ribattezzato il nuovo mondo secondo la loro toponomastica originaria (F. Vinci, Omero nel Baltico, Roma, Palombi Editori, 2012). Quindi, date le assai più contenute proporzioni del nostro piccolo caso del 1946, non si vuole vedere, in questa piccola rivelazione, alcuna ragione di imbarazzo culturale.

15) Governare il cambiamento, Atti della conferenza programmatica del PSI (Rimini, 31 marzo - 4 aprile 1982), in Quaderni de «Il Compagno», Roma 1982; poi in G. Acquaviva, L. Covatta, La «grande riforma» di Craxi, Marsilio, Venezia, 2010, p. 229.

16) Nella relazione conclusiva presentata il 29 gennaio 1985.

17) Nella relazione conclusiva presentata l’11 gennaio 1994.

18) La disposizione che consente al governo di far passare le sue proposte di legge senza voto, a meno che non venga approvata una mozione di sfiducia, trova invero un’eco non lontana nell’ultimo comma dell’articolo 72 della proposta 12 marzo 2014 apparsa sul sito Governo.it, laddove si legge che «Il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta ovvero entro un termine inferiore determinato in base al regolamento tenuto conto della complessità della materia. Decorso il termine, il testo proposto o accolto dal Governo, su sua richiesta, è posto in votazione, senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale.».

19) A dire il vero anche la «riserva di regolamento» è stata negli ultimi tempi reinterpretata dal Conseil Constitutionnel, che ha ammesso moderate forme di straripamento della fonte legislativa nell’amministrativo: ma in quell’ordinamento gli interna corporis non rappresentano affatto un ostacolo al sindacato di legittimità anche procedurale sugli atti che si compiono in Parlamento, traguardo cui solo recentissimamente è addivenuta la Corte costituzionale italiana con esclusivo riferimento alla legge di conversione dei decreti-legge. Agire «a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare» è, per la Corte costituzionale nella sentenza n. 32 del 2014, un disvalore che – in rapporto ad un disegno di legge a competenza tipica come la legge di conversione – determina un vizio della legge di conversione in parte qua, in caso di «inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo».

20) «Un intervento normativo di simile rilievo (…) ha finito, invece, per essere frettolosamente inserito in un “maxi-emendamento” del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno di legge di conversione, presentato direttamente nell’Assemblea del Senato e su cui il Governo medesimo ha posto la questione di fiducia (nella seduta del 25 gennaio 2006), così precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta. Inoltre, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, è stato anche impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo, dal momento che all’oggetto della questione di fiducia, non possono essere riferiti emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi e che su tale oggetto è altresì vietata la votazione per parti separate. Né la seconda e definitiva lettura presso l’altro ramo del Parlamento ha consentito successivamente di rimediare a questa mancanza, visto che anche in quel caso il Governo ha posto, nella seduta del 6 febbraio 2006, la questione di fiducia sul testo approvato dal Senato, obbligando così l’Assemblea della Camera a votarlo “in blocco”. Va inoltre osservato che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l’esame referente richiesto dal primo comma dell’art. 72 Cost.. Per di più, l’imminente fine della legislatura (…) e l’assoluta urgenza di convertire alcune delle disposizioni contenute nel decreto-legge originario, tra cui quelle riguardanti la sicurezza e il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, impedivano di fatto allo stesso Presidente della Repubblica di fare uso della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., non disponendo, tra l’altro, di un potere di rinvio parziale» (corsivi aggiunti).

21) In questo senso sono, infatti, i rilievi contenuti nei ripetuti interventi da parte del Presidente della Repubblica – lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell’iter parlamentare di conversione in legge del decreto-legge cosiddetto «salva Roma» (decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126); lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; lettera inviata il 22 febbraio 2011 ai Presidenti del Senato e della Camera; messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) – e, recentemente, anche da parte del Presidente del Senato (comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013), interventi tutti volti a segnalare l’abuso dell’istituto del decreto-legge e, in particolare, l’uso improprio dello strumento della legge di conversione, in violazione dell’articolo 77, secondo comma, della Costituzione.

22) Norme contro il conflitto di interessi dei parlamentari, di iniziativa del senatori Follini ed Agostini. In realtà, la più forte affermazione della necessità di salvaguardare l’equilibrio dei poteri in questo ambito è giunta – non a caso – per via giurisdizionale: consapevole che per la via immunitaria può passare un surrettizio mutamento dei rapporti anche tra poteri legislativo ed esecutivo, la Corte, nella sentenza n. 23 del 2011, ha rintuzzato l'argomentazione dell'Avvocatura generale dello Stato e della parte privata, secondo cui alla carica del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe oltretutto da riconoscere una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo». I giudici di palazzo della Consulta hanno infatti ricordato che «la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il "capo della forza politica" o il "capo della coalizione", non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione costituzionale di quest’ultimo». Anche politicamente, chi ha voluto «leggere» il crocesegno nel rettangolo coalizionale della scheda elettorale come un’investitura diretta e personale del premier (ovvero quello sul contrassegno recante il suo nominativo), è dovuto scendere a patti con l’ineliminabile dato normativo dell’articolo 68 della Costituzione, che – sulla veste di parlamentare, e su essa soltanto – incentra lo scudo dalla più invasiva conseguenza dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, ovvero l’irrogazione di misure cautelari che si rivelino limitative della libertà personale del titolare di cariche pubbliche elettive. La consacrazione del cosiddetto «sistema Westminster» nel nostro ordinamento si è risolta nella sua negazione: la legge elettorale del 2005, in astratto, ha consentito l’indicazione come candidato premier, ad opera di uno degli schieramenti coalizionali, anche di un cittadino che non si candidasse al Parlamento (cosa che sarebbe impensabile nella patria del parlamentarismo). L’eccezione del 2013 confermava la regola, trattandosi di un senatore a vita.

23) Con conseguente ridisegno di circoscrizioni/collegi nelle leggi elettorali.

24) G. Acquaviva, L. Covatta, La «grande riforma» di Craxi, cit., p. 265.

25) Tale riduzione-parificazione potrebbe essere vista con favore anche perché, ottenendosi comunque un considerevole risparmio, consentirebbe di bilanciare la significativa diminuzione dei deputati con una assai minore diminuzione del numero dei senatori. L’emiciclo dell’Aula di Palazzo Montecitorio potrebbe utilmente accogliere le sedute dell’Assemblea nazionale.

26) Anche in questi due casi, infatti, per via della tenuta democratica interna dei partiti, sono gli accordi tra i gruppi parlamentari che indirizzano l’operato dei governi. In Italia questo non è mai avvenuto, o è stata solo una parvenza.

27) Tutti questi strumenti normativi chiaramente operano solo sul piano della governance, laddove il problema sottostante è quello della deontologia politica, cioè quello del sostrato politico-sociale-culturale. Va però ribadito che anche la reiterazione di comportamenti coartati dalle norme giuridiche può favorire la creazione graduale di un costume, come venne sostenuto più volte in Costituente, anche da Mortati.

28) Per cui si rinvia ad altra sede.

29) D. Argondizzo, Il sistema elettorale del Senato italiano nel dibattito all’Assemblea Costituente, in «Quaderni dell’Osservatorio Elettorale», Regione Toscana - Giunta Regionale, n. 62, 2009; anche in «Astrid Rassegna», n. 114 (9/2010).

30) Ad esempio, fondendo insieme Valle d’Aosta e Piemonte, e Abruzzo e Molise.

31) Unificando non semplicemente il sistema di elezione (formula elettorale, numero di candidati per circoscrizioni/collegi), bensì proprio l’elezione, al fine di rendere impossibile la diversità di maggioranze. Abbinando le liste/singole candidature (delle forze politiche/coalizioni) per le due Camere (vi dovrebbero essere coppie di candidati abbinate – un elemento della coppia per ogni Camera – offerte all’elettore), e prevedendo un’unica scheda (con la possibilità, o meno, della/e preferenza/e per ciascuna di esse, nel caso di liste), si rende materialmente impossibile il panachage.
La scelta della formula elettorale può avere sensibili conseguenze sulla certezza che il vincitore delle elezioni abbia la maggioranza assoluta dei seggi nelle due Camere. Prendendo in considerazione, come le due possibili alternative, il proporzionale corretto con premio di maggioranza e sbarramento, da una parte, e l’uninominale maggioritario (ad uno o due turni), dall’altra, come funzionerebbe l’unificazione del voto per le due Camere paritarie, a seconda del sistema prescelto? Se si adottasse il secondo, anche se le Camere avessero identica colorazione politica, appunto per l’unicità del voto, residuerebbe sempre la possibilità (nell’altalena dei risultati nei collegi uninominali disseminati sul territorio) del pareggio e della vittoria di misura con una maggioranza di seggi lontana da quella assoluta. Infatti, la vittoria sarebbe accompagnata sempre dalla maggioranza assoluta (ancorché risicata) esclusivamente nel caso in cui i competitori in tutti i collegi uninominali fossero sempre e soltanto gli stessi due. Si osservi, inoltre, che anche se si volesse applicare il premio di maggioranza (unico istituto che garantisce che vi sia sempre un vincitore della competizione elettorale) al collegio uninominale (come pure fu proposto in Italia da diversa dottrina e da numerosi esponenti politici tra il 1999 ed il 2000), si otterrebbe un risultato abnorme dal punto di vista della rappresentanza democratica, perché pensa già il collegio uninominale a cancellare le minoranze presenti nella porzione di territorio che delimita. Il proporzionale corretto (con premio di maggioranza e sbarramento) invece darebbe sempre e comunque un vincitore fornito di una congrua maggioranza assoluta dei seggi. Il problema del sistema politico-istituzionale democratico italiano è sempre stato la sua frammentazione. La legge elettorale deve impedire che formazioni che non abbiano un discreto seguito a livello nazionale esercitino un condizionamento sull’indirizzo politico (in alcune democrazie consolidate ed avanzate, come la Norvegia, lo sbarramento è previsto nella Carta costituzionale). Ovviamente, quanto detto per le regole costituzionali, vale anche per quelle elettorali: quindi, sono le forze politiche che possono o meno darsi delle norme di comportamento, siano esse quelle che disciplinano l’azione e le relazioni tra organi costituzionali, siano esse quelle che definiscono le modalità secondo cui queste forze si presentano agli elettori (così determinandone strategie ed alleanze elettorali) e secondo cui viene computato il risultato elettorale.

32) «...Se non si vuole che il potere legislativo sfugga inesorabilmente alle Camere...», seduta pomeridiana del 19 settembre 1947.

33) Prodromi di evoluzioni politiche della comunità sociale. E la flessibilità del governo parlamentare, anche in presenza di due Camere politicamente e numericamente identiche, deve risiedere proprio nel conservare una valvola di sicurezza al sistema, che gli consenta di superare indenne tali passaggi cruciali.

DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

1. All'articolo 48 della Costituzione, il terzo comma è abrogato.

Art. 2.

1. All'articolo 49 della Costituzione sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

«I partiti devono avere degli statuti che regolamentino la loro attività interna nel rispetto dei princìpi e dei valori espressi nella Costituzione.

Il controllo sugli statuti e sul rispetto della Costituzione in tutte le fasi delle procedure interne dei partiti è esercitato dalla Corte costituzionale. Salvi i profili civili, penali, amministrativi, contabili, la sanzione più grave può essere l'esclusione dall'attività politica.

I partiti politici ricevono dei finanziamenti pubblici annuali, in proporzione ai loro appartenenti presenti nei vari organi elettivi della Repubblica e in proporzione ai loro finanziamenti privati».

Art. 3.

1. All'articolo 55 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«Alle dipendenze del Parlamento è collocata un’amministrazione unica».

Art. 4.

1. L'articolo 56 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 56. -- La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto.

Il numero dei deputati è di trecento.

Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età.

La legge disciplina la ripartizione del territorio nazionale in circoscrizioni, la distribuzione tra di esse dei seggi in proporzione alla popolazione di ciascuna, nonché le modalità per il loro periodico aggiornamento in base all'evoluzione demografica».

Art. 5.

1. L'articolo 57 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 57. -- Il Senato della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto.

L'elezione avviene a base regionale. Ciascuna regione ha un numero di quindici senatori.

Il numero dei senatori elettivi è di trecento».

Art. 6.

1. L'articolo 58 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 58. -- Sono eleggibili a senatori tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età».

Art. 7.

1. All'articolo 60 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«L'elezione avviene mediante un’unica scheda valida per entrambe le Camere, non essendo possibile, a pena di nullità, un voto disgiunto per ciascuna».

Art. 8.

1. L'articolo 64 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 64. -- Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Il Parlamento in seduta comune adotta il proprio regolamento a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.

Le sedute sono pubbliche; tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta, purché all'atto della deliberazione sia presente almeno la metà più uno dei rispettivi componenti.

Le deliberazioni di ciascuna delle due Camere e del Parlamento a Camere riunite non sono valide se non è presente la maggioranza dei rispettivi componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione o il regolamento prescriva una maggioranza speciale. Tra i presenti si conteggiano gli astenuti presenti in Aula.

I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono».

Art. 9.

1. L'articolo 66 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 66. -- Ciascuna Camera verifica i titoli di ammissione dei suoi componenti accertando, anche in applicazione del primo comma dell'articolo 65, l'esistenza o la sopravvenienza di cause ostative alla prosecuzione del mandato dei suoi componenti.

La legge disciplina, in caso di soccombenza o di perdurante inerzia nella verifica dei poteri di cui al primo comma, il diritto di ricorso dell'interessato alla Corte costituzionale».

Art. 10.

1. L'articolo 75 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 75. -- È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge quando la richiesta è stata sottoscritta da almeno un milione di elettori o da cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il referendum sulle leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di amnistia e di indulto; non è ammesso altresì referendum popolare abrogativo per le leggi tributarie e di bilancio, per le leggi elettorali e per tutte le leggi necessarie al funzionamento degli organi costituzionali dello Stato.

La proposta sottoposta a referendum deve avere ad oggetto disposizioni normative omogenee. A tale fine, la legge stabilisce i criteri di formulazione delle richieste di referendum, fissandone i limiti e le condizioni.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini elettori.

La proposta sottoposta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione un terzo degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».

Art. 11.

1. L'articolo 76 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 76. -- L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di princìpi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.

Il Governo non può, senza la delegazione di cui al primo comma, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria».

Art. 12.

1. L'articolo 77 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 77. -- In casi straordinari di necessità e di urgenza il Governo può adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, contenenti misure di immediata attuazione per situazioni specifiche ed omogenee. Il Governo non può, con tali decreti aventi forza di legge, rinnovare disposizioni di decreti non convertiti, nonché attribuire deleghe legislative a norma dell'articolo 76 o poteri regolamentari.

I decreti di cui al primo comma sono presentati per la conversione il giorno stesso alle Camere, che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall'inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. In tale eventualità, le singole disposizioni non possono essere riproposte in testo identico o analogo; possono tuttavia essere regolati con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti».

Art. 13.

1. Il primo comma dell'articolo 88 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere».

Art. 14.

1. All'articolo 94 della Costituzione, dopo il terzo comma è inserito il seguente:

«Il Governo può porre la questione di fiducia sul voto di qualunque atto, ad esclusione dei progetti di legge costituzionali, dei progetti di legge in materia elettorale e di tutti i progetti di legge necessari al funzionamento degli organi costituzionali dello Stato».

2. All'articolo 94 della Costituzione sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

«Se una delle due Camere accorda la fiducia su una questione o mozione, la fiducia si presume accordata anche nell'altra. Qualora analoga questione o mozione sia posta o depositata anche nella Camera che non si è pronunciata, la loro discussione e votazione avviene in seduta comune dei membri del Parlamento. La seduta comune si tiene non prima del terzo giorno successivo al primo voto. L'eventuale mozione di sfiducia proposta nella Camera che non si è pronunciata deve essere firmata da almeno un terzo dei suoi componenti.

Qualora una Camera revochi la fiducia al Governo, è convocato il Parlamento in seduta comune. La discussione e votazione del Parlamento in seduta comune ha luogo non prima del terzo giorno successivo alla revoca della fiducia. Nel caso di presentazione del Governo dopo la sua formazione, il Parlamento in seduta comune interviene solo dopo che entrambe le Camere si siano pronunciate, ed una di esse non abbia accordato la fiducia.

La votazione della questione di fiducia ha la precedenza su qualunque altra votazione. Nel caso di contestuali mozioni nelle due Camere, per stabilire quale debba votarsi si fa riferimento alla data ed ora di presentazione. In caso di contemporaneità, decidono a maggioranza i Presidenti ed i Vicepresidenti delle Camere, riuniti insieme».

Art. 15.

1. Le competenze amministrative delle province sono trasferite alle regioni che le racchiudono, restando le circoscrizioni provinciali come semplici delimitazioni del territorio nazionale e regionale.

2. All'articolo 114 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «, dalle Province» sono soppresse;

b) al secondo comma, le parole: «le Province,» sono soppresse.

3. All'articolo 118 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «Province,» sono soppresse;

b) al quarto comma, le parole: «Province,» sono soppresse.

4. All'articolo 119 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «le Province,» sono soppresse;

b) al secondo comma, le parole: «le Province,» sono soppresse;

c) al quarto comma, le parole: «alle Province,» sono soppresse;

d) al quinto comma, le parole: «Province,» sono soppresse.

5. All'articolo 120, secondo comma, della Costituzione, le parole: «, delle Province» sono soppresse.

6. All'articolo 132 della Costituzione, il secondo comma è sostituito dal seguente:

«Si può, con l'approvazione della maggioranza delle popolazioni del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un'altra».

7. All'articolo 133 della Costituzione, il primo comma è abrogato.

Art. 16.

1. L'articolo 117 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 117. -- La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni:

ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione;

circoscrizioni comunali;

fiere e mercati;

beneficenza pubblica;

istruzione artigiana e professionale;

musei e biblioteche di enti locali;

tutela del paesaggio;

promozione turistica ed offerta alberghiera;

viabilità;

navigazione e porti lacuali;

altre materie indicate da leggi costituzionali.

Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione».

2. All'articolo 118 della Costituzione, il secondo comma è sostituito dal seguente:

«I Comuni e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale».

3. All'articolo 119 della Costituzione, il sesto comma è sostituito dal seguente:

«I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati dalla legge dello Stato. Esclusivamente i Comuni possono ricorrere all'indebitamento e solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento. È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti».

4. All'articolo 121 della Costituzione, dopo il primo comma è inserito il seguente:

«Il Consiglio regionale è composto di trenta membri».

5. L'articolo 124 della Costituzione riacquista efficacia nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3

6. Il primo comma dell’articolo 125 della Costituzione riacquista efficacia nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.