• Testo DDL 727

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Atto a cui si riferisce:
S.727 Ripristino delle disposizioni in materia di reintegrazione nel posto di lavoro di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300


Senato della RepubblicaXVII LEGISLATURA
N. 727
DISEGNO DI LEGGE
d’iniziativa dei senatori BAROZZINO, DE PETRIS, CERVELLINI, DE CRISTOFARO, PETRAGLIA, STEFANO e URAS

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 29 MAGGIO 2013

Ripristino delle disposizioni in materia di reintegrazione nel posto di lavoro di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300

Onorevoli Senatori. -- Il presente disegno di legge ripristina la versione originaria dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come richiesto dal Comitato promotore del referendum che ha raccolto e depositato in Cassazione, nel 2012, più di un milione di firme per abrogare le modifiche all'articolo 18 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) introdotte da ultimo dalla riforma del lavoro del 2012 (legge Fornero) votata dalla maggioranza parlamentare che sosteneva il governo Monti.

Le firme raccolte dal Comitato promotore, promosso da Fiom-Cgil, Sinistra ecologia libertà, Rifondazione comunista, Verdi, giuristi e un ampio schieramento di forze progressiste, non porterà alla convocazione della consultazione, a causa dello scioglimento anticipato delle Camere. È a questo Parlamento quindi, che si richiede di dare voce a tutti quei cittadini che si sono espressi per reinstaurare il diritto dei diritti, quello di non essere licenziati senza giusta causa.

Con la riforma dell'articolo 18 si chiude una parabola che ha abbracciato quattro decenni all'insegna della garanzia della dignità del lavoro. Con l'articolo 18 che prevedeva, in caso di licenziamento arbitrario, la reintegra nel posto di lavoro, il lavoratore poteva esercitare con tranquillità, durante il rapporto, tutti i suoi diritti, legali e contrattuali, perché la legge imponeva al datore di giustificare lui, a pena di annullamento, l'eventuale licenziamento che volesse intimargli, indipendentemente dalla possibilità del lavoratore di dare la difficilissima prova di una volontà di rappresaglia contro l'esercizio di quei diritti.

Ora l'articolo 18 come norma antiricatto è nella sostanza venuta meno e quindi si realizza il disegno di parte datoriale di poter contare su uno strumento sicuro di dominio, costituito dalla minaccia sempre incombente sul lavoratore di licenziamento, giustificato o meno.

Perché ne condividiamo i contenuti e perché rimanga agli atti parlamentari, riportiamo le motivazioni del giuslavorista Piergiovanni Alleva, fra i promotori del referendum ed estensore dei quesiti referendari.

Secondo Alleva, la riforma del lavoro Fornero è idealmente divisibile in tre parti, di cui quella centrale riguarda appunto la «flessibilità in uscita», ossia la riforma della disciplina dei licenziamenti. Essa riduce la possibilità di reintegra nel posto di lavoro a ipotesi del tutto marginali e generalizza invece, quale sanzione per i licenziamenti ingiusti, una semplice indennità economica di importo compreso tra dodici e ventiquattro mensilità. Che si tratti di un pauroso salto all'indietro, in definitiva l'ha riconosciuto anche il Governo, che, proprio per questo, ha dichiarato di offrire «compensazioni» costituite dalle altre due parti della legge Fornero, dedicate rispettivamente alla riforma della «flessibilità in entrata», ossia alla limitazione e messa sotto controllo del precariato e alla riforma degli «ammortizzatori sociali»; quali cassa integrazione ed indennità di mobilità e di disoccupazione, che -- si è detto -- la nuova legge avrebbe migliorato, proprio in considerazione della maggior facilità di licenziamento accordata alle parti datoriali. Peccato che, sia sul versante della «flessibilità in entrata», sia su quello degli «ammortizzatori sociali», la legge Fornero è drasticamente peggiorativa rispetto alla normativa attuale. Nella «flessibilità in uscita» la riforma Fornero affronta quattro tipi di licenziamenti:

