• Testo DDL 196

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Atto a cui si riferisce:
S.196 Modifica degli articoli 67, 88 e 94 della Costituzione, in materia di abolizione del mandato imperativo


Senato della RepubblicaXVII LEGISLATURA
N. 196
DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE
d'iniziativa dei senatori ALBERTI CASELLATI, BONFRISCO, PALMA, CARIDI
 e Giuseppe ESPOSITO

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 15 MARZO 2013

Modifica degli articoli 67, 88 e 94 della Costituzione, in materia di abolizione del mandato imperativo

Onorevoli Senatori. -- Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito al vertiginoso accrescersi dei casi di eletti nelle Assemblee parlamentari che trasmigrano indifferentemente da un gruppo all'altro, da un partito all'altro e, soprattutto, da uno schieramento all'altro, dando vita a quegli improvvisi cambi di maggioranza parlamentare che il gergo politico-giornalistico ha efficacemente definito con il termine «ribaltone». L'espressione fu coniata nel corso della XII legislatura, quando si verificò il caso fino ad oggi piu eclatante di trasformismo politico in danno della volontà degli elettori: all'inizio del 1995, infatti, la maggioranza vincitrice delle elezioni tenutesi appena sette mesi prima venne letteralmente rovesciata, a causa del passaggio di uno dei partiti della coalizione nel campo opposto. Si determinò in tal modo la fine del primo governo Berlusconi e la nascita del governo Dini, di segno contrario rispetto al precedente, ed il tutto avvenne in sede di consultazioni parlamentari, senza ricorso alle urne, come avrebbe invece suggerito una più attenta considerazione della volontà espressa poco tempo prima dal corpo elettorale.

Nella successiva XIII legislatura non vi fu uno stravolgimento così rilevante, ma comunque la coalizione uscita vincitrice dalle elezioni venne scomposta e ricomposta e, dopo aver perso uno dei partiti che ne facevano parte, finì per reggersi sui voti di un partito sorto ex novo direttamente in Parlamento, formato da parlamentari eletti nell'opposto schieramento di centro-destra.

Neanche la XIV legislatura è risultata immune al fenomeno della migrazione di eletti da un gruppo parlamentare ad un altro, fenomeno che ha anzi assunto proporzioni allarmanti: pur tuttavia, lo straordinario risultato elettorale conseguito dalla compagine di governo, che poteva contare su una maggioranza parlamentare di ampiezza assolutamente inedita, ha impedito che tali migrazioni dessero nuovamente vita a gravissimi stravolgimenti della volontà popolare.

La XV legislatura è stata caratterizzata da un esiguo scarto di voti tra maggioranza ed opposizione e ciò ha comportato il rischio di improvvisi cambi di maggioranze parlamentari: sarebbe stato sufficiente il passaggio di pochi eletti da uno schieramento all'altro perché le Camere cambiassero in maniera sensibile la propria composizione, gettando ulteriore ombra sulla coerenza e sulla moralità del nostro sistema politico-istituzionale.

La XVI legislatura è stata quella nel corso della quale sono intervenute le modifiche più rilevanti, in quanto si è assistito al formarsi di nuovi gruppi parlamentari in entrambe le Camere, tutti non supportati dal corrispondente voto popolare, e solo grazie alla amplissima maggioranza parlamentare derivante dalle urne il Governo ha mantenuto la sua posizione.

È ovvio infatti che ogniqualvolta un parlamentare muta collocazione all'interno degli schieramenti politici, il voto dei cittadini che lo avevano sostenuto diventa carta straccia, determinandosi una inaccettabile alterazione della volontà espressa dal corpo elettorale e, per questa via, una grave violazione del principio democratico, soprattutto in un sistema tendenzialmente maggioritario quale il nostro.

Tale preoccupante deriva del sistema istituzionale italiano si deve principalmente al fatto che la rappresentanza politica si presenta legata al cosiddetto divieto di mandato imperativo, posto dall'articolo 67 della Costituzione, in virtù del quale ogni membro del Parlamento «esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»: può cioè agire liberamente, qualunque promessa abbia fatto ai suoi elettori, che sono privi di strumenti giuridici che li abilitino a riprovarne l'operato e, tanto meno, a revocarlo dall'ufficio prima della naturale scadenza del mandato.

Peraltro è da sottolineare che il divieto di mandato imperativo non costituisce un aspetto necessario ed indefettibile di ogni rappresentanza politica, ma solo una delle possibili conseguenze di quest'ultima. Si tratta infatti di una regola classica del parlamentarismo liberale, la cui ratio appare chiara e significativa sol che si rifletta sul contesto storico nel quale si affermò, la Gran Bretagna dell'Ottocento, in cui, non esistendo ancora il suffragio universale, il voto era appannaggio di pochi, borghesi ed aristocratici, portatori di interessi omogenei.

È ovvio che, in un tale sistema, svincolare gli eletti dai pochi elettori, attraverso il meccanismo del divieto di mandato imperativo, garantiva al parlamentare la possibilità di perseguire effettivamente l'interesse generale, mettendolo al riparo da possibili pressioni provenienti da singoli o gruppi. Ma è altrettanto ovvio che il completo cambiamento del quadro storico di riferimento -- determinatosi con l'introduzione del suffragio universale e la conseguente frammentazione dell'interesse generale in una molteplicità di interessi tra loro confliggenti -- avrebbe probabilmente richiesto una più attenta valutazione circa l'opportunità di riproporre il divieto di mandato imperativo nel corpo della Costituzione repubblicana. Occorreva infatti interrogarsi in maniera più approfondita se tale strumento, pensato per una democrazia oligarchica, non si sarebbe trasformato, nel nuovo quadro costituzionale, in strumento di reale separazione tra eletti ed elettori, per cui i primi, liberi da qualsivoglia forma di controllo e sanzione da parte degli elettori, finiscono per farsi portatori non già degli interessi dei rappresentati, ma di interessi propri o di altri.

Peraltro un simile pericolo fu ben chiaro ai Padri costituenti, come si evince leggendo i lavori preparatori della Costituzione, che registrano posizioni dissonanti sulla definitiva stesura dell'articolo 67. In particolare ci fu chi, come l'onorevole Grieco, si dichiarò contrario alla riproposizione del divieto di mandato imperativo perché, disse, «i deputati sono tutti vincolati ad un mandato: si presentano difatti alle elezioni sostenendo un programma». O chi, come l'onorevole Terracini, dichiarò che il divieto di mandato imperativo poteva avere la sua ragion d'essere nei tempi passati e col collegio uninominale, quando il deputato si sentiva anche rappresentante di interessi di classe, o vincolato al partito che ne aveva proposto e sostenuto la candidatura, ma che oggi una norma costituzionale «non varrebbe a rallentare i legami fra l'eletto e il partito che esso rappresenta».

Alla fine tuttavia, nonostante i dubbi avanzati, prevalse la soluzione più comoda, quella cioè di proseguire nel solco della secolare tradizione di origine liberale, e venne pertanto riprodotto, senza modifiche sostanziali, l'articolo 41 dello Statuto albertino, il cui testo risulta trasfuso, in maniera pressoché integrale, nell'attuale articolo 67 della Costituzione.

Orbene, se a questo punto vogliamo restituire credibilità ad un sistema nel quale la mortificazione della volontà del corpo elettorale è diventata la regola, è chiaro che non possiamo semplicemente affidarci alla speranza di un'autoriforma della politica, basata sul recupero di idealità: dobbiamo piuttosto cambiare il quadro normativo di riferimento, perché, come detto, la deriva del sistema è oggi consentita proprio dalla previsione del divieto di mandato imperativo, che in ultima analisi stravolge il principio della rappresentatività e, dunque, della responsabilità di fronte al corpo elettorale dei membri delle assemblee parlamentari. In questo si sostanzia l'articolo 1 del presente disegno di legge costituzionale, contenente l'introduzione del vincolo di mandato per i membri del Parlamento.

È ovvio, peraltro, che la modifica dell'articolo 67 della Costituzione, per non risolversi in un mero esercizio dialettico, deve necessariamente accompagnarsi alla previsione di meccanismi atti a rendere effettivo il vincolo di mandato ivi introdotto, che altrimenti rimarrebbe lettera morta. E questo spiega la ratio degli articoli 2 e 3 del presente disegno di legge costituzionale, il cui combinato disposto determina un rafforzamento del legame tra Presidente del Consiglio dei ministri e maggioranza parlamentare espressa dalle elezioni, tale da scongiurare per l'avvenire eclatanti ipotesi di trasformismo politico che, oltre ad allontanare sempre più i cittadini dalla politica, compromettono altresì la stessa credibilità delle istituzioni.

DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

1. All'articolo 67 della Costituzione, la parola: «senza» è sostituita dalla seguente: «con».

Art. 2.

1. All'articolo 88 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«Il Presidente della Repubblica decreta lo scioglimento delle Camere ed indìce le elezioni nel caso di cui all'articolo 94, sesto comma».

Art. 3.

1. All'articolo 94 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«Il Presidente del Consiglio dei Ministri si dimette qualora la fiducia sia stata ottenuta con il voto determinante di parlamentari non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni ovvero qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante di parlamentari non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni».