• Testo DDL 179

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Atto a cui si riferisce:
S.179 Abrogazione dell'articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in materia di sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità


Senato della RepubblicaXVII LEGISLATURA
N. 179
DISEGNO DI LEGGE
d’iniziativa dei senatori Rita GHEDINI, D'ADDA, FAVERO, SPILABOTTE, BROGLIA, FEDELI, GRANAIOLA, PINOTTI, LO GIUDICE e BERTUZZI

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 15 MARZO 2013

Abrogazione dell’articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148,
in materia di sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità

Onorevoli Senatori. -- L’Italia attraversa una crisi gravissima in cui quantità e qualità dell’occupazione e competitività delle imprese e del sistema produttivo complessivamente inteso sono nodi cruciali. La modernizzazione delle relazioni industriali deve andare nella direzione di garantire risultati funzionali all’attività e alla competitività delle imprese ed alla crescita di un’occupazione stabile e tutelata. La contrattazione di secondo livello può svolgere una funzione utile alla necessità di combinare esigenze di flessibilità della produzione e garanzie per il lavoro in termini di stabilità, qualità, miglioramento della retribuzione. Vi sono alcune condizioni che devono essere soddisfatte perché ciò sia possibile. La qualificazione di livello nazionale dei soggetti titolati alla contrattazione e la valenza sistemica dei contratti collettivi nazionali sono garanzia del rispetto dei diritti dei lavoratori e dello sviluppo di un sistema competitivo trasparente e regolato. La regolazione delle relazioni sindacali e contrattuali deve garantire certezze circa la qualità dei soggetti titolari della rappresentanza, rispetto alla gerarchia esistente tra leggi e norme di derivazione contrattuale, rispetto ai tempi ed ai contenuti della contrattazione di secondo livello, per favorirne realmente lo sviluppo e la diffusione. Coerentemente deve essere garantita piena agibilità dei diritti e della rappresentanza da parte di soggetti democraticamente qualificati; deve essere garantita l’esigibilità degli accordi e la loro efficacia generale nei confronti di tutti i lavoratori della realtà produttiva per cui gli accordi medesimi siano stati stipulati.

Bene avrebbe operato il legislatore, come richiesto dalla parti sociali e da molte parti politiche, ad affermare l’efficacia generale degli accordi aziendali stipulati secondo le modalità previste dall’accordo interconfederale sottoscritto il 28 giugno 2011 tra le rappresentanze datoriali e quelle sindacali.

Viceversa, l’ex Governo Berlusconi, con la cosiddetta «manovra-bis», dell’estate 2011, e più precisamente con l’articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, rubricato «Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità», ha introdotto un nuovo meccanismo di regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, fondato sulla stipulazione di contratti collettivi di livello aziendale o territoriale (cosiddetti «contratti collettivi di prossimità») in grado di derogare alla stessa disciplina legale e alla contrattazione collettiva nazionale.

Esso interviene, quindi, su materie, quali la gerarchia dei rapporti sistemici tra norme di legge ed accordi contrattuali e tra livelli contrattuali, la legittimazione dei soggetti negoziali, la validità delle intese, oggetto di dibattito politico e giuridico da tempo e, recentemente, dell’Accordo separato del 2009, di contenziosi rilevanti, quale quello seguito agli accordi separati per gli stabilimenti FIAT di Pomigliano e Mirafiori e, successivamente, dell’accordo interconfederale unitario del 28 giugno 2011.

Vale osservare che, perfino in occasione di accordi separati, per il contratto nazionale è stato riconfermato il ruolo di strumento centrale del sistema per la tutela del potere d’acquisto e per la definizione delle regole base comuni, valide per tutta la categoria.

Nella XVI Legislatura, dopo aver più volte ribadito la volontà di non prendere iniziative legislative in materia, se non su richiesta espressa dalle parti sociali ed in coerenza con il loro orientamento, è stato bruscamente cambiato orientamento, contravvenendo sia alla correttezza dei rapporti tra potere politico e rappresentanze sociali sia ai migliori esempi di legislazione di sostegno.

L’articolo 8, ingiustificatamente motivato con l’emergenza finanziaria, che ha costretto l’Esecutivo alla manovra d’urgenza contenuta nel citato decreto-legge, risulta del tutto estraneo agli obiettivi dichiarati del decreto-legge medesimo, non intervenendo sui saldi di bilancio, ed essendo, nei fatti, di potenziale detrimento alle condizioni di trattamento del lavoro.

La crisi economica ha, infatti, ridotto i margini economici di gran parte delle aziende disponibili per accordi «acquisitivi» e ha prodotto la necessità di impegnarsi nella difficile gestione di processi di ristrutturazione e nella definizione di «accordi in deroga» del contratto nazionale, spesso implicanti modifiche peggiorative rispetto alle condizioni di lavoro previgenti. Ma, nel permanere della crisi, l’utilizzo di deroghe contrattuali, non precisamente contestualizzate e definite in termini di obiettivi e durata, può favorire fenomeni di distorsione della concorrenza.

Precisamente, l’articolo in esame stabilisce che, attraverso la «contrattazione collettiva di prossimità», le associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o territoriale ovvero le loro rappresentanze operanti in azienda possano realizzare «intese», con efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati, finalizzate «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività».

Si tratta di una elencazione di obiettivi che rinvia a contenuti propri della contrattazione decentrata, compresi, ma non solo, gli accordi in deroga («specifiche intese» è il termine usato dall’accordo 28 giugno 2011 per indicare tali accordi).

L’elenco è così generico da ricomprendere pressoché qualunque contenuto contrattuale, e quindi risulta di scarso o nullo rilievo definitorio. Se così non fosse, bisognerebbe ritenere che accordi non finalizzati agli obiettivi indicati resterebbero privi di efficacia generale e soggetti solo alle tradizionali regole privatistiche. Ma sembra una conclusione poco plausibile, anche in un contesto legislativo confuso come l’attuale.

Probabilmente -- ma il dubbio è d’obbligo -- l’indicazione di questi obiettivi ha il valore di generica premessa rispetto ai contenuti più pregnanti del comma 2 dell’articolo 8, dove si indicano le materie che la contrattazione di prossimità può regolare, anche in deroga alle norme di legge; il rispetto puntuale dell’elenco parrebbe, quindi, non essere condizione necessaria per riconoscere ai contratti in questione il potere di regolare le materie di cui al comma 2.

L’intervento legislativo contenuto nell’articolo 8 si rivolge alla contrattazione di secondo livello, aziendale ma anche territoriale.

Al comma l dell’articolo 8, il sostegno si sostanzia nella attribuzione agli accordi collettivi aziendali-territoriali di efficacia generale nei confronti di tutti i lavoratori interessati; ciò a condizione che gli accordi siano conclusi «da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011».

Questo primo comma dell’articolo 8 introduce, quindi, nel sistema grandi cambiamenti. Affronta una questione, quella dell’efficacia generale dei contratti collettivi, su cui si sono affaticate da decenni dottrina e giurisprudenza, ma lo fa in maniera contraddittoria ed incoerente: con tutta evidenza, si tratta di una detereminazione frutto di sovrapposizioni successive che si riferiscono a volontà non congruenti, esito del tentativo maldestro di riaccreditamento rispetto alle forze sociali che, autonomamente, hanno stretto il 28 giugno 2011 un rilevante ed innovativo accordo, ovvero di un intervento forzoso ed orientato in tutt’altra direzione. Gli argomenti utilizzati per giustificare l’efficacia erga omnes dei contratti aziendali non sono, infatti, estendibili ai contratti territoriali, che pure sono considerati al comma 1. Si apre dunque qui un dubbio di costituzionalità, di cui non è chiaro se il legislatore sia stato consapevole o non abbia voluto tener conto.

Altrettanto forzata e destrutturante appare la qualificazione di agente contrattuale in accordi che affrontano deroghe alla legge e ai contratti nazionali delle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano territoriale. L’introduzione di questo nuovo criterio di misura implica un cambiamento radicale del senso della rappresentatività: la dimensione nazionale è stata tradizionalmente richiesta per individuare soggetti sindacali in grado di esprimere nelle loro scelte interessi dell’intera comunità nazionale.

Il riferimento a una rappresentatività territoriale, imposta dalla Lega Nord, sembra ricollegarsi alla ispirazione federalista che dovrebbe così estendersi dall’ambito delle politiche e delle amministrazioni pubbliche a quello delle relazioni industriali. Ma, a prescindere dalle incertezze e dalle controversie tuttora esistenti circa il senso del nostro federalismo, le soluzioni ricercate in ordine alla sua accezione istituzionale non sono trasferibili meccanicamente nel sistema contrattuale: tanto meno secondo indicazioni generiche come quelle dell’articolo 8, comma 1.

Il federalismo istituzionale presuppone una definizione condivisa circa gli ambiti, i poteri e gli obblighi delle diverse autonomie territoriali nell’intero ordinamento, salvo adottarne una versione separatista estranea alla nostra Costituzione.

Il riferimento dell’articolo 8 alla rappresentatività territoriale, invece, è del tutto indeterminato e privo di criteri orientativi, per cui questa rappresentatività può essere espressione di ambiti territoriali variabili, anche molto circoscritti (provincia, comune, oppure ambiti più ristretti), senza nessun ancoraggio a dimensioni significative, sulla base di parametri riconoscibili e accettati. Il rischio di una frammentazione arbitraria del sistema delle relazioni industriali, del valore e della sopravvivenza del contratto nazionale è del tutto evidente. Esso può legittimare il potere negoziale di organizzazioni portatrici di interessi particolaristici e microcorporativi, se non addirittura di comodo.

Proprio per evitare tale rischio, anche la legittimazione degli agenti negoziali a livello aziendale è stata tradizionalmente ancorata nel nostro ordinamento al loro legame, variamente configurato, con soggetti rappresentativi esterni (di carattere nazionale).

Il legame con le organizzazioni sindacali esterne all’azienda (nazionali o territoriali) è confermato dall’articolo 8, comma 1, per quanto riguarda il secondo tipo di agenti negoziali abilitati a concludere gli accordi in questione, cioè le rappresentanze sindacali operanti in azienda.

È peraltro da notare che la rappresentatività attribuita dalla norma alle associazioni sindacali non è qualificata dalle condizioni previste dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 (soglia minima del 5 per cento calcolata su iscritti e voti delle associazioni e certificazione degli iscritti). Infatti, il richiamo all’accordo del 2011 è operato solo con riferimento alle rappresentanze sindacali operanti in azienda, di modo che è da escludersi un suo valore generale, tale da potersi riferire anche alla rappresentatività dei sindacati esterni. La norma, spia ulteriore di un recupero opportunistico in extremis dell’accordo interconfederale e per certi versi oscura, difficilmente potrà essere corretta in via interpretativa.

La valutazione della maggiore rappresentatività dei sindacati nazionali resta dunque affidata ai parametri tradizionali. L’accertamento della rappresentatività «territoriale» dipenderà dalla dimensione di volta in volta assunta dal territorio di riferimento e, coerentemente, dall’assenza di criteri definiti per la misurazione della rappresentatività dei soggetti negoziali.

Essa è, evidentemente, foriera di gravi destrutturazioni della coerenza nella gerarchia delle «autorità regolatorie», del mercato del lavoro e della concorrenza.

Infatti, la norma, anche laddove richiama i riferimenti pattizi esistenti in materia di rappresentatività, universalizzando la platea settoriale e merceologica cui riferirli, introducendo il riferimento all’accordo del 28 giugno 2011 in termini non esclusivi, produce incertezza circa la fonte regolatrice.

È il caso dell’articolo 8, comma 1, che, nel riconoscere la capacità negoziale delle «rappresentanze sindacali operanti in azienda», con riferimento sia alle RSU che alle RSA, secondo quanto previsto anche dall’accordo del 28 giugno 2011 (che in questo innova sulle precedenti intese confederali, a cominciare da quella del 1993), precisa che essa va esercitata secondo le regole di legge e gli accordi interconfederali vigenti, compreso quello del 28 giugno 2011. Il rinvio dell’articolo 8 a questo accordo come una delle fonti regolatrici delle procedure negoziali, pur assumendone le positive istanze di qualificazione, consente, ed anzi aggrava, il permanere dell’incertezza regolatoria, non definendo alcuna fonte di legittimazione esclusiva. Ad ogni buon conto, esso sembrerebbe implicare che tali procedure devono essere rispettate in ogni caso di contrattazione, non solo in aziende rientranti nell’ambito di applicazione dell’accordo (quelle dell’industria), ma anche in imprese di altri settori. Per questo aspetto, si realizza così l’estensione delle regole definite fra i contraenti del settore industriale a tutto il sistema di relazioni industriali, sancendo per legge una tendenza solo in parte affermatasi, di fatto, nei decenni passati.

E ancora: il testo prevede che le intese in questione debbano essere sottoscritte «sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali». È dubbio quale sia il valore di tale indicazione, dato che il principio maggioritario è già contenuto nell’accordo del 2011, con puntuali specificazioni ai punti 4 e 5. Il fatto che tale criterio sia riferito dalla legge «alle predette rappresentanze aziendali» potrebbe essere inteso come una (implicita) esclusione del possibile uso del referendum. Si introduce, perciò, una possibile ulteriore contraddizione con l’accordo del 2011, che lo vanificherebbe, introducendo un’altra aporia nel testo.

Al comma 2, l’articolo 8 attribuisce, come detto, alle specifiche intese indicate al comma 1, il potere di regolare materie inerenti «l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:

a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;

b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;

c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;

d) alla disciplina dell’orario di lavoro;

e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento».

Come si vede, l’elenco è ampio ed eterogeneo; anzi, l’indicazione «disciplina del rapporto di lavoro» è comprensiva dell’intero settore centrale del diritto del lavoro, quello riguardante le regole del rapporto individuale.

Non è la prima volta che il legislatore delega alla contrattazione poteri di deregolazione/flessibilizzazione di norme di legge. Questa tecnica è stata utilizzata da tempo per introdurre elementi di flessibilità, negoziata in singoli aspetti della regolazione del rapporto di lavoro ritenuti rilevanti per un migliore funzionamento del mercato del lavoro (contratti a termine, lavoro intermediato, orario di lavoro, prima ancora assunzioni nominative, eccetera).

In questi precedenti, peraltro, i poteri di flessibilità negoziata sono stati sempre contenuti entro limiti più o meno ampi, definiti dallo stesso legislatore, in conformità con l’idea che quelli conferiti alla contrattazione collettiva sono poteri «delegati». Qui, viceversa, la delega alla contrattazione è senza limiti e senza criteri direttivi, pur riguardando anche materie fondamentali dell’ordinamento, vere e proprie norme di sistema, a cominciare da molte di quelle contenute nello Statuto dei lavoratori.

Si tratta, dunque, di un cambiamento senza precedenti, annunciato in passato dal Ministro del lavoro del Governo Berlusconi, Sacconi, con una prima bozza di «Statuto dei lavori», poi non divenuta proposta di legge, a fronte della dichiarata intenzione di definire i suoi contenuti previa consultazione con le parti sociali.

L’ampiezza dei poteri attribuiti a tale contrattazione e il fatto che tali poteri non sono riservati alla contrattazione nazionale, com’è stato nelle versioni originarie di flessibilità negoziata, ma estesi a intese aziendali e territoriali, concluse anche da soggetti aziendali o da rappresentanti territoriali, pone rischi per il sistema delle relazioni industriali che minano alla base, con chiara eterogenesi dei fini, i dichiarati propositi di garantire l’esigibilità degli accordi e di produrre un quadro di certezze atte a rendere il sistema attrattivo per gli investitori, soprattutto stranieri, producendo al contrario i presupposti per l’intensificazione di pratiche di dumping industriale.

Il carattere del tutto indifferenziato della delega alla contrattazione contenuta nel testo del decreto-legge è stato temperato, in sede di conversione, con l’aggiunta del comma 2-bis, ove si precisa che anche nella contrattazione in deroga restano fermi il rispetto della Costituzione e i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro.

Si tratta di una precisazione diretta a prevenire possibili obiezioni di legittimità, anche costituzionali, e che riecheggia in parte la modifica introdotta dal Parlamento nella versione finale del cosiddetto «collegato lavoro» (legge 4 novembre 2010, n. 183), sulla scia del richiamo che il Presidente della Repubblica fece rispetto ai limiti che il lodo arbitrale, ancorché configurato come arbitrato di equità, doveva rispettare.

Paradossalmente, l’esclusivo richiamo ai vincoli costituzionale e comunitari rende ancora più esplicito il rischio che una simile delegificazione vanifichi norme afferenti alla civiltà del lavoro e alla coesione sociale, come quelle fra l’altro contenute in altri articoli della legge, come ad esempio all’articolo 12 del citato decreto-legge n. 138 del 2011, in materia di contrasto al fenomeno del «caporalato», in quanto annoverabili tra quelle suscettibili di essere oggetto di delega rispetto alla contrattazione aziendale e, pertanto, derogabili rispetto all’ordinamento di tempo in tempo vigente.

Il comma 3 dell’articolo 8 attribuisce efficacia generale (anche) alle disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, sottoscritti prima dell’accordo 28 giugno 2011.

Il riferimento alla data della stipula, come la condizione che l’accordo sia approvato con votazione a maggioranza dai lavoratori, è tale da ricomprendere molti accordi aziendali conclusi prima del 28 giugno, compresi quelli FIAT oggetto di note controversie. In tal modo, il legislatore ha sancito una sanatoria retroattiva degli accordi che le parti sociali non hanno voluto né avrebbero potuto concordare e che, conseguentemente, si configura come una vera e propria norma ad aziendam.

Al di là di ogni considerazione di opportunità politica, specie relativamente ad una materia oggetto di contenziosi giudiziari, anche questa norma non mancherà di sollevare dubbi, ad esempio riguardanti l’ambito della sanatoria. L’attribuzione di efficacia generale agli accordi non dovrebbe comportare la sanatoria di eventuali vizi delle intese: si pensi alle controversie circa la qualificazione della newco di Pomigliano come trasferimento d’azienda e alle rilevanti conseguenze in ordine ai rapporti di lavoro trasferiti.

Per altro verso, la condizione richiesta dal comma 3 dell’articolo 8 circa l’approvazione per referendum dell’accordo destinato ad avere efficacia generale è incoerente con quelle stabilite al comma 1, perché la procedura dell’accordo 2011 non richiede il referendum come condizione necessaria per l’efficacia delle intese.

Per tutte queste ragioni è necessario ed urgente procedere all’abrogazione dell’articolo 8.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. L’articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, è abrogato.