a) nel licenziamento «discriminatorio» non cambia nulla, perché ben si sa che trattasi di figura solo teorica per l'eccessiva difficoltà della prova;

b) nel licenziamento «disciplinare» vero cuore della tematica la possibilità di reintegra viene limitata a casi di scuola e ridotta a una sorta di foglia di fico. In sostanza per aversi reintegra occorrerebbe o che il datare si fosse inventato tutto o che avesse letto male il contratto collettivo, applicando il licenziamento dove doveva applicarsi una sanzione più lieve;

c) nel licenziamento «per motivo oggettivo», la reintegra è limitata all'ipotesi di «manifesta insussistenza» del fatto addotto come motivo del licenziamento, applicandosi altrimenti la sola sanzione economica;

d) nel licenziamento «per riduzione di personale» si sancisce il gravissimo arretramento che i vizi riguardanti la procedura sindacale di esubero non danno più luogo a reintegra, ma solo a una indennità economica.

Nella «flessibilità in entrata», il vantato giro di vite normativo sull'abuso dei contratti a progetto e sulle false partite IVA con monocommittenza si riduce a riprendere risapute interpretazioni già acquisite in via giurisprudenziale ma con un grosso arretramento con riguardo ai rapporti di consulenza a partita IVA, perché la monocommittenza viene legata a indici empirici facilmente aggirabili. Ad esempio l'aggiramento può essere realizzato con la previsione delle fatturazioni non a una sola società ma a più società tra loro in qualche modo collegate.

Ma è sul contratto a termine e sul contratto di lavoro somministrato che la riforma Fornero ha dato, contrariamente alle promesse, briglia sciolta al precariato, prevedendo che possa essere privo di causale il primo contratto a termine della durata di ben dodici mesi e così anche il primo contratto di somministrazione; contratto che anche in altri casi è stato esentato dall'obbligo della causale. Basterà dunque assemblare tra loro in maniera accorta i vari tipi contrattuali previsti, per realizzare quel precariato permanente di persone ultra ricattabili, che è il vero risultato -- a parer nostro voluto -- della riforma Fornero.

Nella parte relativa agli «ammortizzatori sociali» viene adottato un criterio di malthusianismo sociale. Infatti al primo soffio di difficoltà le imprese potranno licenziare perché non ci sarà più quella cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) che per la classe operaia italiana ha rappresentato sul piano collettivo una garanzia simile a quella dell'articolo 18 sul piano individuale.

Fosse stata vigente in passato la legge Fornero, non sarebbero ancora aperte fabbriche come Fiat, Breda, Ansaldo, Finmeccanica, che sono riuscite a ristrutturarsi anche grazie alla CIGS. Una norma questa, che entrerà in vigore solo nel 2016, ma che sarebbe utile sopprimere da subito.

L'articolo unico del presente disegno di legge ripristina il testo storico dell'articolo 18 della legge n. 300 del 1970 che prevedeva il reintegro nel posto di lavoro in tutti i casi di licenziamento senza giusta causa, indipendentemente dal motivo del licenziamento (discriminatorio, economico, disciplinare).

Si precisa che il coordinamento con le ulteriori disposizioni della legge n. 300 del 1970 potrà essere apportato nel corso dell'iter del disegno di legge.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. L'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come da ultimo modificato dall'articolo 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, è sostituito dal seguente:

«Art. 18. -- (Reintegrazione nel posto di lavoro). -- 1. Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

2. Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subìto per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l'invalidità a norma del comma 1. In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri di cui all'articolo 2121 del codice civile. Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma 1 del presente articolo è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione. Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto.

3. La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al comma 1 è provvisoriamente esecutiva.

4. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

5. L'ordinanza di cui al comma 4 può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto e quinto comma del codice di procedura civile.

6. L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.

7. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma 1 ovvero all'ordinanza di cui al comma 4 del presente articolo, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore».