• C. 2680-2679-bis-A-bis EPUB MELILLA Gianni, Relatore di minoranza

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Atto a cui si riferisce:
C.2680-BIS Nota di variazioni al bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e bilancio pluriennale per il triennio 2015-2017


Frontespizio Relazione
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2680-A-bis
   N. 2679-bis-A-bis


DISEGNO DI LEGGE
N. 2680
presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e bilancio pluriennale per il triennio 2015-2017
Presentato il 23 ottobre 2014
e
DISEGNO DI LEGGE
N. 2679-bis
presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)
(Testo risultante dallo stralcio, disposto dal Presidente della Camera, ai sensi dell'articolo 120, comma 2, del Regolamento, e comunicato all'Assemblea il 30 ottobre 2014, dell'articolo 17, commi 11, 20, 22 e 23, dell'articolo 20, comma 2, dell'articolo 21, commi 8 e da 15 a 20, dell'articolo 28, commi 15, da 23 a 27 e 31, dell'articolo 31, commi da 8 a 10 e 20, dell'articolo 32, comma 6, e dell'articolo 41 del disegno di legge n. 2679)
(Relatore di minoranza: MELILLA)
SOMMARIO

I. Il Bilancio
    I dati del bilancio peggiorano
    I crimini nei saldi
    I tagli alla spesa pubblica
    I soldi per gli F-35 non si toccano

II. Una manovra recessiva e di impianto neo liberista
    Si scrive Renzi, si legge Tremonti
    Renzi, il «bisbetico domato»
    Una manovra senza coperture
    I conti non tornano
    La confusione fiscale della manovra Renzi
    Quei tagli lineari della spending review
    Politica industriale, la grande assente
    L'unica speranza – per il Governo – sono arabi e cinesi

III. Analisi critica di alcune misure
    Art. 4 – Conferma del bonus di 80 euro
    Art. 5 – Riduzione IRAP
    Art. 6 – TFR in busta paga
    Art. 7 – Credito d'imposta per Ricerca & Sviluppo
    Art. 9 – Regime fiscale agevolato per i lavoratori autonomi
    Art. 11 – Ammortizzatori sociali
    Art. 12 – Sgravi per assunzioni
    Art. 13 – Bonus bebé
    Art. 21 – Blocco dei contratti del Pubblico impiego
    Art. 26 – Riduzione dei contributi ai patronati sindacali
    Art. 33 – La garanzia sui derivati
    Art. 43 – Le società partecipate locali

IV. Le 10 proposte di SEL per una manovra alternativa
    Proposta n. 1 – Per un'altra Europa
    Proposta n. 2 – Un Piano per il lavoro
    Proposta n. 3 – Definire una politica industriale
    Proposta n. 4 – Meno cemento, Più sicurezza
    Proposta n. 5 – La riconversione ecologica
    Proposta n. 6 – Per un'agricoltura multifunzionale, la Green Bank
    Proposta n. 7 – Investire nel futuro: scuola, università, ricerca
    Proposta n. 8 – Mezzogiorno come questione nazionale
    Proposta n. 9 – Ridistribuire il reddito, rilanciare i consumi
    Proposta n. 10 – Lavoro per i giovani, garanzie per gli anziani
    TABELLE: Due manovre a confronto

V. L'iter in Commissione Bilancio

VI. Conclusione


      

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Onorevoli Colleghi!

I.    IL BILANCIO

I dati del bilancio peggiorano.

      Il bilancio di previsione, come è noto, viene redatto secondo i principi dettati dalla legge di contabilità (legge n. 196 del 2009), e dunque a legislazione vigente.
      Esso è impostato in 34 missioni e 181 programmi di spesa (l'anno scorso erano 176); i programmi costituiscono le unità di voto parlamentare.
      Non si può affermare che il bilancio si collochi – come ha fatto il relatore di maggioranza – in un percorso di progressivo risanamento dei conti pubblici già avviato negli esercizi precedenti. Anzi.
      I dati parlano chiaro. Il saldo netto da finanziare, corrispondente alla differenza tra le entrate finali e le spese finali, risulta pari nel 2015 a 46,9 miliardi di euro, in peggioramento rispetto al 2014, sia nella previsione del bilancio (-38,3 miliardi) che nel dato assestato 2014 (-41,6 miliardi). Il saldo netto è dunque peggiorato rispetto al saldo previsto per il 2014 di oltre 8,6 miliardi di euro.
      L'indebitamento netto del consolidato delle pubbliche amministrazioni è passato dal -2,8 per cento del PIL nel 2013, al -3 per cento del 2014. La previsione per il 2015 è di -2,9 per cento, sempre che tutto vada per il verso giusto.
      Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9 per cento quest'anno, 0,8 per cento nel 2015.
      Anche se il PIL 2013 è stato ricalcolato dall'ISTAT sulla base del nuovo Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (Sec 2010).
      Lo stock del debito è cresciuto (dati della Banca d'Italia) dal 127,9 per cento del PIL nel 2013 (2.069.841 milioni), al 131,6 per cento nel 2014 (a settembre 2014: 2.134.017 milioni), alla previsione dello stesso Governo di un debito pari al 133,4 per cento del PIL per il 2015. Per l'anno 2015, l'OCSE prevede, invece, uno stock del debito maggiore e pari al 134,5 per cento e il FMI lo stima pari al 136,4 per cento.
      L'avanzo primario era pari al 2,0 per cento del PIL nel 2013, al 1,7 per cento nel 2014, mentre lo stesso Governo prevede un saldo primario del 1,6 per cento per il 2015.
      Le entrate complessive sono state pari al 48,3 per cento del PIL per l'anno 2013. Mentre per il 2015 si prevede:

          una riduzione delle entrate finali di oltre 11,4 miliardi (-2,2 per cento), determinato da una diminuzione sia delle entrate tributarie per circa 6,6 miliardi che di quelle extratributarie per circa 4,7 miliardi;

          una riduzione delle spese finali di oltre 6 miliardi (-1,1 per cento), per effetto principalmente della contrazione della spesa in conto capitale di 20,7 miliardi di euro (-35,7 per cento), cui fa riscontro un aumento delle spese correnti ( 14,7 miliardi).

      Le spese in conto capitale diminuiscono, mentre quelle di parte corrente hanno un incremento notevole pur in presenza di bassa inflazione.
      Sul complesso del bilancio dello Stato le spese correnti passano dal 87,8 per cento del totale nel 2013, al 90,7 per cento nel 2014 per arrivare al 93,4 per cento del totale nelle previsioni per il 2015. Mentre, per converso, le spese in conto capitale si riducono ancora (dopo anni di tagli) dal 12,2 per cento del 2013, al 9,8 per cento del 2014, ad una previsione del 6,6 per cento (!) nel 2015.


      La spesa è stata dunque ampiamente dequalificata.
      Sottolineo poi che in un settore strategico quale quello della pubblica istruzione, dell'università e della ricerca siamo passati dal 9,2 per cento sul complesso della spesa del 2013 ad una previsione per il 2015 del 8,6 per cento.
      I tagli dunque avvengono là dove si dovrebbe investire.
      Ma anche nella spesa di parte corrente (che ricordo è cresciuta dal 2013 e nelle previsioni per il 2015, dal 87,8 per cento al 93,4 per cento del totale), voglio mettere in luce che le spese per i redditi dei dipendenti pubblici è diminuita dal 15 per cento al 14,4 per cento del totale.
      In pratica, si è risparmiato sugli stipendi dei dipendenti pubblici e sulle spese per le infrastrutture necessarie.
      La spesa per interessi è stata pari al 4,8 per cento del PIL nel 2013, e viene stimata dal Governo, forse con un leggero eccesso di ottimismo, pari al 4,7 per cento nel 2015.
      La pressione fiscale – afferma lo stesso Ministro Padoan (audizione alla Camera del 4 novembre scorso) – passa dal 43,3 per cento del 2014 al 43,2 per cento nel 2015. Cioè rimane invariata. Un calcolo senz'altro ottimista perché parte dall'ipotesi che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti in maggiori tasse locali, come alcune stanno già facendo.
      Come si vede niente che possa delineare «un percorso di progressivo risanamento dei conti pubblici».

I crimini nei saldi.

      Tutte queste considerazioni senza tener conto del fatto che l'Istat ha rivisto il Pil 2013, per cui il deficit 2013 è calato dal 3 per cento al 2,8 per cento.
      Il Pil nominale 2013 è stato rialzato del 3,8 per cento, quasi 59 miliardi di euro in più rispetto ai dati diffusi a marzo. È uno degli effetti del nuovo Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (Sec 2010) adottato dall'Istat in linea con le norme Ue in materia che tengono conto delle attività criminali e della prostituzione. I tassi di variazione del Pil per gli anni recenti hanno subito invece revisioni molto contenute. In particolare, il tasso di variazione del Pil in volume del 2013 è risultato identico a quello stimato a marzo 2014 (-1,9 per cento) calcolati ancora sulla base dei criteri Sec 95; quello relativo al 2012 è stato rivisto al rialzo da -2,4 per cento a -2,3 per cento. Cambia anche la stima della pressione fiscale nel 2013, passata al 43,3 per cento dal 43,8 per cento (-0,5 per cento).
      Ragionando per settori, il valore aggiunto al Pil ha registrato nel 2013 un calo in volume in tutti i principali comparti, ad eccezione dell'agricoltura, silvicoltura e pesca ( 0,6 per cento). Le diminuzioni sono state del 3,0 per cento nell'industria in senso stretto, del 5,8 per cento nelle costruzioni e dell'1,2 per cento nei servizi.
      Il rapporto deficit-Pil 2013, l'indebitamento netto della pubblica amministrazione in rapporto al prodotto interno lordo, calcolato con il nuovo metodo statistico è migliorato invece di 0,2 punti, fermandosi al 2,8 per cento, invece che al 3,0 per cento risultato ad aprile dalle precedenti stime con i criteri Sec 95. In valore assoluto l'indebitamento netto si riduce di circa 2 miliardi di euro. L'avanzo primario (indebitamento netto meno la spesa per interessi) espresso in rapporto al Pil risulta ora del 2,0 per cento, con una revisione al ribasso di 0,2 punti percentuali rispetto alla stima con il vecchio Sec.
      Sul fronte della domanda interna, l'applicazione dei nuovi criteri di stima ha determinato per il 2013 una caduta in volume dei consumi finali del 2,3 per cento e del 5,4 per cento degli investimenti fissi lordi, mentre le esportazioni di beni e servizi hanno segnato un aumento dello 0,6 per cento. Le importazioni sono diminuite del 2,7 per cento.

I tagli alla spesa pubblica.

      Vorrei segnalare alcuni aspetti dei tagli alla spesa contenuti nel bilancio di previsione che, a mio avviso, danno il segno

recessivo ed iniquo di questa manovra di bilancio, unitamente al disegno di legge di stabilità 2015.
      Le spese sociali sono state decimate. La missione 24 per i programmi afferenti al ministero del lavoro e delle politiche sociali (trasferimenti assistenziali agli enti previdenziali e finanziamento delle politiche sociali) è stata de-finanziata per 178 milioni (-7 per cento), mentre i programmi sociali di competenza del MEF sono stati ridotti di 580 milioni (-9,5 per cento).
      Per la missione «20 – Tutela della salute», i finanziamenti vengono decurtati di 156 milioni con un taglio del 15,6 per cento rispetto al 2014. Il concorso dello Stato al finanziamento della spesa sanitaria diminuisce di più di 2 miliardi (-2.163 milioni) nel 2015.
      Le politiche per il lavoro (missione 26) passano da 9.529 milioni del 2014 ai 8.280 milioni del 2015 (meno 1.249 milioni).
      La missione 8 «Soccorso civile» passa da 4.435 milioni a 3.689 milioni (meno 746 milioni).
      La missione 13 «Diritto alla mobilità» passa da 13.399 milioni a 10.906 milioni (meno 2.492 milioni!!!).
      Per i «Diritti sociali e famiglia», missione 24, il taglio è di 758 milioni.
      Senza riguardo per il nostro patrimonio culturale e artistico, gli stanziamento della missione «21 – Tutela e valorizzazione dei beni e delle attività culturali» sono ridotti di 99 milioni di euro.
      Per la missione del Ministero dell'interno «27 – Immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti», le risorse sono praticamente dimezzate (- 44 per cento) passando dai 744 milioni del 2014 ai 417 milioni previsti per il 2015. Qualcosa si recupera dai nuovi stanziamenti della legge di stabilità, ma nell'insieme permane un taglio di più di 200 milioni.
      Altri tagli riguardano le misure per la crescita.
      Per la missione «22 – Istruzione scolastica» si riducono le risorse di 231 milioni; per la missione «23 – Istruzione universitaria e formazione post-universitaria» la riduzione è di 232 milioni, mentre per la missione «17 – Ricerca e innovazione» il taglio è di 121 milioni.
      Osserviamo come al MISE la missione 11 – Competitività e sviluppo imprese, che avrebbe bisogno viceversa di essere incrementata, è ridotta di 214, 8 milioni.
MISSIONI
L. Bilancio 2014
Prev. Assest. 2014
Variaz.
BLV 2015
missione 11 – Competitività e sviluppo imprese
3.830,5 mln
4.058,6 mln
-214,8 mln
3.843,8 mln

      La missione «9 – Agricoltura, politiche agroalimentari e pesca» viene ridotta di circa 187 milioni (passando da 883,4 milioni a 697,8 milioni).

Le modifiche apportate dalla Commissione Bilancio: i soldi per gli F-35 non si toccano.

      Nel corso dell'esame delle proposte emendative al di disegno di legge del bilancio, sono state approvati complessivamente 11 emendamenti in Commissione Bilancio, di cui 5 provenienti dal Governo.
      Per quanto riguarda le proposte emendative di SEL, ne avevamo presentate due, entrambe concernenti la Difesa.
      Il primo emendamento, approvato nella versione riformulata proposta dal Governo, è diretto a recuperare risorse per il finanziamento dei lavori esternalizzati da parte del Ministero della difesa. Appalti che hanno subito consistenti tagli negli anni passati causando gravi sofferenze ai lavoratori. L'emendamento (Tab. 2.1) destina al bilancio della Difesa 500 mila euro per l'anno 2015, prelevandoli dallo stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze.


      L'altro emendamento (Tab. 11.6), respinto, riguardava i fondi del bilancio della Difesa destinati al programma F-35. Si evidenzia la posizione del Governo, che attraverso il Viceministro Morando, ha rilevato che non è possibile procedere per l'anno 2015 ad una riduzione così consistente delle risorse connesse alla partecipazione italiana al programma. Tuttavia, sollecitato ad esprimere una proposta di riduzione che tenesse in considerazione gli atti di indirizzo votati dal parlamento che prevedono quantomeno un dimezzamento del programma in parola, ribadiva la non possibilità di non poter procedere a tagli per impegni contrattuali già assunti dallo Stato italiano anche per gli anni successivi al 2015.
      Gli altri emendamenti approvati riguardano:

          il 5.1 (Governo) finalizza le riassegnazioni al bilancio dello Stato di cui al comma 4 dell'articolo 5, per interventi e investimenti finalizzati al miglioramento delle condizioni detentive e delle attività trattamentali dei detenuti;

          l'emendamento 7.2 (Governo) sopprime il comma 6 dell'articolo 7 concernente il riparto delle somme finanziate dal decreto legge 103 del 12 settembre 2013 n. 104, in materia di realizzazione di progetti didattici nei musei;

          l'emendamento 8.1 (Governo) corregge un errore meramente formale di indicazione del programma, mentre l'emendamento 8.2 (Governo) estende a tutti gli appartenenti le forze di polizia l'erogazione nell'anno successivo delle somme rimaste da pagare alla fine di ciascun esercizio finanziaria a titolo di competenze accessorie come previsto dal comma 3 dell'articolo 2 del decreto del MEF, 1 dicembre 2010;

          l'emendamento (Tab. 2.5) destina 3,5 milioni di euro al programma «Promozione e garanzia dei diritti delle pari opportunità» nella tabella 2 del stato di previsione del Ministero delle economia e delle finanze, che aveva subito una riduzione delle disponibilità di quasi 10 milioni di euro per la promozione delle politiche relative a diritti e pari opportunità;

          l'emendamento (Tab. 3.1) sposta 550 mila euro nello stato di previsione dello sviluppo economico dal programma Servizi di Comunicazione, radiodiffusione e postali (che prevede un taglio di 83 milioni di euro per il 2015) al programma Vigilanza sugli enti, sul sistema cooperativo e sulle gestioni commissariali, ossia, tra le altre cose, delle attività di vigilanza sulle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza;

          l'emendamento del Governo (Tab. 4.1) sposta risorse nello stato di previsione del Ministero del lavoro per gli anni 2015 (137 milioni) e 2016 (119 milioni) dal programma Incentivi all'occupazione (ammortizzatori sociali, integrazione salariale, contratti di solidarietà, incentivi all'autoimprenditorialità), in cui si prevedono già tagli per oltre 1 miliardo e 200 milioni di euro per il 2015;

          l'emendamento (Tab. 6.2) destina 50 mila euro in più (!) alla cooperazione allo sviluppo, irrisoria rispetto ai 115 milioni che vengono tagliati dalla previsione a bilancio;

          mentre l'emendamento (Tab. 8.1) aumenta le risorse destinate al programma Flussi migratori, garanzia dei diritti e interventi per lo sviluppo della coesione sociale del Ministero dell'interno per 340 mila euro, cui è previsto il taglio previsto di 326 milioni di euro, prevalentemente con minori fondi per i centri d'accoglienza e identificazione e per richiedenti asilo;

          mentre, infine, l'emendamento (Tab. 13.1) aumenta le risorse per la Tutela e valorizzazione dei beni librari e promozione e sostegno del libro, (istituti di cultura e biblioteche, promozione e sostegno all'editoria per i quali si prevede un taglio di 19 milioni di euro per il 2015), diminuendo per 700 mila euro le risorse destinate alla Tutela e valorizzazione dei beni archivistici del Ministero dei beni

culturali, Istituti archivistici per i quali, come da relazione allegata, non erano già adeguate le risorse e per i quali si prevede un taglio di 13 milioni di euro per il 2015.

II.    UNA MANOVRA RECESSIVA E DI IMPOSTAZIONE NEO-LIBERISTA

Si scrive Renzi, si legge Tremonti. (1)

      Pare che, appena dopo la fine della Comune di Parigi, il deputato socialdemocratico tedesco August Bebel – intervenendo al Reichstag e ricevendo un inaspettato applauso dai prussiani revanscisti – scrivesse, assai scosso, a Karl Marx: «Ho parlato al Reichstag e i prussiani e i borghesi mi hanno applaudito. Ma cosa ho detto di sbagliato?».


    (1) Ringraziamo gli economisti della rete «Sbilanciamoci!» per i loro contributi all'analisi della legge di stabilità, contributi che abbiamo ampiamente utilizzati per questa Relazione di minoranza.

      Nessun dubbio invece deve avere colto Matteo Renzi, quando – all'indomani della pubblicazione della legge di stabilità – ha ricevuto il plauso di Berlusconi con la rivendicazione: «Il Premier copia le nostre ricette». Non sembra che Renzi ne sia stato scosso; o magari ne ha scritto a Davide Serra, ma per farsi complimentare.
      E infatti l'assunto di Renzi, «per la prima volta una legge di stabilità che taglia le tasse», sembra realizzare il sogno di Tremonti di dieci anni fa e degli anni ’90 all'insegna dello slogan «meno tasse per tutti». Ma quella di Renzi è – insieme al DEF – una legge di stabilità tremontiana, anche perché contiene tutti gli altri pilastri del pensiero liberista: taglia la spesa pubblica (40 miliardi di euro nei prossimi tre anni) e si fa accompagnare da un DEF che prevede la precarizzazione del mercato del lavoro, la riduzione degli investimenti pubblici e una dose massiccia di privatizzazioni (80 miliardi in cinque anni) con la svendita del patrimonio pubblico.
      Tra l'altro il taglio delle tasse di Renzi non è «per tutti» e sicuramente non lo è per chi sta più in difficoltà. L'Istat ha ricordato che il bonus Irpef degli 80 euro (per almeno i 2/3) va ad individui che appartengono a famiglie dai redditi medio-alti ed è noto che precari, incapienti e pensionati al minimo non ricevono nulla. Mentre ricevono molto le imprese con i 6 miliardi di sgravi per l'Irap. Inoltre – altro che tagli – molti pagheranno più tasse: sicuramente i cittadini che si vedranno aumentare le tariffe dei servizi pubblici dalle regioni costrette ai rincari fiscali dai tagli del governo. E chi è stato costretto o invitato a farsi la pensione integrativa vedrà raddoppiare l'imposizione fiscale. Idem per chi vorrebbe prendersi il Tfr in busta paga.
      Ma quello che è più grave è la completa sudditanza del centro sinistra – in questa legge di stabilità – alle ricette del pensiero neoliberista: più sgravi fiscali e meno investimenti pubblici; più tagli alla spesa pubblica e meno politiche per il sostegno alla domanda. Renzi realizza il sogno di Tremonti e di Berlusconi. Gli sgravi alle imprese (come i contratti di lavoro precario) non hanno mai creato più posti di lavoro, ma solo vantaggi e maggiori margini di profitto subito incamerati da chi pensa solo alla rendita e alla speculazione. E i modesti tagli fiscali (da un impatto redistributivo così inesistente) non alleviano la povertà (e ancora l'Istat ci dice che il bonus Irpef ha beneficiato solo il 4 per cento dei poveri italiani) e non hanno alcun effetto sulla domanda interna. È la stessa nota di variazione del DEF ad ammetterlo: il decreto sugli 80 euro, se tutto va bene, avrà nel 2015 un impatto dello 0,1 per cento sulla crescita. Non migliore impatto sul Pil sembrano avere gli altri provvedimenti cosiddetti «strutturali», dal Jobs Act alle riforme istituzionali. Praticamente, zero.
      La legge di stabilità ha dunque un'impostazione liberista e recessiva, non fa ripartire la domanda, è pesantemente sbilanciata sugli interessi (e non sul rilancio) delle imprese (e Confindustria anch'essa applaude), riduce gli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali, non si occupa di lavoro se non per precarizzarlo ed umiliarlo e rilancia il welfare compassionevole:

siamo ancora (come ai tempi di Berlusconi) ai bonus bebé e alla social card. Per parafrasare Von Clausewitz verrebbe da dire che la legge di stabilità di Renzi è la continuazione della legge finanziaria di Berlusconi con altri mezzi. Quelli di un populismo falsamente nuovista e postmoderno, che propina – in salsa 2.0 – le antichissime ricette della destra.

Renzi, il «bisbetico domato».

      Dopo le richieste di chiarimento da parte della Commissione europea, il Governo ha ulteriormente accentuato il carattere recessivo della manovra di finanza pubblica accettando nei fatti una correzione del deficit di «poco superiore allo 0,3 per cento», anche se da altri documenti risulterebbe essere pari a circa lo 0,4 per cento (0,38 per cento = 1,6 miliardi (0,1 per cento) 4,5 miliardi (0,28 per cento)).
      La diminuzione del deficit atteso per il 2015, rispetto a quanto indicato nella Nota di aggiornamento del DEF 2014, è dichiarato pari a circa 4,5 miliardi.
      L'indebitamento netto diminuisce dal 2,9 per cento del PIL al 2,6 per cento (forse sarebbe meglio dire al 2,5 per cento), mentre il debito salirebbe per il 2015 dal 131,6 per cento del PIL al 133,4 per cento. L'indebitamento netto strutturale netto nel 2015 diverrebbe di poco superiore a 0,3 punti percentuali del PIL.
      Dunque, con le misure aggiuntive predisposte dal Governo in conseguenza delle osservazioni formulate dalla Commissione europea il 22 ottobre scorso nell'ambito del procedimento di valutazione dei documenti programmatici di bilancio per il 2015, si sono realizzate tre notevoli ulteriori peggioramenti della manovra:

          1) il deficit scende, prendendo per buone le stime del Governo, dal 2,9 per cento al 2,6 per cento del PIL (meno 0,3 per cento; meno 4,5 miliardi);

          2) adesso, dopo le misure aggiuntive concordate con la Commissione europea, in pratica, sommando le clausole di salvaguardia Letta e Renzi, si tratterà di ottenere (una clausola di salvaguardia «monstre»), con aumenti dell'Iva e delle accise e con tagli alle detrazioni d'imposta, risorse per 728 milioni nel 2015, 17.544 milioni nel 2016, 26.951 milioni nel 2017 e 29.995 milioni nel 2018. Le clausole se esercitate avrebbero un forte effetto recessivo di diversi punti di PIL nel triennio 2016-2018 dovuto ad una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per alcuni miliardi. In pratica, la manovra, non volendo affrontare una vera discussione sulla revisione dei parametri di bilancio stabiliti dalla UE, rinvia ai prossimi anni le scelte più dolorose ed impegnative;

          3) l'esclusione dai saldi delle Patto di stabilità delle spese dalle Regioni per i cofinanziamenti dei fondi strutturali comunitari, originariamente prevista dal provvedimento in esame nell'importo complessivo di 1.200 milioni di euro, viene ora mantenuta nel solo limite di 700 milioni di euro.

      Dopo i fuochi d'artificio del Premier contro l'Europa dei burocrati al Consiglio europeo della scorsa settimana la verità è alla fine emersa: il Governo italiano ha scelto di seguire i diktat dell'Europa modificando sensibilmente la legge di stabilità. Dopo la lettera alla UE, il DEF è ulteriormente cambiato e gli obiettivi sono altri.
      Si tratta di una sconfitta del Governo Renzi che aveva provato a trattare con l'Europa i dati del deficit. Trattativa respinta dalla UE, per cui ora il Governo ha scelto la strada del rispetto delle politiche di austerità e di quei parametri in altre occasioni definiti «stupidi».
      Un aggiustamento dello 0,3 per cento del disavanzo strutturale invece che pari allo 0,5 per cento del PIL. Siamo più o meno lì. Non è questo il cambiamento che serve. Senza contare che non si capisce perché l'Italia abbia dovuto fare un aggiustamento superiore a quello richiesto alla Francia.
      D'altronde il Commissario agli Affari economici, Jyrki Katainen, avverte da Bruxelles (il 29 ottobre scorso) che gli esami della legge di stabilità non sono finiti: «il parere finale lo darà la nuova Commissione entro novembre». Non sono dunque escluse altre correzioni dei conti.


      Insomma, potremmo definire Renzi un «bisbetico domato».
      Lo stesso Vincenzo Visco del PD sottolinea come:
      «Invece di concentrarsi sulle deroghe, sui margini di flessibilità, che pure sono importanti per carità, il governo avrebbe dovuto porre sul tavolo europeo il problema politico di un cambiamento di direzione generale della politica economica comunitaria, sulla base dell'esempio degli Usa o della Gran Bretagna. Avrebbe dovuto porre apertamente il tema del cambiamento. E aprire un dibattito alla luce del sole.
      Così non è stato e i risultati negativi di questa mancata sfida saranno da un lato il cammino difficile che continueranno ad avere l'economia italiana e quella europea, dall'altro l'ostilità crescente di coloro che subiscono le ripercussioni della crisi.
      (...) la previsione di una crescita del Pil allo 0,6 per cento, di fronte a un andamento negativo alla fine di quest'anno, sarà assai difficile da raggiungere nel 2015 ».

      Lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresentava, in realtà, una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni.
      La Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3 per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato. La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date.
      La decisione francese, se assecondata da una analoga presa di posizione del Governo italiano, poteva rappresentare un grande opportunità per rimettere in discussione la parte fiscale dei trattati europei. Il Governo italiano ha preferito adattarsi alle indicazioni, forse sarebbe meglio chiamarle diktat, di alcuni funzionari europei. L'unico risultato ottenuto, in tempi di deflazione e recessione, è che il deficit calerà in misura minima ma continueranno a crescere lo stock del nostro debito. È stata persa un'occasione storica forse irrepetibile.
      Si pone, inoltre, con drammaticità ed urgenza in Europa il tema dell'elezione democratica degli organismi europei, ad iniziare dalla stessa Commissione, da parte del Parlamento.
      L'ulteriore riduzione delle risorse per il cofinanziamento dei fondi strutturali europei di circa 500 milioni penalizza ancora una volta il Mezzogiorno, mentre, come certifica l'ultimo Rapporto dello SVIMEZ, in 5 anni le famiglie del Sud in stato di povertà assoluta sono più che raddoppiate, le imprese chiudono e l'emigrazione continua a ritmi spaventosi. Nel nostro Mezzogiorno siamo al settimo anno di recessione, il PIL è in caduta libera, solo una giovane donna su cinque lavora, sono crollati gli investimenti e la discesa dell'occupazione non conosce fine.
      Per avviare a soluzione una crisi economico finanziaria dai disastrosi effetti sociali che dura ormai da più di otto anni, un periodo talmente lungo che il sistema capitalistico non ha mai affrontato prima, è necessario adottare misure shock sul piano economico che mal si conciliano con un misero allentamento della stretta di bilancio e con il solo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio. Ben altre sarebbero le soluzioni che però trovano ostacoli insormontabili nelle troppo rigide regole europee non più al passo con la situazione profondamente cambiata e che richiederebbero una forte e reale flessibilità temporanea concordata, almeno sul rispetto del rapporto deficit/Pil, per un reale rilancio economico e produttivo salvaguardando nel contempo l'occupazione e i diritti fondamentali del lavoro.
      L'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità. Non può sfuggire il fallimento dell'approccio degli ultimi anni che a partire dalla primavera 2010 ha visto il varo di programmi di riequilibrio dei conti pubblici pesantissimi,

simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco). La finanza speculativa e i settori più ricchi della popolazione ne sono usciti rafforzati a spese dei ceti popolari.
      Il 2014 non è stato l'anno della ripresa, come le previsioni stimavano, ma il terzo di recessione per l'economia italiana. Il PIL italiano è sceso di più del 9 per cento rispetto al livello del 2008. Il nostro Paese corre un serio rischio di deflazione e di arrivare ad un quarto anno di recessione. Con questo prolungamento, l'esperienza della crisi per il nostro Paese si conferma peggiore di quella degli anni trenta. Un confronto storico sfavorevole che è condiviso con molte altre economie europee. Oggi come allora, la recessione ha una sola causa: la caduta della domanda aggregata. Su questa avrebbero dovuto intervenire le misure per la ripresa a livello europeo. Al contrario, la politica economica adottata ha sospinto i paesi in una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione. Occorre che si cambi lo schema in modo radicale, con l'impostazione di politiche monetarie e fiscali espansive coordinate tra le economie europee.
      Ma le politiche dei singoli Paesi dell'UE, vincolati dai parametri statistici e dalle procedure del Fiscal Compact, appaino come ingessate.
      Le misure fin qui adottate dal 2011 ad oggi dai diversi Governi italiani hanno peggiorato notevolmente le finanze pubbliche del nostro Paese, portando la nostra economia alla recessione, deprimendo i consumi delle famiglie e aumentando notevolmente la disoccupazione, in particolare quella dei giovani. Politiche analoghe sono state imposte in quasi tutti i Paesi della UE.
      Le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione Europea. La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013. In Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dal 11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo. In Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni. Nella sola Italia, la disoccupazione giovanile, secondo i recenti dati Istat ha toccato il 44,2 per cento ed i disoccupati sono 6 milioni.
      In Italia, nonostante si siano già succeduti tre differenti Governi, la linea seguita è sempre la stessa: quella impostaci dalla BCE. L'attuale Governo sta per altro cercando di accelerare l'attuazione delle indicazioni contenute nella lettera dell'agosto 2011 della stessa BCE, per il momento solo parzialmente realizzate. Anche se i dati confermano il non funzionamento di quelle politiche imposte dalla UE la nota di aggiornamento del DEF, esso persegue testardamente nell'applicazione di quelle stesse indicazioni.
      Abbiamo visto come molti paesi europei, inclusa la Germania, e la stessa BCE infrangono le regole ed i parametri stabiliti nei Trattati. Un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale.
      Il Trattato di funzionamento della UE (TFUE) all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamento e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento). Se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti. Una fissa dello 0,2 per cento del PIL, e una variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento. Se il deficit è pari al 4 per cento l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili.
      Il rispetto rigoroso delle regole e del sottostare ai parametri imposti dai trattati deve essere un comportamento seguito da tutti i partners europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate. Stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/Pil da parte dell'Italia.
      Si sarebbero dovuto predisporre una manovra per triennio 2015-2017 – seguendo l'esempio francese – che prevedesse un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil.
      Si sarebbe dovuto destinare le risorse che ne risulterebbero, pari a circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che prevedesse misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza attraverso la messa in opera di un Programma Nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Deal italiano. L'asse di un Piano per il lavoro, deve consistere innanzitutto nel favorire la ricerca, l'innovazione e la formazione, nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese, eccetera).
      La manovra avrebbe dovuto prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI.
      Viceversa, la manovra predisposta dal Governo riduce le imposte per le imprese senza avere alcuna garanzia che aumenteranno i loro investimenti, che non delocalizzeranno i loro siti produttivi o che non licenzieranno oppure che si produrranno reali incrementi occupazionali non sostitutivi.
      Si interviene riducendo il costo del lavoro e precarizzando i rapporti di lavoro, togliendo diritti basilari ai lavoratori: si cerca dunque di competere sul profilo basso senza cercare di aumentare la produttività di tutti i fattori del nostro sistema produttivo, e ci si rassegna a diventare un Paese di serie B.
      Infatti, i dati dimostrano che la deregolazione del mercato del lavoro non crea solo precarietà e perdita di diritti, ma anche perdita di produttività e quindi perdita di capacità di crescita; questa svalutazione del lavoro che andrà aggravandosi quando si dispiegheranno gli effetti nefasti della controriforma del Jobs Act presuppone imprese di basso valore, che invece di innovare scaricano tutti i costi della competizione internazionale sul costo del lavoro; così facendo ci si rassegna al declino industriale del nostro Paese.
      Essa non estende i benefici fiscali a pensionati, partite Iva e incapienti, penalizza ancora una volta i dipendenti pubblici, non prevede investimenti pubblici se non per grandi opere per lo più inutili, lascia irrisolto il problema dei cd. «esodati», non prevede risorse adeguate per mantenere gli ammortizzatori sociali esistenti per non dire della loro estensione universale, penalizza i giovani professionisti sul piano fiscale.
      La manovra avrà comunque effetti recessivi perché prosegue nella politica dei tagli alla spesa pubblica anche per coprire la diminuzione delle imposte, tagli che notoriamente hanno un moltiplicatore superiore in termini di crescita del PIL della riduzione delle tasse.
      Il moltiplicatore della spesa (fonte FMI) viene ormai calcolato, per un Paese come l'Italia, in una fase recessiva come l'attuale, a quota 1,3 (altri si spingono a 1,5). Viceversa, il moltiplicatore delle tasse viene stimato a 0,3. Dunque per ogni miliardo di taglio alle spese si ha una contrazione del PIL di 1,3 miliardi. La parallela riduzione fiscale di un miliardo dà invece solo una crescita di 0,3 miliardi. Ne consegue, all'incirca, che per ogni miliardo di tagli della spesa pubblica utilizzato per diminuire di un miliardo le imposte si ha una riduzione equivalente di un miliardo del PIL.
      Inoltre, i ceti popolari pagheranno in termini di riduzione dei servizi essenziali e di incrementi della tassazione locale i pochi benefici dovuti al bonus da 80 euro. D'altronde lo ha affermato lo stesso Padoan: «le Regioni potranno aumentare le tasse», agendo sull'addizionale Irpef e/o sui ticket, così come prevedibilmente faranno i Comuni aumentando Imu e Tasi e le tariffe dei servizi.

Una manovra senza coperture.

      I mesi scorsi ci hanno abituati a quella che sembra una caratteristica di questo Governo: un uso spregiudicato e spaccone della comunicazione, anche a costo di accentuare la distanza fra rappresentazione e realtà, e l'individuazione di controparti (il nemico) su cui scaricare le colpe di ritardi e insuccessi. La manovra di bilancio è in tal senso emblematica: viene rappresentata come espansiva e di rottura, ma è in realtà di portata limitata e formalmente restrittiva. Quanto alle responsabilità, esse vengono scaricate sull'Europa, troppo rigida nell'applicazione delle regole, e sulle regioni, che hanno ventilato aumenti delle imposte locali per compensare i tagli.
      Dopo il timido rinvio, nel DEF presentato lo scorso aprile, del pareggio di bilancio dal 2015 al 2016, l'aggiornamento del DEF è apparentemente più aggressivo: prevede il congelamento, di fatto, del Fiscal compact, rinvia ulteriormente il pareggio al 2017 e fissa il deficit programmatico al 3 per cento nel 2014 e al 2,9 per cento nel 2015. Addirittura, viene indicato un deficit tendenziale 2015 in forte calo (2,2 per cento), col Governo, però, che intenderebbe portarlo al 2,9 per cento, utilizzando la differenza (11,5 miliardi) per rilanciare l'economia. Ma lo sforzo espansivo andrebbe anche oltre. Nella presentazione del disegno di legge di stabilità la manovra esplode a 36 miliardi: si aggiungono, fra l'altro, 15 miliardi di riduzione di spesa pubblica, 3,8 di lotta all'evasione fiscale, 3,6 di aumento della tassazione sulle rendite. Una massa così ingente di risorse (il 2,2 per cento del Pil) verrebbe impiegata per rendere permanenti gli 80 euro al mese in busta paga per i dipendenti (senza però l'estensione ad altre categorie), per eliminare il costo del lavoro dall'imponibile Irap, per altri sgravi fiscali, fra cui la decontribuzione per i nuovi assunti, per ammortizzatori sociali e un piano straordinario di assunzioni nella scuola.
      Anche lo sforzo aggiuntivo richiesto dalla UE, ulteriori 4,5 miliardi di riduzione del deficit, viene stigmatizzato ma presentato come non in grado di alterare la natura espansiva dell'impostazione di bilancio. Lo studio della manovra fa emergere, tuttavia, alcune rilevanti perplessità.
      Innanzitutto, la manovra è di segno restrittivo, non espansivo, e le sue dimensioni sono ben più ridotte di quanto dichiarato. Il deficit passerà dal 3 per cento nel 2014 al 2,6 per cento nel 2015, il che configura una manovra di bilancio, pur moderatamente, restrittiva; non a caso il governo non ne ha ipotizzato un significativo effetto sul Pil. Vero che l'aggiornamento del DEF indica un deficit tendenziale 2015 in calo al 2,2 per cento, ma non considera poste di bilancio che sono rifinanziate annualmente e non possono essere azzerate, quantificate dallo stesso disegno di legge in almeno 6,9 miliardi. Se poi andiamo a spulciare la manovra, la dimensione degli interventi netti si riduce drasticamente: vanno tolti i 6,9 miliardi di cui sopra, i 4,5 destinati a ulteriore riduzione del deficit, i 3 che servono a compensare

mancati risparmi, altri 3 già a suo tempo stanziati per il bonus 80 euro e i 2,1 già previsti per la riduzione dell'Irap. Così la manovra si riduce dal lato degli interventi a 6,5 miliardi di maggiore spesa per la conferma degli 80 euro, 4,5 miliardi di spesa aggiuntiva per l'eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap e la decontribuzione sui nuovi assunti, 1,5 miliardi di ammortizzatori sociali (compreso la cassa in deroga) e poco altro.
      Il quadro tendenziale a «legislazione vigente» dà conto della situazione e dell'evoluzione della finanza pubblica in base alle norme già approvate e agli stanziamenti definiti in modo permanente nel bilancio pubblico. Questo è generalmente basso perché non è il quadro tendenziale a «politiche invariate» che dà invece conto del fatto che vi sono spese non finanziate permanentemente nel bilancio pubblico, bensì rifinanziate di anno in anno o triennio in triennio, così come vi sono interventi portati avanti negli ultimi anni che governo e ministeri intenderebbero riproporre. Ciò vuol dire che gran parte dei fondi sociali non sono finanziati in modo definitivo, bensì annualmente, dunque non entrerebbero nella legislazione vigente ma nelle politiche invariate; così come i fondi per i rinnovi contrattuali nel pubblico impiego. È quindi lecito ritenere che così valga anche per le detrazioni per lavori di ristrutturazione, così come per gran parte dei fondi per gli ammortizzatori sociali.
      La manovra di bilancio 2015 è stata presentata prendendo come quadro tendenziale il bilancio a legislazione vigente.
      Facendo leva sullo scarto di 0,7 punti fra il deficit programmatico, collocato rispetto al Pil a quota 2,9 per cento e quello tendenziale a legislazione vigente, fissato al 2,2 per cento, si esaltava il carattere espansivo della manovra.
      In realtà, dopo l'intervento della Commissione europea il deficit è stato ulteriormente ridotto al 2,6 per cento.
      Ma la questione principale è un'altra ed è quella messa in luce dal Prof. Angelo Marano (vedi la tabella): a «politiche invariate» il deficit tendenziale, pur senza conteggiare il bonus di 80 euro, sarebbe stato di 3,1 per cento del PIL.
      E dunque la manovra del Governo è restrittiva perché riduce il deficit tendenziale vero dal 3,1 per cento al 2,6 per cento (meno 0,5 per cento del PIL, meno 8 miliardi di euro in assoluto).

      La manovra, poi, preoccupa dal punto di vista delle coperture previste, fondamentalmente di due tipi: almeno 12 miliardi di ulteriori tagli alle spese, aggiuntivi rispetto a quelli già previsti dalla normativa, e almeno 4,5 miliardi di recupero aggiuntivo di imposte evase. Si tratta di somme ingenti e tutt'altro che sicure, soprattutto se si pensa che nello stesso disegno di legge di stabilità si sono dovuti accantonare 3 miliardi per il mancato conseguimento di previsti risparmi. Vengono poi scontate in bilancio privatizzazioni per 11,5 miliardi (0,7 per cento del Pil), altro obiettivo, anche prescindendo da considerazioni di opportunità, di difficile realizzazione, stante che nel 2014 non arriveranno allo 0,3 per cento del Pil. Inoltre, laddove nel 2014 il bilancio aveva potuto godere del bonus derivante dalla riduzione degli interessi sul debito pubblico, gli interessi previsti nel 2015 sono già bassi, mentre lo 0,6 per cento previsto di crescita del Pil è, secondo alcuni, ancora troppo ottimistico. Così, se già il 2014 fotografa una situazione nella quale si è fatto fatica a tenere sotto controllo i conti (con il deficit arrivato al 3 per cento), il 2015 potrebbe rivelarsi ancora più problematico: troppo aleatorie le coperture, troppo ristretti i margini sul deficit e sulle singole componenti di spesa. Se poi nel 2016 dovessero scattare le clausole di salvaguardia (13-17 miliardi di aumenti Iva) gli effetti sul paese sarebbero letali.
      L'intenzione di perseguire una politica di bilancio meno restrittiva, pur a livello di petizione di principio, sarebbe di per sé elemento positivo. Molti economisti a sinistra hanno evidenziato da tempo l'inconsistenza teorica e la pericolosità dell'approccio strutturalmente restrittivo alla politica fiscale dominante nella UE. Ben farebbe l'Italia a contestare le regole europee ed operare per una loro radicale riforma. Tuttavia, il governo non si spinge fino a questo punto, preferendo rispettare il vincolo del 3 per cento sul deficit e solo argomentare sulle circostanze eccezionali che, come da trattati, giustificherebbero il mancato rispetto della regola sul debito e del pareggio di bilancio. Anche il tipo di interventi di politica economica ventilati colpisce più per la continuità con il passato che per il carattere innovativo: si continua a puntare principalmente su cuneo fiscale e costo del lavoro. Da questo punto di vista mancano nel disegno di legge di stabilità idee innovative, una politica industriale, la definizione di una strategia organica di rilancio. Stante il fallimento delle politiche passate, il rischio è che, per l'ennesima volta, l'Italia bruci risorse per ritrovarsi, alla fine, con un debito ancora più alto e un pugno di mosche in mano.

I conti non tornano.

      L'Italia è divisa. A spaccarla non in due, ma in mille pezzi, non è il sindacato, come vorrebbe farci credere il Presidente del Consiglio. Non sono neanche solo gli effetti della crisi iniziata sette anni fa, ma decenni di politiche sbagliate che il disegno di legge di stabilità 2015 presentata dal Governo si guarda bene dal modificare. A nulla vale che i principali indicatori economici segnalino in modo evidente il fallimento delle risposte neoliberiste offerte alla crisi: il Pil stimato allo -0,2 per cento nel 2014, il debito al 136,4 per cento, la disoccupazione al 12,6 per cento a settembre 2015, quella giovanile al 42,9 per cento.
      Innanzitutto, manca una visione strategica pubblica del modello economico e industriale italiano. Come allora, la parola d'ordine del governo è quella di intervenire il meno possibile in campo economico, proseguendo nel programma di privatizzazioni, favorendo l'abbassamento del costo e dei diritti sul lavoro e continuando a fare regali fiscali alle imprese.
      Uno dei dogmi indiscutibili è (ancora) «Tagliare le tasse»: uno slogan indubbiamente popolare. Ma ci si dimentica di spiegare che esso comporta anche il taglio di servizi fondamentali per i cittadini e che i 4,2 miliardi di trasferimenti in meno agli enti locali provocheranno l'aumento delle tasse locali.


      Terzo. Il cambio di verso delle politiche di austerità è vero e falso nello stesso tempo. È vero perché il governo ha scelto di portare le previsioni di deficit per il 2014 al 3 per cento e per il 2015 al 2,6. È falso perché non implica una reale inversione di rotta, prevedendo come propone SEL con una campagna appena avviata insieme ad altri, tra i quali la rete «Sbilanciamoci!», l'abolizione dell'obbligo di pareggio di bilancio previsto in Costituzione. Semplicemente, il governo rinvia il raggiungimento del pareggio di bilancio al 2017 non potendo fare altrimenti.
      Quarto. Nella Legge di stabilità non c’è traccia di interventi seri per ridurre la forbice delle diseguaglianze. Gli 80 euro in busta paga escludono pensionati e disoccupati, mentre gli stanziamenti per i fondi sociali sono del tutto inadeguati. Si prosegue con la politica della beneficenza (bonus bebé, carta acquisti ordinaria e sperimentale), rinunciando anche quest'anno all'introduzione di uno strumento universalistico di sostegno al reddito. La copertura delle 150 mila assunzioni annunciate nelle Linee guida de «La buona scuola» è tutt'altro che sicura, mancano risorse per il funzionamento ordinario delle scuole, ma 471,9 milioni di euro sono previsti per finanziare le scuole private.
      Quinto. Per le imprese che investono in ricerca e sviluppo il governo mette a disposizione la cifra di 300 milioni. Per gli interventi contro il dissesto idrogeologico, nonostante gli annunci seguiti al disastro di Genova, sono previsti 190 milioni di euro aggiuntivi sul 2015 (il 9,7 per cento di quei due miliardi l'anno che servirebbero se davvero si volesse affrontare il problema). Si prosegue invece con gli investimenti nelle grandi opere (più di 3,2 miliardi), che hanno costi e tempi incerti e insostenibili dal punto di vista economico-finanziario, sociale e ambientale.
      Sesto. Si dimentica che la crisi economico-finanziaria non è stata provocata dalla mala gestione della finanza pubblica, ma dalle cattive speculazioni della finanza privata: nessuna traccia di quell'estensione della tassa sulle transazioni finanziarie ad azioni, obbligazioni e derivati che contribuirebbe a ridurre le speculazioni finanziarie.

La confusione fiscale della manovra di Renzi.

      Nella manovra di bilancio il fisco la fa da padrona. Sono fiscali i due interventi di spesa che più la caratterizzano, conferma del bonus 80 euro ed eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap (14,5 miliardi di spesa, 5 dei quali finanziati da precedenti interventi). Sul lato delle coperture, le condizioni della finanza pubblica costringono a rivolgersi ovunque vi sia speranza di raggranellare qualcosa, cosicché, a fianco dei tagli di spesa, viene prevista una serie di aumenti di imposte per più di 3 miliardi: aumento delle aliquote su rendimenti di fondi pensione e rivalutazione del Tfr, maggiori imposte su giochi, dividendi pagati alle società non commerciali, polizze vita e tassa di circolazione su veicoli storici, oltre a rivalutazione di terreni e partecipazioni e aumento dell'acconto sui lavori di ristrutturazione. Sono poi previste coperture per 3,8-4,5 miliardi dal contrasto all'evasione fiscale, per le quali si conta soprattutto sulle nuove modalità di pagamento dell'Iva e sull'incrocio delle banche dati. È fiscale l'enorme clausola di salvaguardia prevista per il 2016, quando scatteranno aumenti Iva per 13-17 miliardi, salvo non si trovino in corso d'anno coperture alternative. Sono, infine, fiscali le due maggiori sorprese, la manovrina da 2,1 miliardi sul 2014 consistente nella revoca retroattiva della riduzione delle aliquote Irap approvata solo qualche mese fa e i 2,3 miliardi previsti dalla tassazione Irpef del Tfr in busta paga.
      C’è poi da segnalare che secondo L'Ufficio parlamentare del bilancio la pressione fiscale rischia di salire dal 43,2 al 43,6 per cento nel 2016, ai massimi dal 1995, se scatterà la clausola di salvaguardia con l'aumento dell'Iva.
      In tutto ciò si rivela di nuovo una discrasia fra comunicazione e sostanza della manovra. A livello comunicativo si

punta tutto sulla riduzione fiscale, con enfasi tale da arrivare quasi a delegittimare lo stesso operatore pubblico, dato che viene spezzato il legame fra imposte e servizi pubblici, col risultato di far percepire la contribuzione come un inutile balzello pagato ad uno stato vorace e sprecone, arrivando addirittura ad additare ad esempio al paese la maggiore industria nazionale, malgrado essa abbia spostato all'estero la sede fiscale. A livello di interventi, invece, si opera in maniera disordinata e a trecentosessanta gradi per trovare maggiori entrate. In realtà, singolarmente presi, alcuni specifici interventi costituirebbero la parte forse più apprezzabile della manovra, nella misura in cui aggrediscono alcuni regimi fiscali di esenzione e di favore. Il problema però è che, al di là della necessità di alimentare le entrate, si fa fatica a cogliere un disegno complessivo nei provvedimenti fiscali contenuti nel disegno di legge di stabilità. La cosa è tanto più significativa in quanto il governo ha sul tavolo una legge delega già approvata sulla materia, che permetterebbe di dare organicità agli interventi.
      Rimane poi il fatto che tutti gli interventi fiscali si muovono su un piano che si fa fatica a ricondurre ai dettati costituzionali di capacità contributiva e progressività. Continuano infatti a dominare forme di imposizione separata e proporzionale, anziché comprensiva di tutte le fonti di reddito e progressiva. Lo stesso vale per il patrimonio, cosicché ricchi e poveri continuano a pagare le stesse aliquote su conti correnti, le stesse aliquote Imu, senza alcun tentativo di realizzare la progressività e realizzare una valutazione complessiva della capacità contributiva, né sul reddito né sul patrimonio. Sembra poi assente, qualunque azione decisa volta al contrasto dell'elusione e della competizione fiscale al ribasso fra paesi, così come un qualche ripensamento dell'anomalia costituita dalla sostanziale assenza, in Italia, salvo per i patrimoni di grande dimensione – che riescono comunque generalmente a eludere l'imposizione – della tassa di successione.

Quei tagli lineari della spending review.

      Con la spending review i famigerati tagli lineari alla Tremonti, messi in soffitta dal Governo Monti, tornano camuffati, scendendo solo nel dettaglio rispetto allo stile tremontiano per ritagliare linearmente i singoli capitoli di spesa.
      Lo stesso impianto della spending review non convince sul piano metodologico né si capisce come vengono stimati i risparmi effettivi, né si comprende quali siano gli strumenti poiché il suo vero fine è individuare i bersagli da mettere sotto il tiro della politica dei tagli alla spesa stabilita da Bruxelles ed eseguita dal Governo Renzi con la legge di stabilità.
      L'approccio generale non cerca la spesa inefficiente ma quella indesiderabile da un punto di vista politico, colpendo indiscriminatamente tutti gli ambiti del pubblico fino ad ipotizzare 34 miliardi di risparmi nel 2018 al lordo degli effetti sulle entrate. Proprio il termine lordo è quello che manca nel lavoro di revisione della spesa pubblica perché non specifica spesso cosa accade a seguito di una riduzione di budget per un ente locale, per un ministero o per qualsiasi altro soggetto pubblico.
      La spending review diventa lo strumento per colpire proprio i servizi pubblici tradizionalmente utilizzati da lavoratori e pensionati, come il trasporto pubblico locale e la sanità pubblica, si chiedono sforzi alle pensioni, mentre la legge di stabilità insiste nei premi fiscali a imprese come l'Irap. Manca totalmente una quantificazione degli oneri delle politiche dei grandi eventi, da ultima l'Expo di Milano, alle quali acriticamente ogni governo dona ingenti risorse dei contribuenti.
      Invece le pensioni, citate spesso nel lavoro di Cottarelli, debbono contribuire ai tagli di spesa con misure di facciata senza mai pensare a norme di carattere generale come il divieto di cumulo con altri redditi da attività lavorativa o d'impresa, almeno per le pensioni più corpose con un maggior beneficio per i giovani che potrebbero disporre di maggiore lavoro. Si pensi al

privilegio per alcuni pensionati che riescono a cumulare anche la fiscalità di contribuente minimo Iva, 5 per cento di imposta e rendita fondiaria tassata al 20 per cento.
      Quasi a sorpresa il settore Difesa, passato pressoché indenne tra i tagli delle ultime finanziarie, questa volta si trova in prima fila per sostenere una riduzione di circa 2 miliardi di budget nel 2016, ma poi sia la legge di stabilità sia la rigorosa spending review dimenticano lo spreco di denaro per gli F-35, rilanciano investimenti per la difesa, senza imporre un controllo trasparente e severo, come avviene in altri paesi, al pari del trattamento riservato ad altri settori.
      Ad esempio, il trasporto pubblico locale mostra il vero volto della spending review: meno contributi per i servizi pubblici compensati da un aumento delle tariffe. Il cambiamento consiste nell'erogare servizi pubblici a un prezzo calmierato bensì a prezzi pieni: pendolari e studenti dovranno pagare treni e gli autobus con biglietti più cari perché la fiscalità generale non deve contribuire più al diritto alla mobilità. Chi dispone di maggior reddito viene premiato, o lo dovrebbe essere, con minori imposte, mentre chi è meno abbiente, forse in cambio di un piccolo sconto sull'Irpef, disporrà di un minore accesso ai servizi pubblici. I servizi pubblici locali sono forse le vere «vittime», non tanto per i sacrifici delle amministrazioni locali, spesso accusate di cattiva amministrazione ma per quelli richiesti velatamente ai cittadini che si trovano a sostenere il carico dei tagli.
      Alla crisi delle acciaierie di Terni, che pesano per il 20 per cento del Pil dell'Umbria, la risposta del governo diventa una cura a base di tagli (4,2 miliardi annui per le regioni a statuto ordinario e 548 milioni per quelle a statuto speciale) e manganelli e non un certo un contributo al rilancio dell'economia locale, con la speranza che i tanti disperati dalla chiusura degli stabilimenti diventino capitani d'industria.
      Il commissariamento delle regioni, preannunciato nella spending review e inserito nella legge di stabilità, dovrebbe far riflettere invece sulla retorica federalista in cui la politica ha navigato da oltre vent'anni, rivedendo le competenze locali e il ruolo dello stato nazionale. Invece di ipotizzare costi standard, spesso fantasiosi, potrebbe costare assai meno e potrebbe essere molto più proficuo dal punto di vista dell'equità ripensare alcuni servizi pubblici locali in chiave nazionale, lasciando meno deleghe alle autonomie locali ma con maggiore autonomia effettiva.
      Infine, mancano tante analisi ancora nella spending review: politiche dei grandi eventi, costi effettivi delle grandi opere e una valutazione dei vantaggi presunti delle esternalizzazioni che stanno svuotando il settore pubblico della capacità di agire, a vantaggio di un approccio ideologico che vede nel privato la medicina, adeguata solo nei manuali di economia, ma non ancora provata in termini contabili.

Politica industriale, la grande assente.

      Al di là della valutazione di quanto espansiva risulterà, la legge di stabilità 2015 in approvazione al Parlamento ha un buco evidente. In essa non vi è alcun segnale di un utilizzo degli investimenti pubblici che segnali l'esistenza di una visione strategia del Governo Renzi sulla direzione da dare al nostro assetto produttivo in grave crisi.
      È un segnale che indica come, neanche come il solito annuncio – siamo ormai lontani dalle prime versioni del Jobs Act con l'indicazione dei settori strategici da attivare con specifici piani industriali, – il Governo Renzi si senta di precisare le linee di una politica industriale e dell'innovazione capace nel concreto, anche se in una prospettiva non breve, di contrastare le drammatiche condizioni e tendenze strutturali della produzione e dell'occupazione. Il governo è solo in grado di chiedere la fiducia su una legge finanziaria che mira di districarsi, in un'operazione che si

rivelerà di piccolo cabotaggio, tra la soggezione ai vincoli europei e la necessità di catturare il consenso dell'elettorato e in particolare degli imprenditori.
      Secondo l'Ufficio parlamentare del bilancio, il costo del lavoro per le imprese si è in pratica dimezzato: «una caduta di 23,9 punti dal 44,5 al 20,6 per cento», grazie all'effetto combinato del bonus di 80 euro e della decontribuzione per i neoassunti a retribuzione bassa.
      Se la memoria non farà difetto come al solito, si vedrà fra non molto come l'alleggerimento del costo del lavoro per le imprese non creerà quei maggior posti di lavoro che, con il medesimo sforzo finanziario, avrebbero potuto essere direttamente attivati con il finanziamento di un piano del lavoro finalizzato al rafforzamento del capitale pubblico e sociale, magari favorendo la rinegoziazione dei mutui contratti con la Cassa depositi e prestiti per gli enti locali disposti ad avviare rapidi interventi sul territorio e la cui urgenza ci è continuamente ricordata dai disastri idrogeologici e dalla fatiscente edilizia scolastica. Non solo, ma impegni locali in questa direzione non saranno certamente favoriti dal taglio dei fondi richiesti per il concorso degli enti territoriali alla finanza pubblica.
      Per quanto superfluo, va osservato che un segnale di un diverso approccio di politica industriale volta a sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili (oltre la riconferma dell'ecobonus), della valorizzazione dei beni culturali e del patrimonio artistico, dell'innovazione non può essere attribuito alla riproposizione di un credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo concesso «a tutte le imprese indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico in cui operano, nonché dal regime contabile adottato» (articolo 7); una forma tanto generica da non modificare i deludenti risultati del passato e talmente burocratica da non esporsi a prevedere nemmeno un sostegno per l'assunzione di giovani ricercatori da parte delle imprese.
      Il fatto che non vi sia un accenno concreto a un possibile impianto di politica industriale forse è meno sorprendente di quanto possa sembrare. La mancata considerazione di un intervento in questa direzione basato su un orientamento preciso degli investimenti pubblici sembra esprimere una sfiducia nella capacità dell'apparato statale a gestire questo obiettivo; se fosse così programmi di politica industriale sarebbero di fatto rinviati all'attuazione della riforma della burocrazia, cosa annunciata ma dai tempi presumibilmente molto lunghi.
      Ma non ci sembra questa la risposta. Il sospetto è che il vero indirizzo di politica industriale sia rintracciabile in due assi della politica economica del Governo Renzi; da un lato, la scelta di procedere nel processo di privatizzazioni e, dall'altro lato, nell'obiettivo di liberalizzare pienamente il mercato del lavoro. La decisione di cedere sul mercato quote significative di Eni ed Enel, tanto da portare la partecipazione pubblica al di sotto del capitale di controllo, non può essere giustificata dalla risibile esigenze di ridurre il debito pubblico (i 4,5 miliardi di introiti previsti sono una frazione di un centesimo del debito), ma è indicativa – come del resto viene ampiamente ripetuto dal nostro Premier – della sua convinzione che il nostro futuro produttivo dipende dall'arrivo di capitale straniero, o che comunque si è reso straniero. È allora trasparente – ed anche esplicitato – che un incentivo decisivo a tale processo di deterritorializzazione del nostro apparato produttivo è costituito dagli effetti attesi di un Jobs Act che, completando il processo da lungo avviato, rende il lavoro, passato e quello futuro, del tutto subordinato alle esigenze delle imprese.
      Una strategia che non ha bisogno di uno Stato investitore e, anzi, lo riduce a semplice gestore delle relazioni politiche e sociali in modo da renderle appetibili agli investimenti esteri. Come strategia miope e regressiva non è nuova; si colloca nella continuità di una classe politica, burocratica e imprenditoriale che non vuole e non è in grado di assumersi la responsabilità dello sviluppo della società.

L'unica speranza – per il Governo – sono arabi e cinesi.

      Le sofferenze bancarie in Italia viaggiano intorno al 9 per cento. Questo significa che su 100 euro prestati dalle banche a famiglie e imprese, ben 9 non vengono rimborsati da chi ha chiesto un prestito. Se sommiamo anche le partite incagliate, ovvero i prestiti non ancora in sofferenza ma su cui ci sono comunque gravi problemi di rientro, la situazione peggiora, e non di poco.
      Di fronte all'aumento delle sofferenze e alle difficoltà dell'economia, la reazione delle banche è quella di prestare sempre di meno. Se in tutta Europa assistiamo a una contrazione del credito, credit crunch nell'espressione inglese, il fenomeno è particolarmente pesante in Italia. La mancanza di credito peggiora la situazione delle imprese, che investono meno, così come i problemi per cittadini e famiglie portano a una riduzione dei consumi. Fattori che acuiscono difficoltà e recessione, il che spinge le banche a chiudere ulteriormente i rubinetti del credito. Recessione, credit crunch, problemi delle imprese, sofferenze bancarie formano una spirale che si autoalimenta.
      A fronte del calo dei prestiti erogati, salgono però i depositi bancari, con un aumento del 2,4 per cento su base annua. Come dire che, stante il perdurare di crisi, recessione e sfiducia, gli italiani risparmiano sempre di più e non consumano né investono. Nello stesso momento, la fuga di capitali dall'Italia ha ripreso ad accelerare, e viaggia ormai oltre i 30 miliardi di euro al mese. Tra agosto e settembre 2014 sarebbero stati 67 i miliardi di euro che hanno lasciato l'Italia. Una situazione di per sé preoccupante e ancora peggiore se leghiamo questi dati alla Legge di stabilità. Le misure principali, al di là della conferma degli 80 euro in busta paga che non sembra però avere avuto alcun effetto sui consumi o sulla crescita, è nella riduzione dell'Irap, finanziata essenzialmente tramite tagli alla spesa pubblica, anche se sarà necessario capire quali modifiche subiranno i diversi provvedimenti prima dell'approvazione definitiva. Al momento si può affermare che una manovra fondata su tagli delle tasse mediante tagli alla spesa rischia di avere effetti recessivi. A dirlo è in particolare il Fmi, che ha analizzato i moltiplicatori, ovvero per semplificare l'effetto sul Pil dei diversi interventi. Secondo tale studio, un taglio delle tasse avrebbe un moltiplicatore intorno a 0,17, mentre un taglio alla spesa pubblica avrebbe un moltiplicatore di 1,6. Come dire che un euro di taglio alle tasse ne produce 0,17 di Pil aggiuntivo, ma un euro di tagli alla spesa pubblica fa crollare il Pil di 1,6 euro. Dati che lo stesso governo cita nell'elaborazione dei documenti di contabilità, ma che incredibilmente portano poi a scelte di segno diametralmente opposto.
      Al di là dell'effetto recessivo, l'idea del governo è quella di affidare la presunta ripresa quasi integralmente al privato. L'unico compito dello Stato è farsi da parte riducendo l'imposizione fiscale. Quello che rimane di pubblico è diretto verso le grandi opere (Tav e Mose), o nello «sblocca-Italia» che prevede ulteriore consumo di suolo. Si va invece a tagliare sui trasferimenti agli enti locali, ovvero nell'erogazione dei servizi ai cittadini e in settori con maggiore potenziale occupazione.
      Tralasciamo quanto si possa definire di sinistra un tale approccio. Fatto sta che Renzi e Padoan dichiarano esplicitamente che «adesso gli imprenditori non hanno più scuse». Qui sta però il vero problema della Legge di stabilità. Le banche prestano sempre di meno; i cittadini non consumano e non investono, chi può porta i propri capitali all'estero, gli altri li depositano in banca; le imprese si trovano in enormi difficoltà a causa della lunga recessione e del calo dei consumi; lo Stato riduce la spesa pubblica: non si capisce bene chi debba trainare questa tanto sbandierata ripresa e con quali capitali.
      Se i soldi non arrivano né dallo Stato, né dai cittadini, né dalle imprese, né dalle banche, rimane una sola voce in cui sperare: gli investimenti esteri. Il caso Alitalia – Etihad potrebbe in questo senso essere l'esempio da seguire. Ed è allora logico che

il governo assuma come priorità il favorire il più possibile l'ingresso dei capitali stranieri. Una priorità che si traduce in una vera e propria corsa verso il fondo in materia ambientale (sblocca-Italia e silenzio-assenso sulle autorizzazioni ambientali proposto nell'ambito della riforma della Pubblica Amministrazione); sociale (Articolo 18 e ulteriore flessibilità sul lavoro); economico (si preme l'acceleratore sulle privatizzazioni); fiscale (tagli all'Irap e decontribuzione per i neoassunti).
      Ecco la visione proposta dalla legge di stabilità: una corsa verso il fondo per accaparrarsi a condizioni di favore pezzi del nostro Paese. Una gara tra Paesi arabi, cinesi, tedeschi e chiunque altro voglia partecipare.

III.    ANALISI DI ALCUNE DELLE MISURE PIÙ SIGNIFICATIVE DELLA LEGGE DI STABILITÀ

      Aggiungo alle considerazioni fin qui svolte qualche analisi critica su alcune delle misure più significative del disegno di legge di stabilità 2015.

Articolo 4 – Conferma del bonus di 80 euro.

      L'articolo 4, provvedendo alla stabilizzazione a regime, a partire dal 1 gennaio 2015, del c.d. «Bonus 80 euro», nella forma di un credito d'imposta, finalizzato, secondo gli intenti del governo, alla riduzione del c.d. «cuneo fiscale» per i lavoratori dipendenti e i titolari di alcuni redditi assimilati dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), quali quelli relativi a soci di cooperative, borse di studio, rapporti di co.co.co, remunerazione dei sacerdoti, ecc.
      Si ricorda che il credito spetta a coloro che hanno un reddito da lavoro «la cui imposta lorda, determinata su detti redditi, sia di ammontare superiore alle detrazioni da lavoro spettanti» (per chi ha lavorato tutto l'anno 8.000 euro di reddito) e che hanno un reddito complessivo inferiore a 26 mila euro (tra 24 e 26 mila euro il credito decresce fino ad azzerarsi in corrispondenza del limite di reddito superiore). La disposizione lascia pertanto inalterata la platea dei beneficiari prevista dal precedente decreto-legge n. 66 del 2014, che conta 10 milioni di italiani che percepiscono, appunto, tra gli 8.000 e i 26.000 euro di reddito annuo. La misura comporta un aumento della spesa per prestazioni sociali con un effetto di indebitamento netto per il bilancio statale pari a 9,5 miliardi di euro annui a decorrere dal 2015.
      Contestualmente, è dettata, al di fuori del testo unico, la disciplina dell'attribuzione del predetto credito agli aventi diritto da parte dei sostituti d'imposta, che compete con riferimento al numero di giorni lavorati nell'anno e che viene riconosciuto con continuità da gennaio a dicembre per un importo totale massimo di 960 euro annui (ad es. per quanto riguarda i giorni effettivamente lavorati ogni mese occorrerà divedere l'importo 960 euro per 365 giorni e moltiplicarlo per il numero di mesi nei quali si è effettivamente lavorato). I predetti sostituiti sono tenuti ad indicare l'importo del credito riconosciuto nel CUD.
      Con il «bonus» viene introdotto nel nostro sistema dell'IRPEF un concetto fortemente innovativo che abbatte l'imposta dovuta e, nei casi in cui non vi è capienza, la trasforma in un credito che origina rimborso o riporto all'anno successivo.
      Fino ad oggi il credito d'imposta era stato concepito in ambito IRPEF come un diritto che si matura quando sono state pagate in precedenza imposte il cui ammontare supera il dovuto (pagamento di acconti in eccesso, imposte già pagate all'estero o già scontate per il riacquisto della prima casa, per il reintegro delle anticipazioni sui fondi pensione, ecc.).
      Con la stabilizzazione del bonus viene introdotto anche nel nostro Paese il sistema denominato «tax credit», già adottato negli USA, che si detrae prima dall'imposta, e se in questa non vi è capienza, perché è pari a zero, viene comunque restituita al contribuente la quota parte

della detrazione non sfruttata (c.d. Earned Income Credit (EIC).
      La prima critica alla misura riguarda certamente i soggetti beneficiari del bonus, dai quali risultano ancora esclusi i pensionati ed i cosiddetti incapienti (soggetti con reddito inferiore a 8.000), cioè lavoratori dipendenti con imposta a zero in quanto annullata dalle relative detrazioni d'imposta.
      La seconda perplessità riguarda invece la dubbia equità della norma, sia riguardo alla tipologia ed al valore dei redditi percepiti da uno stesso soggetto (cosiddetta equità orizzontale), che riguardo alla tipologia ed al valore dei redditi complessivamente percepiti da tutti i soggetti componenti una medesima famiglia (cosiddetta equità verticale). Quanto alla prima (equità orizzontale) è evidente come, a parità di importo complessivo, possano essere favoriti i soggetti nella cui composizione reddituale concorrono oltre al lavoro dipendente anche altre tipologie di reddito. Questo dipende dall'attuale meccanismo che prevede la determinazione del bonus da parte del sostituto d'imposta sulla base delle sole informazioni in proprio possesso (generalmente il solo reddito di lavoro dipendente).
      Un esempio può essere significativo per evidenziare tale disparità: un lavoratore dipendente senza altri redditi e con un reddito di 27 mila euro non percepirà alcun bonus, a differenza di un lavoratore dipendente che, oltre a un reddito pari a 24 mila euro, possiede altri redditi (ad esempio di partecipazione) per un importo di 3 mila euro. Quest'ultimo in prima battuta percepirà dal sostituto d'imposta il bonus per intero che, successivamente, dovrà restituire o attivandosi presso il datore di lavoro o nella successiva dichiarazione (mod. 730). È evidente come in tali casi il meccanismo, oltre alla complicazione operativa introdotta, possa determinare situazioni di mancata restituzione del credito, anche involontaria, in particolare da parte di quei soggetti che non hanno nell'anno d'imposta rapporti di lavoro dipendente stabili e ben definiti (es. soggetti che non hanno più un rapporto di lavoro o che hanno rapporti di lavoro saltuari, ecc.).
      Quanto alla seconda situazione (equità di tipo verticale) è altrettanto evidente come nel sistema attualmente adottato possano essere favoriti i nuclei alla cui formazione del reddito familiare concorrono più soggetti percettori di reddito di lavoro dipendente (famiglie plurireddito), rispetto a quelli composti da un unico percettore di reddito di lavoro dipendente (famiglie monoreddito). Questo perché nel nostro Paese, il sistema di tassazione è di tipo individuale e non dipende dal reddito percepito dai diversi componenti del nucleo familiare. Ciò significa che a parità di composizione e di reddito complessivo familiare, con il bonus calcolato sul reddito individuale si creano condizioni di disparità tra famiglie monoreddito con figli a carico che non ricevono alcun beneficio dalla manovra governativa e famiglie, magari con più redditi e senza figli, che percepiranno più bonus. Sempre in riferimento alla equità di tipo verticale, è altrettanto evidente come il sistema attualmente adottato, a parità di reddito complessivo familiare e del numero dei soggetti che concorrono alla sua formazione, penalizzi maggiormente le famiglie più numerose.
      Una possibile soluzione sarebbe quella derivante dall'applicazione di un sistema equitativo già varato ma ancora poco operativo, utilizzato per l'accesso a numerose prestazioni dello stato sociale come l'ISEE, l'Indicatore delle Situazione Economica Equivalente.
      L'ISEE è uno strumento già oggi utilizzato da circa 6,5 milioni di famiglie per richiedere numerose agevolazioni e prestazioni sociali quali gli assegni per i figli minori e di maternità, l'accesso agli asili nido, la riduzione delle tasse universitarie, la determinazione dei tributi e delle tariffe comunali, ecc., e con cui si determina la situazione economica del nucleo familiare, tenendo conto dei redditi e del patrimonio mobiliare e immobiliare di ciascun componente la famiglia e della numerosità del nucleo.
      Da un punto di vista operativo sarebbe quindi auspicabile condizionare la concessione del Bonus 80 euro alla verifica dei limiti reddituali previsti utilizzando lo strumento dell'ISEE e dei suoi canali di determinazione dell'indicatore previsti. Il contribuente consegnerebbe il risultato dell'ISEE al proprio datore di lavoro il quale determinerebbe quindi un credito d'imposta (o bonus) sicuramente più rispondente a criteri equitativi.
      Già in occasione del suo esordio, nello scorso mese di aprile, abbiamo manifestato tutte le riserve circa la capacità della misura, (pur se tiepido ma tangibile segnale di giustizia redistributiva) di dare un significativo impulso all'economia grazie a quell'automatica spinta verso i consumi che si genererebbe da un'immediata ed aumentata disponibilità di denaro, soprattutto perché lasciava fuori dal perimetro dei beneficiari, i pensionati, gli incapienti e le cosiddette piccole partite Iva.
      Ma anche oggi come allora, nonostante i proclami degli ultimi mesi del governo di voler allagare anche a questi contribuenti la platea dei beneficiari, la legge di stabilità 2015 si limita soltanto a rendere strutturale la misura per gli stessi beneficiari, ma continua ad escludere una grande parte di cittadini, proprio quella che più sta subendo gli effetti recessivi della crisi, cioè gli incapienti e i pensionati. Maggior coraggio sul versante della spesa pubblica improduttiva, avrebbe consentito di porre rimedio, come era stato promesso, al permanere di questa stortura.
      Certo, quello degli incapienti, ad esempio, è un problema a lungo dibattuto e la cui mancata soluzione, comporta problemi di iniquità fiscale e di indebolimento di quegli effetti macroeconomici di rilancio della domanda interna tanto attesi, nella misura in cui sono proprio gli esclusi, e cioè i lavoratori più poveri, quelli ad avere la maggiore propensione al consumo. Paradossale se si pensa che la scelta dal governo si è orientata sin dal primo momento verso lo strumento del credito di imposta, (il bonus monetario), invece che verso le ordinarie detrazioni, proprio per adattare la novità alla specifica situazione degli incapienti, ma il paradosso è che i vincoli finanziari che hanno guidato la modulazione dell'intervento, hanno finito per impattare sulle regole distributive proprie dell'imposta sui redditi, mitigandone gli effetti.
      Il primo fra questi limiti, espressione dei vincoli che pesano sulla manovrabilità dell'Irpef, è rappresentato proprio dalla platea dei soggetti interessati dalla misura: nonostante il loro numero sia elevato, restano comunque esclusi da ogni beneficio oltre 29 milioni di contribuenti, tra i quali 15 milioni di pensionati, 4 milioni di dipendenti incapienti, 6 milioni di piccole partite Iva, 400 mila esodati e circa 3 milioni di disoccupati, tutti soggetti che non rilevano nella logica di «riduzione del cuneo fiscale», ma che avrebbero potuto avere un peso determinante nel conseguimento del parallelo obiettivo di rilancio dei consumi e della domanda interna aggregata.
      Il secondo limite è costituito dai meccanismi che regolano la fruizione e la perdita del bonus, come dimostrato appunto dall'automatica esclusione degli incapienti e che determina paradossali ricadute sotto il profilo distributivo: il soggetto con un reddito di 8.147 euro, essendo troppo «povero», non paga nulla di Irpef e, dunque, non ha diritto a vedersi riconosciuto il bonus; il soggetto appena meno «povero» (reddito di 8.148 euro) paga 1 euro di Irpef e, solo per questo, ha diritto a percepire i 960 euro riconosciuti dal provvedimento.
      Del resto, che l'atteso e salvifico effetto sui consumi aggregati si sarebbe rivelato molto modesto è stato confermato dalla stessa Confcommercio, secondo la quale l'effetto minimo positivo che l'incentivo avrebbe determinato, tra aprile e settembre, nel trend dei consumi, ha generato effetti deboli e insufficienti per affermare che la domanda delle famiglie sia giunta ad un incoraggiante punto di svolta: la crisi continua a impoverire le famiglie, le quali reagiscono contraendo i consumi, con conseguenze negative per imprese, industrie e occupazione.
      Per concludere, a sei mesi dalla erogazione del precedente bonus gli effetti sui consumi e sul PIL sono pressoché nulli. Infatti i primi sono cresciuti, nel secondo trimestre 2014 solo dello 0,1 per cento. Anche il secondo segue una linea recessiva e concluderà il 2014 tra -0,3 per cento e -0,5 per cento. Questo perché il Governo Renzi sottovaluta sia l'accresciuto livello di indebitamento delle famiglie italiane (ancorché meno elevato nel confronto internazionale), sia le attese negative che determinano maggiore propensione al risparmio, non meno dell'aumento della pressione fiscale locale che ha ridotto pesantemente l'impatto degli 80 euro. Preoccupa, inoltre, dell'impostazione del governo, la costante metodologica che segmenta il tessuto sociale per aree differenziate (sì ai redditi sino a 26.000 euro, no al lavoro autonomo, no ai pensionati, no agli incapienti) accentuando le diseguaglianze.
      Con riferimento alla disposizione, la nostra attività emendativa sarà pertanto orientata all'allargamento della platea dei beneficiari, includendovi anche incapienti e pensionati, trasformando lo stesso bonus in ulteriore detrazione (e non come la concessione di un credito), i cui maggiori oneri saranno finanziati attraverso un'imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze.

Articolo 5 – Riduzione IRAP.

      La norma persegue l'obiettivo di ridurre l'IRAP introducendo un intervento che ripristina, a valere dall'anno 2014, quindi con effetto retroattivo, le relative aliquote al livello di quelle antecedenti la riduzione operata in aprile dal cosiddetto decreto «Bonus 80 euro», stabilendo al tempo stesso la integrale deducibilità, a partire dal 2015, del costo del lavoro per i lavoratori a tempo indeterminato.
      La deduzione integrale, agli effetti IRAP, del costo complessivo sostenuto per lavoro dipendente, a tempo indeterminato, eccedente l'ammontare delle deduzioni analitiche o forfetarie (cioè l'ammontare complessivo dei relativi contributi assistenziali e previdenziali o l'importo forfettario variabile in base alla zona dell'impiego e alle caratteristiche soggettive del lavoratore), riferibili al costo medesimo e ammesse in deduzione in ragione delle disposizioni sull'IRAP. In sostanza, se la sommatoria delle citate deduzioni ad oggi vigenti è inferiore al costo del lavoro, spetta un'ulteriore deduzione fino a concorrenza dell'intero importo dell'onere sostenuto per lo stesso.
      La norma, che prevede il contestuale aumento delle aliquote, inoltre tiene conto del fatto che, secondo il criterio previsionale, alla data di entrata in vigore della legge di stabilità 2015, i contribuenti possano aver versato l'acconto IRAP per il periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2014, avvalendosi delle minori aliquote indicate nel suddetto decreto legge n. 66 del 2014 che aveva ridotte per tutti i soggetti passivi (aliquota ordinaria) dal 3,9 per cento al 3,5 per cento, mentre le aveva ridotte per le banche dal 4,65 per cento al 4,2 per cento, per le assicurazioni dal 5,9 per cento al 5,3 per cento, per il settore agricoltura e piccola pesca dall'1,9 per cento al 1,7 per cento, e per società di capitali ed enti commerciali titolari di concessioni per la gestione di servizi e opere pubbliche, diverse da quelle aventi ad oggetto la costruzione e la gestione di autostrade e trafori dal 4,2 per cento al 3,8 per cento.
      A tal proposito, ed al fine di mitigarne la retroattività, vengono fatti salvi gli effetti prodotti dalla citata norma; conseguentemente, in sede di versamento del saldo relativo al suddetto periodo d'imposta, avverrà il recupero della minore imposta versata a titolo di acconto IRAP (per il 2014) calcolato in ragione delle menzionate minori aliquote rispetto a quelle previste dal precedente regime IRAP.
      Poiché la norma prevede accanto all'aumento delle aliquote IRAP anche il contestuale riconoscimento alle imprese della completa deduzione del costo del lavoro per quei lavoratori che le stesse hanno assunto con contratto a tempo indeterminato, genera complessivamente una perdita di competenza per l'erario

pari a 5.006 milioni di euro nel 2015 e 4.368 milioni di euro a partire dal 2016, mentre per il 2014, anno in cui si sconta esclusivamente l'effetto legato all'aumento delle aliquote, è stimato un recupero di gettito di circa 2.059 milioni di euro.
      La retroattività della norma comporta una indubbia violazione dell'articolo 3 della legge n. 212 del 2000 (cosiddetto Statuto dei diritti del contribuente) che stabilisce il divieto di retroattività delle disposizioni tributarie. L'ennesima violazione dello Statuto del contribuente che non ammette norme fiscali valide «per il passato».
      Il taglio della componente lavoro andrà dunque calcolato sull'ammontare che risulta applicando le vecchie e più alte percentuali. Visto che vale solo per le uscite per il personale a tempo indeterminato, sarà avvantaggiato chi ha molti dipendenti stabili, mentre chi si avvale solo o soprattutto di personale a tempo determinato e collaboratori ci rimetterà. L'agevolazione varrà di più, inevitabilmente, per gli istituti di credito e le altre imprese che con il regime attuale pagano in media un'Irap più pesante. Inoltre occorre tener conto delle eventuali addizionali che possono stabilire le singole Regioni.

Articolo 6 – TFR in busta paga.

      Alla stessa stregua del Bonus 80 euro, il governo, provare a stimolare i consumi attraverso la concessione di un aumento di liquidità alle famiglie, disponendo che, in via sperimentale e per i periodi di paga tra il 1 marzo 2015 ed il 30 giugno 2018, i lavoratori dipendenti del settore privato, (esclusi quelli impiegati in attività domestiche o agricole, ed i dipendenti pubblici a cui la normativa comunque già nega la facoltà) occupati da almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro, (eccetto quelli in crisi o sottoposti a procedura concorsuale) hanno la facoltà di chiedere (quindi su base volontaria) la corresponsione in busta paga, ad integrazione della retribuzione, delle quote maturande del trattamento di fine rapporto (TFR), opzione che può essere esercitata anche con riferimento alle quote che il lavoratore avesse nel frattempo deciso di destinare a forme di previdenza complementare, ma che è irrevocabile per tre anni.
      Tale integrazione della retribuzione, che non è imponibile ai fini previdenziali, è però soggetta a tassazione ordinaria, con l'aliquota marginale del relativo scaglione, pur se non concorre al raggiungimento dei limiti di reddito previsti per usufruire della detrazione di cui all'articolo 4 e cioè il c.d. bonus 80 euro.
      Al fine di evitare il deflusso di risorse finanziarie per le Pmi (quelle con meno di 50 dipendenti) e mitigare l'impatto effettivo sulle stesse in termini di minore autofinanziamento o di costi di rifinanziamento, è previsto un meccanismo per il quale le stesse possano accedere ad un finanziamento, assistito da garanzia rilasciata da un Fondo istituito ad hoc (Fondo anticipo TFR detto FATFR) presso l'INPS, con una dotazione di 100 milioni di euro, e da garanzia dello Stato di ultima istanza, nonché da accordi con istituti di credito. A tal fine, l'INPS rilascia ai datori di lavoro che richiedono l'accesso al finanziamento una certificazione del trattamento di fine rapporto maturato da ciascun lavoratore, sulla cui base i datori di lavoro richiedono il finanziamento a una delle banche o intermediari finanziari aderenti all'apposito accordo-quadro.
      Agli stessi i datori di lavoro con meno di 50 addetti, che non optino per il suddetto meccanismo di finanziamento, credito di cui al successivo comma 5, vengono riconosciute misure compensative di carattere fiscale e contributivo, già previste per quelle imprese che versano il TFR a forme di previdenza complementare ovvero al Fondo di Tesoreria istituito presso l'INPS, misure peraltro previste anche ai datori di lavoro con numero di addetti pari o superiore a 50, in proporzione alle quote di TFR percepite dai lavoratori come parte integrativa della retribuzione.
      Di contro si prevede che per i datori di lavoro con meno di 50 addetti che optino per il suddetto meccanismo non si applichi

alcuna misura compensativa, ma piuttosto l'obbligo di versare al Fondo anticipo TFR un contributo pari allo 0,2 per cento della retribuzione, in proporzione alle quote di TFR destinate a parte integrativa della retribuzione.
      Le modalità di attuazione della disposizione ed i criteri, le condizioni e le modalità di funzionamento del Fondo di garanzia e della garanzia dello Stato di ultima istanza, saranno disciplinati da un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro dell'economia e delle finanze, da emanarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di stabilità.
      Il flusso totale annuo del TFR ammonta a circa 24 miliardi annui «contesi» da lavoratori, aziende, INPS e previdenza integrativa, dei quali 13 miliardi sono accantonamenti presso piccole imprese (quelle con meno di 50 dipendenti); 5,7 miliardi giacciono presso il Fondo di Tesoreria INPS, utilizzato, peraltro per calmierare i deficit del fabbisogno statale di cassa.; e 5,1 miliardi presso i fondi pensione. È evidente quindi che qualsiasi modifica nella destinazione di tale flusso di risorse finanziarie generi reazioni da parte degli interessati.
      Una parte di dibattito si concentra sul maggior prelievo fiscale sulle quote TFR trasformate in stipendio e tassate con l'aliquota marginale, rispetto alla tassazione separata operata, invece, al temine della vita lavorativa. Infatti nel decidere se optare o meno per l'anticipo del TFR in busta paga, andrebbe valutato il fatto che le somme maturate comporteranno un innalzamento dell'imponibile ai fini ISEE, modificando di fatto la platea di beneficiari di servizi aggiuntivi gratuiti come nidi e università, quindi riduzione delle detrazioni e delle agevolazioni oggi previste, in più la somma verrà tassata con l'aliquota marginale IRPEF (ma non concorrerà all'imponibile su cui si calcola il Bonus da 80 euro), anche perché uno dei vincoli fondamentali della norma riguarda il fatto che, una volta effettuata la scelta del Tfr in busta paga, questa non potrà essere revocata per i successivi tre anni.
      Secondo una simulazione, effettuata dall'ufficio studi della Cgil, su un reddito da 20mila euro lordi, l'anticipo del Tfr in busta paga comporterà come effetto netto la perdita di una quota mese Tfr (circa 40 euro) che se ne andrà in tasse. Oltre i 28.650 euro, l'anticipo si traduce in 300 euro di tasse in più all'anno per effetto della tassazione al 38 per cento. Di contro, con il passaggio dall’ aliquota agevolata a quella marginale lo Stato, invece, stima si possa registrare un effetto positivo nel 2015 sulla finanza pubblica fino a 2,246 miliardi.
      Studi di settore hanno confermato che la previsione normativa giovi in particolar modo allo Stato piuttosto che ai lavoratori. L'anticipo del Tfr sarà soggetto a tassazione ordinaria (non separata, come avviene quando viene consegnato alla conclusione del rapporto lavorativo), il che rappresenta, per l'erario, un gettito decisamente superiore rispetto all'eventualità che venisse mantenuto in azienda, o venisse trasferito all'Inps. Stessa cosa non si può dire per i fondi per la previdenza complementare, per i quali la tassazione è stata aumentata dall'11,5 per cento al 20 per cento, con efficacia retroattiva dal 1 gennaio 2014.
      L'anticipo del Tfr in busta paga avrà effetti piuttosto importanti dal punto di vista reddituale, poiché farà cumulo con gli altri redditi percepiti nel medesimo periodo d'imposta, con presumibili ricadute sulla determinazione delle detrazioni fiscali, sugli eventuali assegni familiari, e su tutto ciò è di altro determinabile come l'ISEE. L'unico punto sul quale l'anticipo non inciderà è il calcolo reddituale per l'ottenimento del bonus di 80 euro. Altro elemento da tenere presente, ai fini previdenziali e pensionistici, è che l'anticipo del Tfr non rientrerà nella contribuzione previdenziale.
      Più preoccupanti sono invece gli effetti macroeconomici legati all'operazione. Attualmente, infatti, le imprese ed i fondi pensione finanziano con il Tfr una parte del proprio attivo: ad esempio, le imprese possono usarlo per attuare progetti di investimento e i fondi pensione per investire in altre attività finanziarie. A livello aggregato, cioè dell'intera economia, queste risorse sono un'aggiunta netta alla formazione di capitale. Con la nuova previsione una parte del flusso annuale del Tfr sarà utilizzato invece per finanziare direttamente i consumi. Nel lungo periodo la quota di fondo che sarà liquidata per consumi e la conseguente diminuzione del risparmio privato potrebbe quindi ridurre gli investimenti e l'accumulazione di capitale, a meno che non sia compensata da investimenti esteri aggiuntivi. A ciò si aggiunga che, bonus 80 euro docet, l'effetto aggiuntivo sui consumi potrà essere minimo, dato che buona parte dell'anticipazione potrà essere risparmiata o utilizzata per ridurre i debiti pregressi.
      Infatti, gli studi sul consumo suggeriscono che per molte famiglie ciò che conta è il reddito vitale, non il modo in cui il reddito affluisce in un particolare mese o anno. Questo accade perché le famiglie cercano di mantenere un livello di consumo stabile nel corso del tempo, e utilizzano il risparmio e il debito per attutire le variazioni del reddito da un mese all'altro, da un anno all'altro o nel corso della vita. Per valutare l'effetto sui consumi della riforma, occorre in primo luogo ricordare che il Tfr in busta paga non rappresenta per un dipendente nuovo reddito, ma salario differito, o una semplice redistribuzione del reddito nel corso della sua vita lavorativa, ecco perché in prima approssimazione, e tralasciando gli aspetti fiscali e amministrativi, dare la possibilità a questi lavoratori di ricevere il Tfr in busta paga non ha alcun effetto sui consumi. Potrebbe avere un effetto sulla composizione della ricchezza perché alcuni potrebbero, ad esempio, decidere di non investire nella previdenza integrativa, ma in altre forme di risparmio. Potrebbe naturalmente averlo anche sull'indebitamento delle famiglie, perché alcuni potrebbero utilizzare il Tfr per ridurre i debiti, piuttosto che aumentare i risparmi; ma, appunto, in entrambi i casi non si tratta di aumento di consumo.
      Secondo la UIL la norma può pericolosamente incidere sugli accantonamenti di previdenza complementare con ripercussioni sui trattamenti futuri. Il TFR è infatti oggi la principale fonte di finanziamento della previdenza complementare e senza quel 6,91 per cento della retribuzione versato al Fondo pensione – e stante le retribuzioni medie particolarmente basse ed incapaci di favorire il risparmio previdenziale – l'accantonamento sarebbe assolutamente insufficiente ad assicurare una copertura di secondo pilastro adeguata alle future esigenze previdenziali. Infatti anche che sul flusso contributivo individuale il rateo di TFR può pesare per oltre il 60 per cento. È dunque evidente che l'interruzione del versamento del TFR al Fondo non potrà non avere ripercussioni sulle prestazioni future. Inoltre l'anticipo in busta paga del TFR vale solo per i lavoratori del settore privato e non per quello pubblico. Se nella visione del Governo questa decisione costituisce un vantaggio per i lavoratori, l'esclusione del comparto pubblico rappresenta una nuova pesante discriminazione per un settore già escluso dalla riforma della previdenza complementare: una situazione inaccettabile che esclude oltre 3 milioni di lavoratori da una possibilità di scelta offerta invece a tutto il resto del mondo del lavoro. È peraltro singolare che lo Stato da una parte chiede alle aziende di anticipare il TFR dei lavoratori, privandole di liquidità, dall'altra non lo fa lui per primo come datore di lavoro pubblico.

Articolo 7 – Credito di imposta per attività di ricerca & sviluppo.

      Viene modificata integralmente la disciplina del credito di imposta a favore delle imprese che investono in attività di ricerca e sviluppo, istituito dall'articolo 3 del decreto-legge n. 145 del 2013 (c.d. Bonus Letta per la ricerca e lo sviluppo) successivamente convertito in legge e tuttavia mai reso operativo per mancanza dei decreti attuativi. L'aliquota dell'agevolazione viene ridotta dal 50 al 25 per cento,

mentre resta al 50 per cento per le spese relative al personale altamente qualificato impiegato in attività di ricerca e sviluppo e per i contratti di ricerca con università ed enti di ricerca e start-up innovative. L'importo massimo fruibile per impresa è aumentato da 2,5 milioni a 5 milioni di euro, mentre la soglia minima di investimenti agevolabili è ridotta da 50 mila a 30 mila euro. Per poter beneficiare di questo strumento, gli investimenti devono essere effettuati dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 fino a quello in corso al 31 dicembre 2019.
      Insomma, dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità, sul credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo, ha partorito meno di un topolino. Il Governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall'esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l'Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell'offerta, si ritrova con un bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione dimezzato dal 50 al 25 per cento.
      Si ricorda che persino con il Governo Berlusconi era stato introdotto un credito di imposta pari al 90 per cento degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria Generale dello Stato spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal Governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10 per cento.
      A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50 per cento delle spese incrementali in ricerca a partire dall'esercizio 2014.
      La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare ed un credito di imposta di gran lunga depauperato del suo potenziale iniziale.
      In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario e a poco vale che la relazione illustrativa dell'articolo in esame preveda che ove sussistano soggetti beneficiari della normativa che cessa alla data del 31 dicembre 2014, le relative posizioni giuridiche soggettive saranno tenute in considerazione fino a poter costituire criterio preferenziale nel decreto del Ministero dell'economia e delle finanze con cui sono dettate le misure applicative della norma (il c.d. Bonus Letta ex articolo 3 del decreto-legge n. 145 del 2013), perché il testo del disegno di legge non fa alcun riferimento a questo criterio di preferenzialità.
      Ora la legge di stabilità cambia nuovamente le carte in tavola con un credito di imposta i cui effetti si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati.
      Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata. In questo modo si potevano premiare pienamente in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il PIL crollava e la deflazione prendeva il largo.
      In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande.
      Suscita, inoltre, perplessità l'impostazione eccessivamente universalista della norma in commento applicabile a tutte le imprese indipendentemente dal settore economico in cui operano e indipendentemente dal tipo di ricerca svolta. Vuoi che nell'ambito di questa norma non rientri anche la ricerca nel settore dell'industria militare? Ovviamente si. Si ritiene, quindi, incredibile come questo Governo invece di varare norme con un minimo di universalismo nei settori in cui dovrebbe farlo come quello della redistribuzione del reddito (vedi bonus 80 euro, piuttosto che il neo-bonus per le neomamme), nei settori in cui, invece, dovrebbe individuare gli asset strategici su cui investire concretamente non lo fa adottando principi di un generalismo quasi stucchevole.
      Come si è detto, la prima delle modifiche apportate rispetto al testo originario riguarda il periodo di applicazione della misura. Nella nuova versione, l'agevolazione decorrerà dal 2015 (anziché dal 2014) e resterà operativa per 5 anni (anziché 3). Del beneficio potranno fruire tutte le imprese senza limiti di fatturato (decade quindi il vincolo che escludeva le aziende con fatturato superiore a 500.000 euro, né vincoli relativi alla forma giuridica o al settore economico di appartenenza. L'investimento minimo annuale in ricerca e sviluppo richiesto per poter accedere all'incentivo è di 30.000 euro, a fronte dei 50.000 euro della versione precedente, mentre il limite annuo di credito di imposta fruibile viene innalzato a 5 milioni di euro rispetto ai 2,5 milioni precedenti.
      La misura del bonus è pari al 25 per cento dell'incremento della spesa per ricerca e sviluppo sostenuta in ciascuno dei cinque anni di imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2014, rispetto alla media della spesa sostenuta nei tre esercizi antecedenti al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2015. Non più quindi una media mobile come nella precedente versione, che raffrontava le spese di ricerca e sviluppo dell'esercizio per il quale si intendeva calcolare il credito di imposta con la media delle spese sostenute nei tre esercizi immediatamente precedenti ad esso, bensì un media di rendimento «fissa».
      Per le sole voci a) e c) (ovverosia spese per personale altamente qualificato e contratti di ricerca stipulati con università ecc) si prevede che il credito di imposta venga riconosciuto nella misura del 50 per cento della spesa sostenuta, senza però fare riferimento al criterio incrementale rispetto ad una media di riferimento.
      Il credito d'imposta deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi, non concorre alla formazione del reddito, né della base imponibile dell'imposta regionale sulle attività produttive.
      Per quanto concerne i controlli, sono svolti dal soggetto incaricato della revisione legale o dal collegio sindacale o da un professionista iscritto nel registro della revisione legale sulla base della documentazione contabile certificata, allegata al bilancio. Le imprese non soggette a revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale devono comunque avvalersi della certificazione in questione, avvalendosi di un revisore legale dei conti o di una società di revisione legale dei conti. Le spese sostenute a questo scopo sono ammissibili entro il limite massimo di 500 euro. Le imprese con bilancio certificato sono esenti dall'applicazione di tale obbligo. Qualora, a seguito dei controlli, si accerti l'indebita fruizione, anche parziale, del credito d'imposta, l'Agenzia delle entrate provvede al recupero del relativo importo, maggiorato di interessi e sanzioni. Il monitoraggio delle fruizioni del credito d'imposta è effettuato dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.
      Si dispone, inoltre, la cessazione delle agevolazioni di cui all'articolo 24 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (ovvero il contributo tramite credito di imposta per le nuove assunzioni di profili altamente qualificati), destinando le relative risorse al credito d'imposta in parola. Si prevede, inoltre, la cessazione alla data del 31 dicembre 2014, e la conseguente destinazione delle relative risorse al credito d'imposta in commento, anche delle agevolazioni – mai rese concretamente operative – previste dall'articolo 1, commi da 95 a 97, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (credito d'imposta per ricerca e sviluppo).
      Per quanto attiene al costo dell'intervento, la relazione tecnica quantifica gli effetti finanziari netti recati dall'articolo in esame in 218, 95 milioni di euro nel 2015, 392, 15 milioni di euro nel 2016, 483, 15 milioni di euro nel 2017, 510,45 milioni di euro nel 2018, 510, 45 milioni di euro nel 2019, 127, 45 milioni di euro nel 2020... praticamente niente rispetto a quanto investe la Francia annualmente su questa misura. Chissà poi quanto reggerà la copertura finanziaria di riferimento.

Articolo 9 – Regime fiscale agevolato per i lavoratori autonomi. (2)

      Il nuovo regime allargherà la platea dei beneficiari fino a 900 mila persone alle quali verrà applicato un aumento dell'aliquota Irpef che passerà dall'attuale 5 per cento allo stratosferico 15 per cento.


    (2) Vedi R. Ciccarelli – Il Manifesto – 27 ottobre 2014.

      Il nuovo regime ha provocato una levata di scudi da parte di alcune associazioni della categoria dei lavoratori autonomi per i quali il bilancio dei primi mesi del governo Renzi è molto magro: fuori dalla platea del bonus 80 euro, come pensionati e precari; nessuna estensione degli ammortizzatori sociali previsti nel Jobs Act; significativo aumento dei contributi per 1 milione ed 800 mila parasubordinati iscritti alla gestione separata Inps che nel 2015 passano dal 27,72 per cento al 29,72 per cento, fino al 33,72 per cento nel 2019, ed adesso le tasse triplicate sul reddito.
      Matteo Renzi si commuove per l'intraprendenza dei giovani americani che avviano start up nella Silicon Valley, ma triplica le tasse agli under 35 italiani che scelgono di seguire la stessa strada. All'estero mostra la faccia di chi ha capito la differenza tra l'Iphone e il gettone, in patria aumenta le tasse e i contributi previdenziali per chi usa l'Iphone per lavoro e il gettone l'ha lasciato nel museo. Il paradosso è contenuto nell'annunciata riforma del nuovo regime dei minimi che entrerà in vigore nel 2015.
      Si introduce una rimodulazione del sistema di agevolazione fiscale per i contribuenti a partita Iva – gli autonomi stella polare dell’«innovazione» celebrata oggi nel Palazzo e nel Pd – per favorire l'imprenditoria giovanile. Si tratta di una beffa colossale. Il nuovo regime allargherà la platea dei beneficiari fino a 900 mila persone alle quali verrà applicato un aumento dell'aliquota Irpef che passerà dall'attuale 5 per cento allo stratosferico 15 per cento. Questo regime fiscale verrà applicato a coloro che guadagnano tra i 15 mila e i 40 mila euro lordi all'anno. È ormai noto che i giovani professionisti, consulenti, gli startuppers tanto cari a Renzi guadagnano attorno alla prima soglia, poco meno o poco più, mentre artigiani commercianti si attestano sulla seconda.
      Ad esempio, un giovane architetto di 28 anni con 10.500 euro di compensi annui pagherebbe 1.460 euro, 240 euro in più degli attuali. In questa condizione si ritroverà chi è nel regime dei minimi attuale sino a quando non compirà i 35 anni o avrà concluso i primi 5 anni di attività. Sempre che nel frattempo non sia costretto a migrare verso il lavoro nero o rassegnarsi alla disoccupazione.
      Il Governo così tanto sensibile alle «nuove professioni» favorisce il lavoro autonomo tradizionale e ben protetto da rappresentanze di categorie e da lobbies e non i freelance senza tutele né garanzie che scelgono (o sono costretti) all'attività in proprio.
      In precedenza il lavoro autonomo di «seconda generazione», così lo hanno definito Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, poteva utilizzare il regime agevolato fino ai 30 mila euro di fatturato. Renzi, invece, prospetta un taglio del 50 per cento e aumenta le tasse. Nella bozza della legge di stabilità il governo ha prospettato inoltre un contributo da 800-900 milioni di euro per gli autonomi.
      Considerata l'impostazione della riforma fiscale, si capisce subito a chi andranno questi soldi. «Se il governo non è in grado di progettare una seria revisione del carico fiscale per i freelance – sostiene Anna Soru, presidentessa dell'associazione dei freelance Acta – che almeno offra lo stesso trattamento assicurato ai dipendenti:

gli 80 euro del bonus Irpef. Sarebbe anche questo un modo per riconoscerci cittadinanza». Non sarà così. Nella legge di stabilità questi soldi non ci sono.
      Blanditi, e poi tartassati, questi autonomi sono un segmento del popolo apolide del quinto stato. Non sono dipendenti, né titolari di impresa. Non sono tutelati dai sindacati e, molti di loro, saranno travolti dall'aumento dei contributi alla gestione separata dell'Inps stabilito da un altro governo «riformatore», quello di Monti con Elsa Fornero al ministero del lavoro.
      Oltre alle nuove tasse, questi iscritti rischiano di dovere pagare l'aumento dei contributi dall'attuale 27,72 per cento al 33,72 per cento nel 2019. Il loro reddito di povertà (in media sotto i mille euro al mese) verrà massacrato e alla fine di un'incerta carriera professionale non potrà assicurare probabilmente nemmeno una pensione sociale. Se il tanto decantato Steve Jobs avesse aperto una partita Iva nel nostro paese l'avrebbe chiusa perseguitato dai creditori. In Italia può accontentarsi di un panino alla prossima edizione della Leopolda.

Articolo 11 – Disposizioni in materia di ammortizzatori sociali.

      La disposizione è finalizzata a costituire un Fondo che consenta di estendere l'ambito di operatività degli strumenti di tutela del reddito, in costanza di rapporto di lavoro ed in caso di disoccupazione involontaria, a favore di settori e lavoratori che attualmente non ne fruiscono, anche in prospettiva dell'attuazione della legge di delega al Governo denominata «Jobs Act», che prevede, oltre alla revisione dell'ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, anche di universalizzare l'applicazione, in caso di disoccupazione «involontaria», degli ammortizzatori sociali, con l'estensione dell'assicurazione sociale per l'impiego (Aspi) ai co.co.co.
      Per far fronte ai relativi oneri viene istituito nello stato di previsione del Ministero del lavoro un apposito fondo con una dotazione di 2 miliardi di euro a decorrere dal 2015, cifra in cui dovrà rientrare anche il finanziamento degli ammortizzatori in deroga, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive. Nel dettaglio, la RT stima che si spenderanno 1,5 miliardi per finanziare la maggiore spesa derivante dalla suddetta riforma degli ammortizzatori sociali. I restanti 500 milioni, invece, saranno destinati alla contribuzione figurativa, cioè a quei contributi «fittizi», non versati né dall'azienda né dal lavoratore, ma dallo Stato, in caso di sospensione del lavoro.
      La precedente versione della legge, quella diffusa nella fase di pre-Consiglio dei Ministri, stanziava 1,6 miliardi nel 2015 e 2,0 miliardi nel 2016 destinati al suddetto Fondo per la riforma degli ammortizzatori sociali. Il testo definitivo stanzia una dotazione di 2 miliardi per il solo 2015 e non riporta la precedente previsione del comma 2, che incrementava di 400 milioni di euro il Fondo sociale per l'occupazione per rifinanziare gli ammortizzatori in deroga. Il saldo risulta pertanto negativo per 2 miliardi (1,6 0,4).
      Si tratta di un'insufficienza grave che rende inadeguate le risorse disponibili in rapporto all'ambito vasto dei provvedimenti in cantiere (Jobs Act). Il 2015 è destinato, inoltre, a diventare un anno critico poiché la permanente necessità di ricorrere agli ammortizzatori in deroga sarà indebolita dall'entrata in vigore dei nuovi criteri restrittivi per l'ammissione. La scopertura è tanto più grave se si considera che negli anni 2013-2014 la spesa media annua per i soli ammortizzatori in deroga è stata pari a 2,5 miliardi di euro.
      Per dare un'idea delle cifre su cui la legge interviene, nel solo anno 2013, l'Inps aveva versato 23 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali, tra cassa integrazione, mobilità, assegni di disoccupazione Aspi: di questi, 9 miliardi erano contributivi figurativi.

Articolo 12 – Sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato.

      Al fine di promuovere forme di occupazione stabile, la disposizione dispone l'esonero dal versamento dei complessivi contributi a carico dei datori di lavoro, per un periodo massimo di trentasei mesi (tre anni) e nel limite di un importo di esonero pari a 8.060 euro su base annua, con riferimento alle nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, con esclusione dei contratti di apprendistato e dei contratti di lavoro domestico, decorrenti dal 1 gennaio 2015 e stipulati entro e non oltre il 31 dicembre 2015. Questo beneficio non si estende però alla contribuzione e agli oneri INAIL, che di conseguenza dovranno essere versati.
      Nella norma, però, non è stato inserito alcun vincolo che disincentivi l'azienda dal licenziare il dipendente al quarto anno, quando cioè l'agevolazione si esaurisce.
      L'esonero spetta a patto che si tratti di nuove assunzioni di lavoratori che nei sei mesi precedenti non siano stati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro e per i quali tale beneficio non sia già stato usufruito in relazione a una precedente assunzione a tempo indeterminato. Inoltre esso non può inoltre essere cumulato con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente. Nessun vincolo invece per quanto riguarda eventuali riduzioni di organici, anche le imprese che lo abbiano fatto negli ultimi anni o mesi potranno accedere all'incentivo.
      La disposizione inoltre opera la contestuale abrogazione dell'incentivo previsto per le assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di trattamento straordinario di integrazione salariale
      Ogni mese l'Inps consegnerà al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nonché al Ministero dell'Economia e delle Finanze, un report contenente il monitoraggio del numero dei contratti incentivati attivati e il calcolo delle conseguenti minori entrate contributive.
      Per il finanziare la misura il governo, secondo il quale la norma interesserà circa 790.000 lavoratori, ha stanziato 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e 500 milioni per il 2018, a valere sulla corrispondente riprogrammazione delle risorse del Fondo di rotazione (Fondi strutturali) e destinate agli interventi del Piano di Azione Coesione, che, dal sistema di monitoraggio del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, risultano non ancora impegnate alla data del 30 settembre 2014.
      Dal momento che l'agevolazione, essendo riconosciuta solo per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato fa automaticamente decadere altre due misure di incentivi, come la stabilizzazione degli apprendisti e l'assunzione di disoccupati di lunga durata, il Governo confida di sfruttare il minor costo di tali fattispecie trasferendo le relative risorse sul nuovo incentivo. Ma secondo l'economista Tito Boeri ne necessiteranno almeno il doppio.
      La netta differenza di stime si basa su tale ragionamento: bisogna incamerare la previsione che le aziende, in presenza di incentivi, cambino i propri comportamenti in materia di assunzione. È infatti è presumibile, ad esempio, che in questi ultimi mesi del 2014 si abbia un rallentamento in attesa delle nuove agevolazioni nei contratti da gennaio in poi (quando ci sarà un piccolo boom). Allo stesso modo si può immaginare che a fine 2015 ci sia un nuovo picco, perché saranno gli ultimi mesi di assunzione agevolata.
      Secondo Boeri, il Governo non terrebbe conto di questo andamento, ipotizzando che la misura sia destinata a creare un milione di posti di lavoro e distribuendo i nuovi contratti uniformemente nel corso dell'anno. Il risultato è che la durata media incentivata nel 2015 è misurata, erroneamente, in sei mesi, mentre dal 2016 il costo sale perché a quel punto bisogna calcolare tutti i contratti attivati l'anno precedente, visto che l'agevolazione dura 36 mesi. Dal 2018, poi, la spesa dovrebbe iniziare a scendere, fino ad esaurirsi

con lo scadere dei 36 mesi degli ultimi contratti attivati.
      Boeri invece fa i calcoli ipotizzando un andamento diverso: concentra il 40 per cento delle nuove assunzioni 2015 nel primo e ultimo mese dell'anno, ipotizzando un 20 per cento in gennaio e un altro 20 per cento in dicembre. Il restante 60 per cento viene uniformemente distribuito fra febbraio e novembre. E con questo metodo, la stima dei costi 2015 sale a 3 miliardi. C’è una differenza di 1,1 miliardi, gap che invece, dal 2016, fra le stime del governo è quella di Boeri, scende a 400 milioni.
      Il Ministro dell'economia, Pier Carlo Padoan, ha già dichiarato che l'Esecutivo è pronto a rifinanziare la manovra: il problema è che, se si confermasse l'andamento sopra descritto, le sole assunzioni di gennaio brucerebbero i primi 600 milioni. Poi, bisogna calcolare circa 180 milioni al mese. In pratica, la soglia del miliardo e 900 milioni si supera entro fine agosto 2015 e già da settembre sarebbe necessario lo stanziamento aggiuntivo. Probabilmente, il Governo conta sul fatto che, per quella data, la ripresa economica sia già iniziata e che quindi le copertura ci siano senza bisogna di manovre aggiuntive.
      Un'altra variabile che incide sulla differenza fra i due calcoli è rappresentata dalla valutazione del salario medio: il Governo prende come base i dati INPS mentre Boeri quelli EU-Silc.
      Un'ulteriore variabile è la soppressione delle precedenti agevolazioni sull'assunzione di disoccupati e apprendisti. Per gli apprendisti Boeri prevede che le imprese preferiscano attendere la nuova decontribuzione per tre anni, più cospicua rispetto a quella attualmente prevista (che dura un anno). Per i disoccupati di lunga durata, invece, si sostituisce un incentivo al 50 per cento con uno al 100 per cento, che però non comprende i premi INAIL. Tendenzialmente sarà più conveniente la nuova formulazione nonostante il tetto massimo di decontribuzione a 8.060 euro (stipendio medio di 1.500 euro al mese). Sopra questa cifra l'azienda paga solo la quota dei contributi eccedenti e quindi resta sempre più conveniente del precedente incentivo.
      La norma così come è stata scritta, sostanzialmente senza limiti e condizioni e con nessun riferimento all'incremento del numero dei lavoratori, potrebbe essere aggirata e diventare un incentivo alla sostituzione dell'occupazione piuttosto che un incentivo per aumentare il numero degli occupati.

Articolo 13 – Misure per la famiglia (Bonus bebé).

      L'articolo prevede l'introduzione del cd. «bonus bebé» grazie al quale, dal 1 gennaio 2015 fino al 31 dicembre 2017, verrà riconosciuto un assegno di importo annuo di 960 euro (pari a 80 euro mensili) erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione, fino al compimento del terzo anno d'età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare.
      Il bonus verrà erogato dall'INPS ai genitori che hanno un reddito annuale complessivamente non superiore a 90 mila euro.
      Per chi invece ha un reddito sopra i 90mila euro il bonus sarà erogato solo dal quinto figlio in poi.
      Come evidenziato dalla Relazione tecnica del Governo, si stimano in circa 415 mila i nuclei familiari annui che beneficeranno del bonus bebé.
      Si introduce comunque una clausola di salvaguardia in virtù della quale, nel caso di scostamenti dalle previsione di spesa l'importo annuo di 960 euro e il limite di reddito 90 mila euro, verranno rivisti.
      L'effetto del bonus è sterilizzato ai fini Irpef, ossia non concorre alla formazione del reddito.
      Come esplicitato dal comma 4, il bonus bebé costerà – dal 2015 al 2020 -3,642 miliardi di euro.
      Il comma 6, infine stanzia 298 milioni per il 2015, da destinare a interventi a favore della famiglia.


      Si sottolineano tre aspetti:

          1) le risorse impegnate per il bonus bebé dovrebbero essere più efficacemente utilizzate – se si vogliono realmente sostenere le famiglie con figli – verso il rafforzamento dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. E ciò consentirebbe (al contrario del bonus) di investire nel futuro del Paese, rispondere meglio alle esigenze reali dei genitori meno abbienti, e dare nuove opportunità di occupazione. Ricordiamo come in base agli ultimi dati Istat, in Italia vivono in situazione di povertà relativa 1.822.000 minorenni, pari al 17,6 per cento di tutti i bambini e gli adolescenti. Il 7 per cento dei minorenni vive in condizioni di povertà assoluta. Inoltre negli ultimi anni il reddito delle famiglie degli adolescenti in stato di povertà assoluta è diminuito del 31 per cento. Uno dei principali problemi del nostro Paese e che contribuisce fortemente al costante calo demografico, risiede principalmente nella forte carenza di adeguati servizi all'infanzia a supporto delle famiglie, e di politiche mirate a sostenere le pari opportunità tra uomini e donne. Da un rapporto Istat dello scorso anno sull'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio educativi per la prima infanzia in Italia, emerge che i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5 per cento al Sud al 17,1 per cento al Nord-est, mentre la percentuale dei comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 24,3 per cento al Sud all'82,6 per cento al Nord-est. Il dossier di «Cittadinanzattiva» 2012, ha confermato in pieno le difficoltà in questo ambito: le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. I genitori di un bambino su quattro (23,5 per cento) restano in lista d'attesa e sono costretti a rivolgersi altrove;

          2) un altro versante dove poter dirottare più efficacemente le risorse del bonus bebé, sta nella revisione degli strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; nel riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità; nell'aumentare la durata temporale e l'indennizzo del congedo parentale; nel riconosciuta alle donna madri della contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio; nell'aumento di sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici; ecc;

          3) se proprio si vuole mantenere il bonus bebé, va evidenziato come in una situazione di profonda crisi come quella attuale, dove aumentano le famiglie in stato di povertà e il sistema di welfare non riesce a garantire tutti, il tetto dei 90mila euro annui stabilito dal governo per poter beneficiare del bonus, è troppo elevato. In presenza di risorse limitate, è indispensabile abbassare sensibilmente quel tetto al fine di garantire davvero che a beneficiarne siano i genitori disoccupati, i lavoratori precari, chi sta patendo maggiormente la crisi economica.

Articolo 21 – Blocco dei contratti del Pubblico impiego.

      Comma 1 – Blocco contratti.

      Il comma 1 estende al 2015 la previsione introdotta dalla legge di stabilità dello scorso anno, la quale aveva previsto le procedure contrattuali e negoziali, nelle amministrazioni pubbliche, relative al biennio 2013-14, possono avere luogo solo per la parte normativa e non già per la parte economica, e senza possibilità di recupero successivo di quest'ultima.
      Per comprendere la disposizione di cui al comma 1 bisogna fare un passo indietro e ricordare che con atto del Governo n. 9, presentato in avvio della presente XVII legislatura, adottato sulla in base all'articolo 16, comma 1 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (recante Misure urgenti per la stabilizzazione della finanza pubblica) è stato presentato alle Camere il «regolamento

in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti».
      Tale regolamento protrae per il biennio 2013-14 il «blocco» della contrattazione per il pubblico impiego e mantiene preclusi, per quel biennio, incrementi a titolo di indennità di vacanza contrattuale (la quale continua ad essere corrisposta nelle misure di cui all'articolo 9, comma 17 del citato decreto legge 31 maggio 2010, n. 78).
      L'esame di questo schema di decreto del Presidente della Repubblica si è concluso con il parere delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Lavoro della Camera nella seduta del 19 giugno 2013. Va ricordato che nel predetto parere della Camera si chiedeva che il regolamento consentisse almeno la contrattazione per la parte normativa, limitando il blocco a quella economica (mentre lo schema di regolamento conteneva il blocco per entrambe). La legge di stabilità dello scorso anno dava seguito a tale richiesta della Camera rendendo facoltativa la contrattazione per la parte normativa.

      Comma 2 – Blocco dell'indennità di vacanza contrattuale.

      Il comma 2 estende al 2018 quanto è stato stabilito dalla legge di stabilità dello scorso anno, per il triennio 2015-2017, in materia di indennità di vacanza contrattuale. Gli incrementi della indennità di vacanza contrattuale sono bloccati e il loro ammontare resta pari agli importi attuali, che sono quelli in godimento al 31 dicembre 2013.

Articolo 26, comma 10 – Riduzione dei contributi ai patronati sindacali.

      Per l'esercizio finanziario 2015 si prevede la riduzione complessiva e proporzionale di 150 milioni di euro degli stanziamenti per il finanziamento degli istituti di patronato e assistenza sociale di cui all'articolo 13, comma 1, della L. 152/2001. I risparmi così ottenuti conseguono a maggiori somme effettivamente affluite al bilancio dello Stato, in deroga a quanto previsto dallo stesso articolo 13 della L. 152/2001, secondo cui il prelevamento di un'aliquota di contribuzione (attualmente pari allo 0,226 per cento) non può avere destinazione diversa dal finanziamento dei suddetti istituti di patronato ed assistenza sociale.
      Secondo quanto riportato nella Tabella n. 4 dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (cap. 2230), per il 2014 la dotazione per il finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale (cap. 4331) è pari a 342,44 milioni di euro (valori per competenza). Tuttavia le risorse destinate agli istituti di patronato e di assistenza sociale hanno già subito una riduzione per effetto di quanto stabilito dall'articolo 12, c. 12-terdecies, del decreto-legge 78/2010 il quale ha disposto, per ciascuno degli esercizi finanziari 2011-2013, una riduzione degli specifici stanziamenti iscritti nelle U.P.B. dello stato di previsione del ministero del lavoro e delle politiche sociali a favore dei finanziamenti degli Istituti di patronato e di assistenza sociale, complessivamente e proporzionalmente nella misura di 30 milioni di euro annui. Da ultimo, l'articolo 1, c. 9, della L. 228/2012, pur escludendo, fino alla riforma degli istituti di patronato e assistenza sociale, la riduzione dei stanziamenti, dispone tuttavia che il raggiungimento degli obiettivi di riduzione di spesa del Ministero del lavoro e delle politiche sociali venga comunque assicurato, a decorrere dal 2014, per un importo di 30 milioni di euro, anche mediante l'attuazione dell'articolo 7, comma 15, della L. 135/2012. Tale ultimo comma prevede che il Ministero dell'economie e delle finanze – a fronte di proposte di riduzione di spesa dei singoli Ministeri non adeguate a conseguire i risparmi prefissati – debba riferire al Presidente del Consiglio dei ministri ed, eventualmente, con la legge di stabilità, disporre la corrispondente riduzione delle spese rimodulabili in precedenza accantonate.


      La legge di stabilità, oltre a prevedere per il 2015 il taglio di 150 milioni di euro del Fondo Patronati, dimezza dall'80 al 45 per cento gli anticipi che vengono versati ai Patronati sulle somme spettanti. Un'ulteriore «mazzata», visto che i servizi vengono svolti anticipando le spese e i Patronati sono ancora in attesa di ricevere i saldi del 2011 e degli anni successivi. Dal 2016, poi, verrà semi-chiuso direttamente il «rubinetto» di finanziamento del Fondo, con la riduzione dell'aliquota di contribuzione allo 0,148 per cento. Senza peraltro specificare se ciò si tradurrà in un più alto stipendio netto per i lavoratori o se le somme saranno destinate ad altro. Ma col risultato certo di dimezzare definitivamente il Fondo patronati. Il taglio complessivo di risorse è pari a circa 298 milioni di euro su 430.
      Tutti i lavoratori versano un contributo per avere assistenza da parte dei Patronati e il governo Renzi taglia il fondo e incamera questi soldi. Poi dimezza sia le anticipazioni sia l'aliquota di contribuzione.
      E così il sistema dei Patronati che conta 10mila addetti sparsi in oltre 5mila uffici in Italia e all'estero sarà costretto a chiudere la gran parte degli sportelli, licenziare almeno 7mila persone e ciò che è più grave non fornire più ai cittadini servizi essenziali su previdenza e assistenza. I Patronati infatti offrono servizi di intermediazione gratuita al cittadino che gli enti statali non garantiscono più. L'Inps si è riorganizzata spostando tutto il personale, 6.500 dipendenti, prima destinato al rapporto con il pubblico; le questure hanno demandato ai patronati l'istruzione di tutte le pratiche per i permessi di soggiorno degli stranieri. Lo Stato, grazie al lavoro dei patronati, risparmia 564 milioni di euro per l'Inps, 63 milioni per l'Inail, 30 milioni per il ministero degli Interni, senza contare il resto. Eppure il Governo Renzi e la sua maggioranza li condanna alla chiusura o, nel migliore dei casi, a una ristrutturazione straordinaria che porterà a non poter più offrire i servizi che i patronati assicuriamo oggi, con la conseguenza che i presunti «risparmi» si pagheranno in termini di minore tutela dei cittadini, un impoverimento per tutti e in special modo per la parte più debole del Paese. Ancora una volta la scelta rientra in una logica punitiva nei confronti del sindacato e di tutto ciò che è corpo intermedio tra cittadini e Stato.

Articolo 33 – Gestione della Tesoreria dello Stato.

      La questione derivati è stata sollevata in Commissione Bilancio da un nostro intervento (Paglia) che chiedeva una più approfondita riflessione del Governo con riguardo alla modifica apportata al testo unico in materia di debito pubblico, di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 398 del 2003, dall'articolo 33, comma 1, lettera b), numero 3), del disegno di legge di stabilità, il quale prevede che il Tesoro è autorizzato a stipulare accordi di garanzia bilaterale in relazione alle operazioni in strumenti derivati. Nel ricordare come, nel corso dell'esame della legge di stabilità per il 2014, una disposizione di analogo contenuto sia stata soppressa su iniziativa del Governo stesso, osservava come anche in sede di esame della legge di stabilità 2015 sarebbe stato opportuno un intervento volto a sopprimere tale norma, che, a suo avviso, riconosce al Tesoro, nell'ambito di una materia di particolare complessità, qual è quella degli strumenti derivati, una possibilità che esula dalle sue ordinarie competenze.
      Il Governo tramite il Viceministro Enrico MORANDO, ha evidenziato – a suo dire – come la norma, finalizzata a permettere, mediante l'utilizzo della gestione di Tesoreria, l'adozione di un sistema di garanzie bilaterali per la gestione delle operazioni in strumenti derivati del Tesoro, si sia resa necessaria alla luce del contesto regolatorio e di mercato attualmente in essere e sia stata adottata nell'esclusivo interesse del Paese. Osservando, in particolare, che le garanzie potranno essere costituite da disponibilità liquide o da titoli di Stato e che, in entrambi casi,

non si ipotizzano maggiori spese o minori entrate a carico del bilancio dello Stato.
      Nella mancanza di trasparenza (3) che caratterizza da sempre la gestione dei contratti derivati da parte del ministero, non è facile avanzare un giudizio sulla novità regolamentare. Quello che possiamo fare è descrivere in cosa consiste e valutarne l'impatto sulla gestione del debito con un esempio ancorato a numeri che riteniamo plausibili.
    (3) Articolo di Umberto Cherubini – Lavoce.info – 18Nov14.

      Quello che oggi sappiamo dei contratti derivati del ministero dell'Economia è che si tratta di circa 160 miliardi di valore nozionale (cioè il valore di riferimento dei contratti) e non ne conosciamo il valore attuale (il cosiddetto mark-to-market). Sappiamo che 100 miliardi sono swap su tassi (contratti per il cambiamento dei flussi da fisso a variabile o viceversa), 35 swap su valute (scambio di flussi di pagamento in valute diverse) e il resto contratti di tipo più strutturato ed esotico. Sappiamo da un'analisi comparsa sulla stampa per un campione di contratti rinegoziati che il loro valore attuale era negativo per il ministero per circa il 25 per cento del valore nozionale. Erano 8 miliardi di passivo su 31,5 di nozionale: in pratica significa che se i contratti venissero chiusi oggi, il ministero dovrebbe pagare 8 miliardi per compensare la differenza di valore attuale tra i flussi futuri da ricevere e quelli da pagare. La percentuale di passivo sul nozionale è alta e probabilmente legata a un campione particolare, e il fatto che siano stati rinegoziati non autorizza a ritenere che questa percentuale possa essere uno stimatore corretto del valore del passivo complessivo.
      Con i dati di cui disponiamo, possiamo solo proporre un esercizio per far capire cosa potrebbe cambiare con la nuova regola.
      Consideriamo solo i 100 miliardi di derivati su tassi di interesse e assumiamo che siano tutti raccolti in un unico contratto a dieci anni, in passivo per il 10 per cento. Il tutto è calcolato con i valori di mercato del 30 settembre. Sulla base di queste ipotesi, le banche sarebbero esposte a una perdita di 10 miliardi nel caso che la Repubblica italiana andasse in default immediatamente. Sulla base delle nostre ipotesi semplificate, possiamo calcolare quanto sarà l'esposizione attesa tra un anno, che scenderà a 8,35 miliardi. Possiamo calcolare l'esposizione al default nel primo anno come la media dei due valori. Poi moltiplichiamo il tutto per lo spread a un anno (probabilità di default, 0,665 per una perdita del 50 per cento in caso di default) per ottenere una perdita attesa nel primo anno di circa 35,550 milioni. Possiamo poi ripetere l'analisi per il secondo, il terzo anno, fino alla maturità. Alla fine, sommando tutte quelle attese avremo la perdita attesa complessiva, che sarà intorno ai 440 milioni. È la somma che le banche detraggono dal valore di questi derivati e iscrivono a bilancio per tenere conto del rischio Italia: è quello che in gergo si chiama Cva (Credit Valuation Adjustment).
      Cosa succederà con la nuova regola? Finirà l'epoca dell'esposizione delle banche: il ministero e gli istituti bancari sottoscriveranno quello che in gergo si chiama Csa (Credit Support Annex), per il quale a cadenza periodica la parte in passivo depositerà una somma corrispondente, in cash o titoli privi di rischio, presso l'altra parte, a garanzia del contratto. Quale sarà la differenza? Possiamo dire che, nell'esempio precedente, il ministero depositerà 10 miliardi di garanzia (collateral), e con gli stessi calcoli di prima possiamo stimare che a fine anno la garanzia richiesta sarà scesa a 8,35 miliardi. Come prima possiamo calcolare che nell'anno verserà una media tra i 10 miliardi iniziali e gli 8,35 miliardi finali. Quale sarà il costo di questi versamenti? Sarà ancora lo spread, che sarà anche qui di circa 35,550 milioni. Possiamo poi ripetere l'analisi per il secondo, il terzo anno, e così via, e alla fine ritroveremo, sotto forma di costi per interessi, i 440 milioni.


      Sembra quindi un quesito enigmistico del tipo: le due immagini differiscono per due particolari, scovateli. La prima differenza è una lettera: si passa dal Cva al Csa. La seconda differenza è sostanziale: il rischio di credito in derivati con la Repubblica italiana sparisce dai bilanci delle banche e ricompare, sotto forma di costi di finanziamento (funding cost), nei bilanci dei contribuenti italiani.
      L'aumento di spesa per interessi, infatti, alla fine dovrà essere finanziato con tagli di spese o aumenti di tasse.
      È vero che l'esempio è di carta, ma la specificazione richiederebbe dettagli tecnici che non abbiamo, e che sono difficili da spiegare in maniera esaustiva. Ad esempio, il rischio di controparte targato Italia è tipicamente contabilizzato nelle banche con lo spread dei Cds (credit default swap), mentre rispunterebbe nei bilanci degli italiani come spread del Btp rispetto al tasso swap: i due spread sono molto vicini, ma non sono esattamente la stessa cosa.
      Non sappiamo se questa possibilità di depositare collateral sarà associata ad altre innovazioni che invece potrebbero fare la differenza: ad esempio, la possibilità di depositare garanzie sulle esposizioni nette invece che su ognuna di esse. Comunque sia, il segno dell'effetto dell'operazione resta immutato: si trasforma rischio di credito che ora giace nelle banche in spesa futura per interessi a carico del bilancio dello Stato.
      Forse i 440 milioni del nostro esempio sono pochi? Ricordiamo che ci siamo riferiti a una perdita di 10 miliardi su 100, e sappiamo dai giornali che ce ne sono almeno altri 8. È molto facile, sulla base di ipotesi meno favorevoli delle nostre, arrivare a varcare il miliardo di euro. Una questione essenziale, poi, è se le nuove norme si applicheranno solo ai nuovi contratti, o anche ai vecchi. Se si applicano ai vecchi, è molto probabile che parte dei 440 milioni di perdita attesa dell'esempio siano già stati caricati sul bilancio pubblico sotto forma di quelle che vengono chiamate «commissioni occulte».
      Pare di poter concludere che i contribuenti italiani non meritino di accollarsi questo aumento di spesa. Il ministero ha replicato che si tratta di un'opportunità nelle loro mani e non di un obbligo.

Articolo 43 – Razionalizzazione delle società partecipate locali.

      Incentivi fiscali e mobilità del personale per le società che si sciolgono, esclusione dal Patto di stabilità per le entrate prodotte da dismissione o quotazione di aziende di servizi pubblici locali, a patto che i proventi siano utilizzati per investimenti, e obblighi rafforzati nella gestione associata degli affidamenti.
      La legge di stabilità 2015 mette sul piatto un primo pacchetto di regole «taglia-partecipate», rivolto a Regioni ed enti locali ma anche a Università, Camere di commercio e Autorità portuali: regole che si applicano anche all'igiene urbana e agli altri settori regolati da Authority indipendenti (come l'energia).
      Queste disposizioni rappresentano il tentativo iniziale di tradurre in pratica gli slogan governativi sul passaggio «da 8mila a mille» aziende partecipate. Ma al momento sembra una prima bozza da arricchire e coordinare meglio con le altre norme di finanza locale.
      Un primo capitolo di misure è di diretta derivazione «cottarelliana», e impone alle amministrazioni pubbliche citate sopra di avviare un piano di razionalizzazione per «eliminare le società e le partecipazioni non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali», cancellare i doppioni di aziende attive nello stesso settore, aggregare le società di servizi pubblici locali e contenere i costi di funzionamento di cda e strutture varie.
      Obiettivi complessi, che vanno scritti in un piano da approvare e pubblicare entro il 31 marzo e da attuare nel corso del 2015, contando appunto sui bonus fiscali e sulle regole di gestione del personale già scritte (senza troppo successo) nella legge di stabilità dell'anno scorso. In linea con il

«piano Cottarelli» è anche l'esclusione dal Patto dei proventi da alienazioni e quotazioni, anche se alla luce del super-alleggerimento del Patto prodotto dalla legge di stabilità il bonus potrebbe risultare meno allettante.
      Un altro gruppo di interventi prova invece a rinforzare norme già scritte in vecchi provvedimenti, ma rimaste spesso confinate alla carta.
      È il caso, in particolare, degli «ambiti territoriali ottimali» che secondo la manovra-bis del 2O11 (articolo 3-bis del DL n. 138/2011) avrebbero dovuto gestire gli affidamenti dei servizi a rete. Si danno due mesi di tempo agli enti locali per aderire ai nuovi Ato, dopo di che scatterebbe una diffida ad adempiere in altri 30 giorni e poi si prevede il potere sostitutivo da parte della Regione (qualche volta però sono le Regioni a essere inadempienti).
      Gli Ato avrebbero inoltre l'obbligo di scrivere un piano economico-finanziario per assicurare gli investimenti infratrutturali, premessa necessaria per vedersi assegnare i fondi europei (da destinare prioritariamente a gestori scelti con gara oppure «certificati» come efficienti dall'Autorità di settore).
      Per contrastare gli affidamenti diretti, però, si prevede anche un ulteriore obbligo di accantonamento di risorse da parte degli enti locali, che sarebbero obbligati a creare un fondo per una somma pari all'impegno finanziario corrispondente al capitale proprio previsto per il triennio.
      Il tentativo del Governo Renzi è quello di offrire ai centri finanziari europei un grande affare: quello della privatizzazione dei servizi pubblici locali.

IV.    LE 10 PROPOSTE DI SEL PER UNA MANOVRA ALTERNATIVA

Proposta n. 1 – Per un'altra Europa.

A – Deficit al 4 per cento per il triennio 2015-2017.

      In considerazione del persistere, anzi dell'aggravarsi degli effetti del ciclo economico negativo che si protrae ormai da troppi anni, senza che si intravveda una soluzione nel breve periodo, Il Governo deve predisporre una manovra per triennio 2015-2017 – seguendo l'esempio francese – che preveda un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil.
      Lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresenta una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni. La Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3 per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato. La Germania è in surplus commerciale eccessivo (supera il 6 per cento ed andrebbe sanzionata per «disavanzo eccessivo»). Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date.
      Tra accuse reciproche in un gioco in cui l'attribuzione della responsabilità della crisi è sempre e regolarmente dell’«altro», si è finiti sull'orlo di un suicidio collettivo. La Bce bacchetta i governi del Sud e del Nord: i primi per le mancate riforme, i secondi, in particolare la Germania, perché non si fanno motore di una ripresa della domanda attraverso un'espansione di bilancio. I governi francese e italiano si lamentano di un rallentamento inaspettato (sic!) dell'economia. I tedeschi accusano i Paesi che non hanno seguito la via del rigore e delle riforme di non rispettare i patti. Ma, per una ragione o per l'altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola.
      Un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare

e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale.
      Il Trattato di funzionamento della UE (TFUE) all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamento e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento). Se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti. Una fissa dello 0,2 per cento del PIL, e una variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento. Se il deficit è pari al 4 per cento l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili.
      I mercati non sembrano reagire negativamente alla decisione francese: all'indomani delle dichiarazioni del Ministro delle finanze i titoli di stato sono stati piazzati con gli stessi tassi di interesse richiesti nelle aste dei giorni precedenti. Probabilmente l'enorme liquidità fornita dalla manovre della FED e della stessa BCE conosce qualche difficoltà a trovare impieghi più renumerativi.
      Il rispetto rigoroso delle regole e il sottostare ai parametri imposti dai trattati deve essere un comportamento seguito da tutti i partners europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate. Stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/Pil da parte dell'Italia.

B – Conferenza sul debito – Revisione dei trattati europei.

      Va sostenuta con forza negli organismi europei la posizione del Governo francese per il superamento temporaneo del tetto dell'indebitamento del 3 per cento, e colta l'occasione per una verifica ed una profonda riforma del Fiscal compact, del Six pact e delle altre disposizioni fiscali contenute nei Trattati europei.
      Il Governo si deve impegnare in Europa per ottenere la moratoria, per almeno un quinquennio, sull'applicazione delle misure obbligatorie di abbassamento del debito prevista dal fiscal compact nonché la modifica delle modalità di calcolo dei saldi corretti per il ciclo che penalizzano soprattutto Paesi come il nostro in prolungata recessione. Occorre battersi con determinazione per non conteggiare nei saldi validi ai fini dei Trattati UE i finanziamenti degli investimenti pubblici finalizzati al Piano per il lavoro e al co-finanziamento dei Fondi europei.
      Occorre, in particolare, ottenere lo scorporo nel bilancio delle Pubbliche amministrazioni degli investimenti pubblici in opere di piccole e medie dimensioni, a grande assorbimento di lavoro, relativi ai settori sottoelencati dal computo dell'indebitamento netto delle PP.AA. rilevante per i vincoli dei Trattati europei:

          a) pubblica istruzione, università, ricerca;

          b) messa in sicurezza degli edifici scolastici;

          c) riqualificazione delle periferie attraverso piani di recupero;

          d) interventi di salvaguardia dell'assetto idrogeologico dei territori;

          e) recupero, salvaguardia e sviluppo del patrimonio artistico e ambientale;

          f) interventi di risanamento delle reti di distribuzione delle acque potabili;

          g) potenziamento del trasporto pubblico locale con particolare riguardo al pendolarismo regionale e al trasporto su ferro;

          h) interventi di risparmio energetico attraverso l'utilizzo delle energie rinnovabili.

      Proponiamo una Conferenza sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 sulla Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra, prevedendo la rinegoziazione del debito che eccede il 60 per cento del Pil.
      La politica macro-economica rimane la variabile decisiva per avviare lo sviluppo, che deve basarsi soprattutto su una forte ripresa della domanda aggregata e su di un piano ragionato e massiccio di investimenti pubblici. Soltanto così si possono determinare effetti positivi sulla quantità e qualità dell'occupazione. Insistere per la preliminare attuazione di riforme strutturali vuol dire ingigantire gli ostacoli e aggravare le condizioni dell'economia. Ostacoli a questa impostazione sono le regole europee invecchiate e non più rispondenti all'eccezionalità della crisi attuale, come il Fiscal Compact, e quelle che hanno strutturato sin dall'inizio la filosofia di funzionamento dell'Unione: il Patto di Stabilità e Crescita e, soprattutto, il divieto per la Banca centrale di finanziare direttamente i debiti pubblici. Basterebbe trarre insegnamento dagli errori compiuti nell'uscire dalla crisi degli anni trenta per far divenire l'esito disgregante di quell'esperienza un monito che chiami a iniziative ben più radicali e consistenti di quelle che sono attualmente in discussione nelle riunioni europee.
      Dalla crisi si esce solo con la fine delle politiche di austerità, con politiche espansive ed un nuovo intervento dello Stato e, nell'immediato, in particolare, si dovrebbe operare uno scorporo di alcune tipologie di spese e di investimenti dal calcolo dei saldi validi al fine del rispetto del Patto di stabilità e crescita. Tale scorporo, più volte proposto da autorità politiche ed esperti economici in Italia e in Europa, permetterebbe una ripresa della domanda pubblica che è necessaria – in assenza di un'adeguata dinamica della domanda per consumi, investimenti ed export – per condurre l'economia fuori dall'attuale depressione. Gli investimenti nei suddetti settori sono rilevanti in primo luogo per gli effetti aggregati sull'economia, che vedrebbe un aumento del Pil e quindi un miglioramento degli indicatori di sostenibilità del debito. In secondo luogo, l'investimento in tali settori condurrebbe l'Italia ad avvicinarsi in misura significativa agli obiettivi di Europa 2020 in una varietà di campi sociali e ambientali.

C – Un green new deal continentale.

      Proponiamo un Piano Europeo per l'Occupazione (un green new deal continentale) il quale stanzi almeno 300 miliardi di euro con risorse pubbliche nuove ed aggiuntive rispetto a quelle già stanziate (diversamente da quanto sembra previsto dal cd. «Piano Juncker»), per dare occupazione a 5-6 milioni di disoccupati o inoccupati (di cui un milione in Italia): tanti quanti sono quelli che hanno perso il lavoro dall'inizio della crisi, dando priorità a interventi che rispettano il diritto ad un ambiente sano e integro, al contrario di quanto fanno molte grandi opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione, agevolando la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili, la creazione di un'agricoltura biologica e multifunzionale, il riassetto idrogeologico dei territori, la valorizzazione non speculativa del patrimonio artistico, il potenziamento dell'istruzione e della ricerca, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, l'innovazione tecnologica, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese, etc.);
      Questo Piano deve essere finanziato a livello europeo per consentire all'insieme

dell'Unione di uscire dal ristagno economico proponendo:

          a) la concessione di crediti da parte della Bce al tasso d'interesse più basso, riservata a istituzioni finanziarie pubbliche – in Italia la Cassa Depositi e Prestiti – impegnate a realizzare il programma di investimenti pubblici necessario all'uscita dalla crisi;

          b) l'emissione di titoli garantiti dall'Eurozona finalizzati alla realizzazione di tali investimenti (eurobond);

          c) l'emissione di liquidità in modalità non convenzionali da parte della Bce a copertura di tale programma d'investimenti.

Proposta n. 2 – Un Piano per dare lavoro a un milione di disoccupati.

      Proponiamo di destinare le risorse che risulterebbero dal portare temporaneamente il deficit al 4 per cento del Pil, circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che preveda misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza attraverso la messa in opera di un Programma Nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Deal italiano. L'asse di un Piano per il lavoro, deve consistere innanzitutto nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, l'innovazione tecnologica, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese,...).
      Proponiamo le seguenti misure per uscire dalla recessione e promuovere un modello di politica economica che faccia leva prioritariamente sullo sviluppo della domanda interna e rilanci l'occupazione:

          1) il pieno utilizzo delle somme relative al Quadro di Coesione e Sviluppo 2014-2020 pari circa 84 miliardi;

          2) la redistribuzione del peso fiscale dai redditi bassi alle rendite ed ai patrimoni che avrebbe un benefico effetto espansivo stimolando i consumi;

          3) l'utilizzo dei fondi della CDP che potrebbero finanziare un programma di «piccole opere» di investimenti degli enti locali, restando fuori dal bilancio consolidato delle pubbliche amministrazioni valido per il calcolo dell'indebitamento netto;

          4) la revisione del Patto di stabilità interno per consentire gli investimenti degli enti territoriali;

          5) interventi sulle emergenze sociali quali la proroga delle CIG e delle mobilità in deroga, un maggior sostegno all'utilizzo dei contratti di solidarietà, il rinnovo dei contratti per i precari della PA impiegati in servizi;

          6) la previsione di un reddito minimo garantito per i soggetti disoccupati, precariamente occupati o in cerca di prima occupazione;

          7) la definizione di interventi prioritari di politica industriale, concernenti l'innovazione e la ricerca;

          8) ad approvare un ambizioso piano per la messa in sicurezza del territorio italiano, in termini di sicurezza geologica, idrogeologica ed agroalimentare, in grado di tutelare il territorio ed i suoi abitanti e sviluppare un comparto industriale con potenzialità di volano per l'economia nazionale e elevata qualificazione degli operatori anche per i mercati esteri;

          9) ridurre le spese con le seguenti misure:

              a) revisione delle priorità della legge obiettivo (ossia le grandi opere pubbliche): investire le limitate risorse pubbliche disponibili in opere infrastrutturali che siano realizzabili in tempi certi e con

modalità sostenibili, sia in termini di vincoli di bilancio, che, soprattutto, dal punto di vista ambientale e sociale, procedendo innanzitutto a riequilibrare le risorse di provenienza pubblica tra quelle destinate alla costruzione di grandi opere e quelle devolute ad un programma di opere pubbliche di piccole e medie dimensioni, con particolare riferimento ad interventi di manutenzione in ambito stradale e ferroviario;

              b) riduzione delle spese militari a partire delle spese per sistemi d'arma (Fregate FREMM e F35); la riduzione del personale anche nella prospettiva di Forze armate europee, la fine della missione militare in Afghanistan;

              c) chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione (CIE);

              d) uso di software open source per le pubbliche amministrazioni;

              e) riduzione dei costi della politica riducendo i livelli di governo, riducendo il numero dei membri dei CdA delle società partecipate e contenendo la proliferazione dei servizi «esternalizzati», riducendo drasticamente le consulenze, provvedendo altresì alla revisione dei compensi per i manager ed i rappresentanti politici, ecc...

      Questo Piano può essere finanziato in deficit ma anche (come risorse aggiuntive) con le seguenti iniziative:

          a) alcune misure fiscali: un più severo regime di tassazione sull'utilizzo di nuove risorse territoriali; maggiori oneri per l'utilizzo di risorse pubbliche (concessioni); l'introduzione di tasse ambientali; la soppressione di molte delle agevolazioni generiche ed inutili alle imprese; la tassa sulle transazioni finanziarie estesa ed applicata anche ai derivati;

          b) riallocazione più efficiente della spesa pubblica, più che una spending review una spending reallocation;

          c) utilizzo delle risorse raccolte attraverso l'alienazione di quote di società direttamente o indirettamente di proprietà dello Stato;

          d) utilizzo dei Fondi strutturali europei. Si tratta di circa 41 miliardi di euro di fondi nuovi stanziati dall'Unione europea per il settennato 2014-2020. Il totale tra fondi provenienti dall'Unione europea e co-finanziamento italiano, statale e regionale, si aggira attorno agli 80 miliardi di euro;

          e) costituzione di una Green Bank: i flussi di credito della Cassa Depositi e Prestiti (CDP) dovrebbero essere orientati in direzione di iniziative che incrementino o sostengano l'occupazione, l'innovazione tecnologica, la crescita del settore dell'economia verde, con la costituzione di una «Green bank» con a disposizione circa 10 miliardi di capitale;

          f) utilizzo di altri «portafogli» vincolando le Fondazioni bancarie e gli enti previdenziali obbligatori e complementari a quote di investimenti nei programmi previsti dal Piano per il lavoro. Si possono utilizzare in maniera più efficace ai fini occupazionali i beni confiscati alle mafie.

      La disoccupazione colpisce le persone nella loro dignità personale e sociale; è un problema capace di mettere a rischio le fondamenta della democrazia. Nonostante l'Italia stia bruciando centinaia di miliardi per inseguire la chimera del pareggio di bilancio (che da prima della classe, senza che le fosse richiesto, ha inserito anche in Costituzione), il debito pubblico italiano continua a crescere.
      La politica e le istituzioni continuano a proporre politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro inefficienti, che si infrangono contro una disoccupazione che ha numeri talmente alti che, affidandosi al mercato e all'iniziativa privata, non basterebbero 15 anni di boom economico per riportarla al livello che gli economisti definiscono «fisiologico». Invece, stiamo attraversando una fase in cui è presente un eccesso di offerta di lavoro e una indisponibilità delle imprese a realizzare nuove assunzioni anche con gli incentivi.


      Resta disponibile una sola strada per cercare di risollevare il declino verso il quale l'Italia si è avviata: lanciare un piano nazionale di occupazione diretta da parte dello Stato, che dia un'occupazione in tempi rapidi alla moltitudine di uomini e donne che oggi sono fuori dal mercato del lavoro.
      Si chiede allo Stato e agli enti locali di realizzare progetti di lavoro che impieghino lavoratori disoccupati o che percepiscono ammortizzatori sociali, soprattutto lavoratori svantaggiati e molto svantaggiati, secondo le definizioni del diritto. Poiché il programma nazionale è sperimentale e ha una durata prevista di tre anni, i lavoratori possono essere assunti con contratto a tempo determinato, assicurando, anche con contratti successivi e per la realizzazione di più progetti, che l'impiego possa durare fino a un massimo di trentasei mesi. Le risorse individuate per realizzare i progetti superano i 50 miliardi di euro in tre anni.
      Con il piano del lavoro «Green New Deal» si riescono a risolvere contemporaneamente sia i problemi del lavoro che quelli del recupero del sistema Italia, sotto l'aspetto ambientale, idrogeologico, patrimoniale e della sicurezza.
      Nella trappola della crisi, il Green New Deal pone al centro le questioni dell'inclusione, della giustizia sociale, della lotta alla povertà e del rilancio dell'economia per far crescere una nuova coscienza sociale e un nuovo modello produttivo. Solo offrendo un posto di lavoro dignitoso ad un grande numero di persone l'Italia può tornare ad avere una prospettiva di futuro: contrastando così la povertà assoluta che affligge 6 milioni di suoi abitanti, un numero raddoppiato in quattro anni, per i quali non ci sono sussidi.
      Pensiamo che sia venuto, inoltre, il momento anche di sbloccare la contrattazione nel pubblico impiego ormai ferma da troppo tempo.

Proposta n. 3 – Definire ed attuare una vera politica industriale – IRI 2.0.

      Prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI. Si potrebbe – ad esempio – riformulare in tal senso la mission del Fondo strategico italiano (facendolo diventare una sorta di IRI 2.0) istituito presso la CDP.
      Chiediamo al Governo di affrontare in modo deciso l'intera materia relativa all'attuazione dell'Agenda digitale, intervenendo con un'iniziativa normativa ad hoc, così da dare finalmente esecuzione ad una serie di procedure di rilevanza essenziale per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese, nonché a definire stabilmente la governance relativa all'attuazione dell'Agenda digitale italiana, rendendo pienamente operativi i vertici degli organismi ad essa preposti.
      Occorre adottare immediati strumenti di contrasto alle delocalizzazioni delle attività produttive ed alla risoluzione delle crisi industriali attraverso l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e presieduta dal Presidente del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia nazionale sulla crisi d'impresa che preveda la partecipazione del Governo, di tutte le forze sociali e politiche, nonché degli altri soggetti coinvolti (principalmente il sistema delle banche e l'amministrazione fiscale) che abbiano il compito di individuare strumenti e soluzioni adeguate alla drammaticità della situazione economiche che affligge le imprese italiane.
      Proponiamo l'istituzione di un Fondo per il rilancio delle start-up giovanili e per lo spin-off universitari.

Proposta n. 4 – Meno cemento, Più sicurezza.

A – Prevenire il dissesto idro-geologico dei nostri territori.

      È necessario comprendere, ormai, come la questione del dissesto idrogeologico

risulti essere non soltanto una priorità, ma una assoluta necessità, che potrebbe, tra l'altro, contribuire all'emersione dalla crisi economica attraverso paradigmi molto diversi da quelli concepiti fino ad ora. La predisposizione di un Piano pluriennale per la difesa del suolo potrebbe risultare come l'unica, vera, grande opera infrastrutturale del nostro Paese, in grado di coniugare sicurezza, lavoro e sostenibilità; un'opera pubblica diffusa su tutto il territorio nazionale, diversamente dalle infrastrutture programmate o in attuazione, che attiverebbe da subito migliaia di cantieri con innumerevoli benefici dal punto di vista occupazionale; un'opera che consentirebbe di comprendere il valore del territorio e la necessità di fermare il consumo di suolo, troppo spesso assecondato da politiche urbanistiche che nei decenni hanno eroso i terreni agricoli e modificato le destinazioni d'uso dei piani per superare la crisi dei bilanci comunali, nonché dai continui condoni relativi al fenomeno dell'abusivismo.
      A questo Piano pluriennale andrebbero riconosciute cospicue risorse (almeno 3-5 miliardi annui) ricavate anche distogliendole dalle grandi opere spesso inutili come la TAV Lione-Torino o il passaggio sotterraneo della TAV a Firenze, la GRONDA di Genova, il MOSE, ecc...
      Proponiamo l'esclusione definitiva dai vincoli del patto di stabilità interno delle spese sostenute dagli interventi territoriali per operazioni di messa in sicurezza, manutenzione e consolidamento di territori esposti a eventi calamitosi, nonché per interventi strutturali finalizzati ad agevolare la riduzione del rischio sismico, idraulico e idrogeologico, e minimizzare gli impatti sulla popolazione di eventi calamitosi.
      Proponiamo la creazione di un «Corpo giovanile per la difesa del territorio», a cui far partecipare giovani iscritti nelle liste di disoccupazione, i quali, con l'affiancamento del Corpo forestale dello Stato, potrebbero occuparsi di opere connesse alla manutenzione del territorio, come la pulizia dei corsi d'acqua, il rimboschimento dei bacini idrografici e la difesa del suolo.

B – Gli F35 mettono in sicurezza 10mila scuole.

      Proponiamo di destinare i 14 miliardi della spesa per gli F35 ad un piano pluriennale di messa in sicurezza delle scuole pubbliche ed alla riqualificazione energetica delle scuole.
      Il DEF del Governo prevede purtroppo che dal 2010 al 2018 gli investimenti calino da 51,8 a 41,5 miliardi (- 31,3 per cento in termini reali). Con questi investimenti avremmo potuto ristrutturare tutte le nostre scuole fatiscenti, dando lavoro a piccole imprese di costruzione e manutenzione, oggi soffocate dalla crisi, e avremmo aumentato la produttività di insegnanti e studenti.
      La drammatica situazione dell'edilizia scolastica ha delle cause ben precise: risorse e spese insufficienti e tempi biblici, gestione centralistica degli interventi, i vincoli del patto di stabilità, i tagli lineari che, nel tempo, hanno ridotto perfino gli stanziamenti destinati a investimenti di carattere strutturale e la drastica riduzione delle risorse messe disposizione nelle misure finanziarie adottate contro la crisi.
      Con il Governo Renzi tra gli impegni immancabili sulla Scuola si è affermato che «...ora la priorità è l'edilizia scolastica. Nessun ragionamento sarà credibile finché la stabilità delle aule in cui i nostri figli passano tante ore della loro giornata non sarà considerata il cuore dell'azione amministrativa e di governo».
      Il nuovo piano, concepito con tre principali filoni e con risorse promesse per 1.094.000.000 di euro nell'arco del biennio 2014-2015 rispetto a un fabbisogno stimato allora dalla Protezione Civile di 13 miliardi.
      Una parte dei fondi stanziati (450 milioni) va in realtà all'operazione «scuole belle», che non sono nient'altro che le scuole che hanno attualmente i servizi esternalizzati per la pulizia dei circa 18.000 edifici scolastici e relativi contratti in essere con consorzi e ditte di pulizie che dal 2000 presero in carico «provvisoriamente» gli ex LSU già impiegati nelle scuole come addetti alle pulizie. Gli interventi

previsti sono sostanzialmente il frutto di un accordo sindacale siglato al Ministero del Lavoro il 28.3.2014 che ha posticipato il problema e la soluzione all'esternalizzazione dei servizi di pulizia nelle scuole fino a marzo 2016. Insomma un ennesimo e costoso provvedimento tampone.

C – Città: mettere il vecchio a nuovo.

      Al posto delle grandi opere spesso inutili se non dannose proponiamo l'attivazione di mille opere diffuse su tutto il territorio nazionale, in grado di attivare da subito mille cantieri con evidenti ricadute positive dal punto di vista occupazionale.
      Riprendiamo in parte la proposta del CRESME, di un Piano per la rigenerazione urbana sostenibile (RI.U.SO.). Gli obiettivi sono: il progressivo azzeramento di consumo del suolo, la messa in sicurezza degli stabili con più di 40 anni di vita, la manutenzione e la rigenerazione del patrimonio edilizio pubblico e privato, la drastica riduzione dei consumi energetici ed idrici degli edifici, la valorizzazione degli spazi pubblici, la salvaguardia dei centri storici, la tutela del verde urbano, la razionalizzazione della mobilità urbana e del ciclo dei rifiuti e l'implementazione delle infrastrutture digitali.
      Nel nostro paese sono circa 2,6 milioni gli edifici da ristrutturare. La riqualificazione urbana già oggi, rappresenta più della metà del mercato delle costruzioni (133 miliardi di euro su un totale di 213 miliardi).
      Tra 2006 e 2011 il mercato si è ridotto di un terzo in termini di compravendite, mentre gli investimenti sono calati del 21 per cento e i prezzi scesi del 22 per cento. Il 2012-2013 è stato un altro periodo negativo. La crisi delle compravendite mette in discussione il mercato della nuova produzione edilizia, residenziale e non residenziale. Un nuovo ciclo è già iniziato ma i suoi fattori propulsivi non sono gli stessi di prima, e in parte sono cambiati anche gli attori. Il dato più evidente è quello riguardante gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (impianti FER), un mercato che nell'ultimo biennio ha vissuto un vero e proprio boom, fino a diventare nel 2011 più grande di quello delle nuove costruzioni residenziali. Del resto, le esigenze legate ai consumi energetici e a fattori idro-geologici rendono necessari massicci interventi di manutenzione sul patrimonio edilizio italiano. In altri termini, anche i costruttori oggi invece di guardare al nuovo, pensano «di mettere a nuovo il vecchio».
      Oggi le abitazioni italiane consumano 120-150 kilowatt orari al metro quadro (kWh/m2) all'anno, un livello ancora troppo alto che tuttavia con le attuali tecnologie e con le dovute accortezze costruttive, senza costi extra, potrebbe essere ridotto – secondo stime dell'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile – addirittura del 45-50 per cento.
      Peraltro va ricordato come nel nostro Paese oltre il 70 per cento dell'edilizia residenziale nelle aree urbane risale a periodi in cui la normativa, le modalità costruttive e i materiali utilizzati non tenevano in considerazione né l’«efficienza energetica», né il «risparmio energetico». Per gran parte di questo patrimonio vi è quindi la necessità di interventi urgenti di manutenzione straordinaria sia sulle strutture che sugli impianti.
      L'obiettivo è quello di arrivare alla fine del 2030 con il nostro patrimonio edilizio residenziale ristrutturato secondo livelli di prestazione e di efficienza energetica in grado di garantire elevati risparmi energetici. E l'onere che i cittadini proprietari dovranno sostenere sarà in buona parte ripagato dal consistente risparmio ottenuto sulla bolletta elettrica.

Proposta n. 5 – La riconversione ecologica.

A – Piano energetico nazionale basato sulle energie rinnovabili.

      Redigere un Piano energetico alternativo all'utilizzo dei combustibili di origine

fossile, verso un modello di generazione distribuita.
      Promuovere la riqualificazione energetica a partire dagli edifici pubblici. Si tratta di rilanciare ed aumentare le risorse a disposizione del cd. «Conto termico» per l'aumento di produzione termica da fonti rinnovabili e i piccoli interventi di efficienza energetica (isolamento, schermatura solare, sostituzione di infissi o di vecchi impianti per la climatizzazione invernale con generatori a condensazione, ..).
      Proponiamo di:

          introdurre regole omogenee in tutta Italia per la certificazione termica degli edifici;

          stabilire per i nuovi edifici e per le ristrutturazioni edilizie oltre una certa dimensione lo standard minimo obbligatorio di Classe A, in modo da garantire una riduzione drastica dei consumi da fonti fossili per il riscaldamento e raffrescamento delle case, ma con pari o maggiore comfort;

          mantenere la detrazione per i lavori miranti al risparmio energetico riducendo i tempi dei rimborsi (3-5 anni al posto di 10);

          premiare nelle ristrutturazioni edilizie il miglioramento della classe energetica di appartenenza (per esempio per chi passa dalla E alla C o alla B, per chi raggiunge la A);

          rendere via via obbligatoria per gli edifici per classi di vetustà (come fu per la messa in sicurezza degli impianti elettrici) gli interventi per la messa in sicurezza e l'efficientamento energetico. Obbligo che deve essere sostenuto da una detrazione sulle spese e da una garanzia dello Stato sui mutui accesi dai proprietari o dai condomini per le spese di ristrutturazione. In parallelo, ridurre le imposte sulla prima casa e facilitare così le spese dei privati per le ristrutturazioni;

          rimodulare gli incentivi legati alla produzione di energia rinnovabile al fine di creare attività manifatturiera attrezzata a tale scopo (ad esempio produzione di pannelli solari). Si tratta di implementare il modello di riferimento dal lato della domanda e dal lato dell'offerta. Diventa necessario un piano di crescita industriale dettagliato e rivolto fermamente verso le rinnovabili;

          valorizzare e sostenere le ESCO: le Energy Service Company sono società che effettuano interventi finalizzati a migliorare l'efficienza energetica, assumendo su di sé il rischio dell'iniziativa e liberando il cliente finale da ogni onere organizzativo e di investimento. I risparmi economici ottenuti vengono condivisi fra la ESCO ed il Cliente finale. Le ESCO possono anche essere cooperative di giovani che operano per l'efficientamento degli edifici e l'installazione di apparati per la fornitura di energia da fonti rinnovabili.

B – Sostegno alla riconversione ecologica del nostro sistema produttivo.

      La sempre più preoccupante convergenza di crisi diverse (economica, occupazionale, ambientale, sociale, climatica, alimentare etc.) rende necessario un profondo ripensamento del nostro sistema produttivo e dei nostri modelli di consumo. La conversione ecologica comporta l'adozione di stili di vita e modelli di consumo fondati sulla sobrietà, che non significa miseria, né povertà, né sacrificio, bensì uso e distribuzione più equa delle risorse. Ma significa anche riportare, tanto in ambito locale e nazionale, quanto in ambito continentale e planetario, il sistema produttivo entro un quadro di sostenibilità imposto dai limiti fisici e biologici del pianeta in cui viviamo, salvaguardando, potenziando e qualificando l'occupazione e valorizzando la dotazione di tecnologia, di impianti e di conoscenze dell'apparato industriale e produttivo esistente.
      Per queste ragioni è necessario un patto tra le forze sociali, sindacali, produttive ed istituzionali per lavorare alla messa in rete di competenze diverse che possano efficacemente riflettere sugli strumenti

(legislativi, economici, politici) da mettere in campo per promuovere processi di conversione produttiva, come pure alla promozione di forme nuove di consumo condiviso – che vuol dire controllo sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati.
      La conversione economica prevede di orientare ogni processo di transizione ai seguenti principi:

          ri-territorializzare le produzioni;

          educare a sistemi di consumo differenti;

          ri-qualificare il lavoro nel senso della sostenibilità ambientale;

          definire cosa produrre e come produrlo;

          coniugare la giustizia ambientale a quella sociale.

      Proponiamo di valorizzare il protagonismo dei soggetti locali, forme di cooperazione tra soggetti privati e pubblici, la mutualità, il microcredito, prestiti d'onore ai giovani, la realizzazione di imprese no profit e di cooperative di produzione e lavoro, l'espansione delle forme di economia civile, anche sostenendo la realizzazione di fondazioni di comunità o istituendo fondi di distretto, con una particolare attenzione alla piccola e media impresa.
      Proponiamo – seguendo l'esempio di quanto sta facendo la Regione Lazio – una legge quadro nazionale per la riconversione di alcuni settori produttivi tenendo assieme i due assi di questioni: orientamento ecologico della produzione e crisi occupazionale e riorganizzazione del lavoro, con fondi adeguati.

Proposta n. 6 – Per un'agricoltura multifunzionale – Le comunità verdi – La green bank.

      La fisionomia dell'agricoltura è mutata rispetto a 20 anni fa quando era vissuta nella mera accezione produttivistica, letta solo all'interno di una politica dei prezzi, unidirezionale e priva di ricadute sociali ed economiche positive. Al settore si attribuisce un ruolo strategico nella tutela e nella valorizzazione delle risorse naturali, nella salvaguardia del paesaggio, nel garantire un presidio culturale e di identità sociale delle aree marginali, montane e fortemente rurali del territorio nazionale, a vantaggio della non dispersione delle tradizioni culinarie e culturali che rischiano di sparire dalla bussola socio-politica del Paese se non opportunamente valorizzate, tutelate e presidiate.
      In questo quadro rientrano le nostre proposte per l'agricoltura sociale, la manutenzione dei boschi, una politica nazionale di rimboschimento delle aree periurbane e urbane, con specifici piani di settore sulla selvicoltura, che consentirebbe un rilancio sia in termini occupazionali che in termini di difesa del territorio dal dissesto idrogeologico, la creazione di distretti biologici, la produzione di carburanti ottenuti da rifiuti e sottoprodotti (da non confondere con i biocarburanti di prima generazione), la produzione di plastiche di origine vegetale, ecc...
      Le Comunità verdi sono i territori rurali e di montagna che intendano sfruttare in modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono (acqua, boschi e paesaggio in primo luogo) e aprire un nuovo rapporto sussidiario e di scambio con le comunità urbane e metropolitane, in modo da poter impostare un piano di sviluppo sostenibile dal punto di vista energetico, ambientale ed economico nei seguenti campi:

          gestione integrata e certificata del patrimonio «agro-forestale» (trading dei crediti derivanti dalla cattura della CO2, gestione e tutela della biodiversità, certificazione biologica della filiera legno...);

          gestione integrata e certificata delle risorse idriche;

          produzione di energia da fonti rinnovabili locali (micro-idro, biomasse, eolico, cogenerazione, trigenerazione, ecc...);

          sviluppo di un turismo sostenibile, capaci di valorizzare le produzioni locali;

          costruzione e gestione «sostenibile» del patrimonio edilizio e delle infrastrutture per una «montagna moderna»;

          efficienza energetica e integrazione «intelligente» degli impianti e delle reti;

          sviluppo sostenibile delle attività produttive;

          integrazione dei servizi di mobilità;

          creazione di smart farm a mo’ di distretti agroalimentari e agroindustrali.

      Proponiamo che in seno alla Cassa Depositi e Prestiti si costituisca una «Green bank.». Il Fondo avrebbe come finalità il favorire gli interventi nell'ambito delle «Comunità verdi» e dell'agricoltura multifunzionale.
      Il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1, prevede, tra le altre direttive, l'alienazione in misura stabile dei terreni agricoli o a vocazione agricola di proprietà pubblica, che secondo l'ultimo censimento ISTAT ammonterebbero a ben 338.127,51 ettari per un valore di 6,22 miliardi di euro, stando alle stime di Coldiretti e Inea.
      Proponiamo di sostituire la procedura di vendita con quella di affitto in maniera tale da evitare speculazioni fondiarie in vista della possibilità di cambio di destinazione d'uso possibile a vent'anni dall'acquisto e facilitando al contempo l'accesso alla terra da parte di giovani privi di ingenti capitali.
      Proponiamo di rendere obbligatorio l'utilizzo di prodotti biologici ed a Km zero ed equosolidale nelle scuole, negli ospedali e nei centri di assistenza.
      Chiediamo al Governo di redigere la mappa dei Gruppi di acquisto solidale, delle cooperative energetiche, dei Gruppi di acquisto fotovoltaici, dei «Comuni rinnovabili» e dei Distretti di economia solidale.
      Proponiamo di prendere opportune iniziative legislative e finanziarie per diffondere le loro buone pratiche, e redigere, tra l'altro, il «network della conoscenza».
      Proponiamo di valorizzare e sostenere i «Patti dei sindaci» (i firmatari del Patto dei sindaci, promosso dalla Commissione europea, assumono l'impegno di superare gli obiettivi della UE sulla riduzione delle emissioni di CO2).
      Proponiamo di tutelare e valorizzare le produzioni tipiche del Paese, per l'affermazione di una filiera agricola tutta italiana, che parta proprio dalla specifica vocazione del territorio e che voglia investire sulle positività, per garantire i livelli occupazionali e dare ai produttori la giusta remunerazione.

Proposta n. 7 – Investire nel futuro: Scuola, Università, Ricerca.

      La «buona scuola» che Sinistra Ecologia e Libertà propone è quella laica, di massa, che attua l'articolo 34 della Costituzione garantendo diritti interi per i soggetti in formazione. La nostra buona scuola davvero è quella contenuta nella Proposta di Legge che abbiamo depositato a settembre sia al Senato che alla Camera dei deputati che prevede di raggiungere gradualmente il 6 per cento del PIL da destinare alla formazione.
      Nella Legge di stabilità 2015 riproporremo tra l'altro:

          la soluzione, più volte e colpevolmente rinviata dalla maggioranza della fine dell'indecoroso trattamento riservato dal 2012 ad oggi al personale della scuola «quota 96»;

          una vera cabina di regia per un coordinamento degli interventi sulla vera e propria emergenza quale è quella dell'edilizia scolastica e per la verifica di tutti gli annunci di risorse messe in campo nel corso dell'anno e l'ampliamento delle risorse secondo le effettive necessità e prioritariamente per la messa in sicurezza delle scuole.

      Proporremo, secondo quanto previsto dall'articolo 33 della Costituzione, l'abolizione del finanziamento e/o di qualsiasi partecipazione alle spese delle scuole non statali e con le risorse risparmiate, oltre 200 mln di euro, contribuire e concorrere al finanziamento priorità della scuola a

cui devono essere assegnate risorse adeguate per: il diritto allo studio e la lotta alla dispersione scolastica, l'innalzamento dell'obbligo scolastico a 18 anni, il ripristino delle fondi tagliati in questi anni alle attività per l'arricchimento e l'ampliamento dell'offerta formativa e per gli interventi perequativi, per l'università e la ricerca.

Proposta n. 8 – Il Mezzogiorno come questione nazionale.

      Chiediamo che il Governo predisponga un apposito documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno che, alla luce della nuova programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali e della programmazione 2014-2020 del Fondo per lo sviluppo e la coesione, dia unitarietà e coerenza a nuove politiche di sviluppo e di lavoro; ed inoltre, che predisponga, nel citato documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno, le linee guida di salvaguardia dell'apparato produttivo ancora esistente e una nuova politica industriale nel Mezzogiorno su cui orientare risorse ed investimenti per il prossimo decennio.
      Proponiamo, altresì, di definire negli strumenti della programmazione 2014-2020 l'utilizzo di parte delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali nei campi del turismo sostenibile, dei beni culturali e della fruizione degli stessi, dell'innovazione tecnologica e dei servizi sociali, che devono essere volti ad incrementare e ammodernare i sistemi di welfare nel rispetto della cittadinanza di genere, escludendo meccanismi di intermediazione formativa.
      Proponiamo al Governo di intervenire in sede comunitaria, affinché nell'ambito del pacchetto legislativo sulla coesione 2014-2020 si confermi l'esclusione dal calcolo del Patto di stabilità e crescita del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013, «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stati membri».
      Il Governo, a nostro avviso, deve proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della legge di stabilità, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate.
      Proponiamo di procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato.
      Dobbiamo valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco.
      Dobbiamo, inoltre, riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni.

Proposta n. 9 – Ridistribuire il reddito, aumentare i consumi.

      Oltre a rispondere a criteri di equità sociale la redistribuzione del carico fiscale

può incrementare in maniera stabile i redditi popolari ed i relativi consumi.
      Ma la copertura del bonus di 80 euro, e delle altre agevolazioni fiscali previste, non dovrebbe derivare da tagli alla spesa pubblica, tagli che hanno effetti recessivi, ma da una vera ridistribuzione del carico fiscale. Nella Nota di aggiornamento si parla di rendere definitivi gli 80 euro, ma non di ampliarne la platea, neanche a pensionati, incapienti e autonomi, e nemmeno con una vera redistribuzione del carico fiscale.
      Proponiamo dunque di estendere la platea dei beneficiari del bonus (o meglio proponiamo una revisione dell'Irpef secondo il progetto NENS che tutela maggiormente i redditi bassi) e di fornire le coperture necessarie con misure stringenti contro l'evasione fiscale come quelle proposte da Vincenzo Visco (introduzione del c.d. scontrino telematico; applicazione del «reverse charge» alle operazioni intermedie), la reintroduzione del reato di falso in bilancio, la tracciabilità dei pagamenti, una revisione della tassa di successione tra le più basse di tutti i Paesi occidentali, una tassa patrimoniale progressiva, la rimodulazione della curva IRPEF che attui una maggiore progressività permanente dell'imposta sopra i 90.000 euro, l'inasprimento dell'imposta sulle transazioni finanziarie attraverso un allargamento della sua base imponibile anche ad azioni, obbligazioni ed a tutti gli strumenti derivati.
      Siamo d'accordo per il TFR in busta paga (anche se siamo scettici sull'effetto incrementale dei consumi: l'esperienza del bonus di 80 euro insegna) ma solo a tre condizioni:

          che sia demandato alla libera scelta del lavoratore;

          che la tassazione sia separata rispetto all'Irpef rimanendo quella in vigore per il TFR e che tale anticipo non sia computato ai fini dell'ISEE e dell'erogazione delle prestazioni socio-sanitarie;

          ed inoltre che siano salvaguardati i Fondi previdenziali complementari (ed in particolare non sia aumentata l'aliquota del 11,5 per cento).

      No a qualsiasi ipotesi di condono fiscale più o meno mascherato.

Proposta n. 10 – Lavoro per i giovani, Garanzie per gli anziani.

      Era stata promessa dal Governo la soluzione definitiva del problema degli «esodati». Ma non sembra ci sia niente al riguardo nella legge di stabilità.
      La Controriforma Fornero della previdenza ha di fatto impedito l'assunzione di centinaia di migliaia di giovani.
      Inoltre, i risparmi ottenuti sono di molto superiori a quelli iscritti a bilancio. C’è dunque spazio sia per misure che risolvano in maniera definitiva il problema dei cd. «esodati», a partire dagli insegnanti di «quota 96» e del personale viaggiante delle FS, e soprattutto, per una profonda revisione della stessa legge Fornero.
      Proponiamo di considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part-time per ragioni di cura, possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta.
      Stante la sempre maggiore precarietà degli impieghi e la crescita della mobilità intersettoriale dei lavoratori, vanno resi cumulabili i contributi versati in diversi fondi previdenziali.

DUE MANOVRE A CONFRONTO (*)

      (*) Nel frattempo, in seguito all'accordo con la Commissione UE del 22 ottobre scorso, la manovra del Governo si è ridotta di 4,5 miliardi (36 -4,5 = 31,5).

       (**) Proponiamo inoltre di finanziare le misure del Piano per il lavoro anche con:

          1) gli 84 miliardi a disposizione del Quadro di coesione e sviluppo 2014-2020 (Fondi europei Fondo per la coesione e lo sviluppo);

          2) la costituzione presso la CDP di una Green bank con un patrimonio di 10 miliardi di euro;

          3) la riforma del ruolo del Fondo strategico italiano;

          4) l'utilizzo di parte delle risorse delle Fondazioni bancarie e dei Fondi previdenziali.
      (***) si aggiungono i 3 miliardi del DL Irpef già in vigore.

V.    L'ITER IN COMMISSIONE BILANCIO

      Con le misure aggiuntive predisposte dal Governo (emendamento 1. 4) in conseguenza delle osservazioni formulate dalla Commissione europea il 22 ottobre scorso nell'ambito del procedimento di valutazione dei documenti programmatici di bilancio per il 2015, si sono realizzate tre notevoli ulteriori peggioramenti della manovra:

          1) il deficit scende,, prendendo per buone le stime del Governo, dal 2,9 per cento al 2,6 per cento del PIL (meno 0,3 per cento; meno 4,5 miliardi);

          2) adesso, dopo le misure aggiuntive concordate con la Commissione UE, in pratica, sommando le clausole di salvaguardia Letta e Renzi, si tratterà di ottenere (una clausola di salvaguardia «monstre») con aumenti dell'Iva e delle accise e con tagli alle detrazioni d'imposta, risorse per 728 milioni nel 2015, 17.544 milioni nel 2016, 26.951 milioni nel 2017 e 29.995 milioni nel 2018. Le clausole se esercitate avrebbero un forte effetto recessivo di diversi punti di PIL nel triennio 2016-2018 dovuto ad una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per alcuni miliardi. In pratica, la manovra, non volendo affrontare una vera discussione sulla revisione dei parametri di bilancio stabiliti dalla UE, rinvia ai prossimi anni le scelte più dolorose ed impegnative;

          3) l'esclusione dai saldi delle Patto di stabilità delle spese dalle Regioni per i cofinanziamenti dei fondi strutturali comunitari, originariamente prevista dal provvedimento in esame nell'importo complessivo di 1.200 milioni di euro, viene ora mantenuta nel solo limite di 700 milioni di euro.

Articolo 4 – Stabilizzazione del bonus di 80 euro.

      Sono stati respinti due emendamenti importanti che avrebbero reso più equa la misura.
      Il primo (4. 31 – Fassina, Marcon), era volto a modificare tanto l'importo quanto la base reddituale in base alle quale viene riconosciuto il bonus di 80 euro; tale proposta emendativa interviene al fine di superare il difetto di equità che è ravvisabile nella modalità di erogazione attualmente previste del suddetto bonus fiscale. Infatti, utilizzando, ai fini dell'erogazione del bonus, l'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) dei nuclei familiari, anziché l'importo del reddito IRPEF, si consente di destinare le risorse stanziate dal Governo per la stabilizzazione di tale misura fiscale a vantaggio delle famiglie bisognose con figli a carico, facendo sì che il bonus si configuri realmente come intervento volto a contrastare le situazioni di povertà e di indigenza, sempre più diffuse nel Paese.
      La predisposizione di misure adeguate per riequilibrare gli effetti redistributivi conseguenti al predetto bonus è necessaria anche alla luce di quanto sostenuto, nel corso dell'audizione sul disegno di legge di stabilità, dal presidente dell'ISTAT, secondo cui tale agevolazione interessa, in particolare, categorie di contribuenti con redditi medio alti. Le modifiche proposte dall'emendamento 4.31 sono, altresì, volte a far fronte agli effetti negativi sulle politiche sociali che conseguiranno all'applicazione dei tagli ai trasferimenti erariali nei confronti di enti locali e territoriali, previsti dal disegno di legge di stabilità in esame.
      Per tacere della scarso efficacia del bonus IRPEF degli 80 euro ai fini del rilancio dell'economia nazionale, a proposito della quale si può fare riferimento alle osservazioni negative formulate da economisti delle più diverse tendenze.
      Il secondo (4. 21 – Paglia) estendeva a pensionati, incapienti, partite IVA a basso reddito il bonus di 80 euro.
      Si ricorda che al momento dell'introduzione di questo istituto si dichiarò che, per la volontà di intervenire rapidamente, non era stato possibile tener conto di tutte le situazioni di disagio esistenti nel Paese. Il Premier aveva assicurato che sarebbe stato esteso ai pensionati, agli incapienti e

alle piccole partite IVA. Ora sarebbe stato possibile ed opportuno effettuare un intervento più meditato, anche considerando che si intende rendere permanente il bonus.
      Le obiezioni che furono mosse a suo tempo contro l'estensione del bonus, fondate sulla mancanza di risorse, possono essere superate utilizzando quanto si potrebbe ottenere introducendo un'imposta patrimoniale – alla quale si dichiara ora favorevole anche la CISL –, una tassa sulla pubblicità su internet, aumentando le aliquote IRPEF sui redditi più elevati e sopprimendo la deduzione del costo del lavoro dall'IRAP, prevista dall'articolo 5 del provvedimento in esame, che è concessa inopinatamente in maniera indiscriminata, mentre sarebbe opportuno riservarla alle imprese virtuose che, per esempio, effettuano investimenti in ricerca e sviluppo.

Articolo 5 – Riduzione IRAP.

      Si ricorda che esso riguarda l'eliminazione, dalla base imponibile dell'IRAP, della componente legata al costo del lavoro e che il Governo ha preannunciato l'intenzione di intervenire a modificare tale disposizione nel corso dell'esame del provvedimento al Senato.
      Pertanto l'articolo non è stato modificato dalla Commissione.
      Sono stati respinti alcuni significativi emendamenti presentati da SEL:

          l'emendamento Zaratti 5.61, che destinava le somme utilizzate per ridurre l'IRAP alle imprese ad investimenti per l'adattamento dei territori ai cambiamenti climatici, la loro messa in sicurezza e il contrasto al dissesto idrogeologico, sottolinea la situazione di emergenza che al riguardo si trova a vivere il nostro Paese, come evidenziano le cronache degli ultimi giorni;

          l'emendamento Airaudo 5.72, volto ad escludere dal campo di applicazione della deducibilità del costo del lavoro dall'imponibile IRAP, le imprese che nell'ultimo triennio abbiano avviato procedure di licenziamento o di delocalizzazione.

      E, soprattutto la nostra proposta di un green new deal, un vero Piano per il lavoro definito dall'emendamento Airaudo 5.83. Esso esprime l'idea del Gruppo SEL di quella che dovrebbe essere una politica economica e del lavoro di un Paese. Si sottolinea infatti che in esso viene previsto un piano triennale straordinario per il lavoro, che costituisce una proposta cogente e congrua alla fase drammatica che sta vivendo il Paese al riguardo. Si osserva che la proposta in esso contenuta è un vero e proprio jobs act di tipo americano, in quanto prevede interventi infrastrutturali, in una logica analoga a quella che ha mosso il Presidente americano dopo la drammatica crisi «Lehman Brothers».
      Si sottolinea che il piano prevede anche l'istituzione di una agenzia per lo sviluppo e l'occupazione, volta alla realizzazione del programma di interventi urgenti di carattere ambientale e sociale, al pari di quella istituita in Germania per le politiche industriali. In ultimo, giudica necessaria una riarticolazione della curva dell'IRPEF e una riflessione non più procrastinabile sull'imposta patrimoniale, che costituisce uno strumento necessario di riequilibrio sociale.

Articolo 6 – TFR in busta paga.

      Anche in questo caso sono stati respinti tutti gli emendamenti (incluso l'emendamento Paglia 6.32) che chiedevano il mantenimento della tassazione agevolata per il TFR anche se percepito in busta paga.
      Le misure previste dall'articolo 6 del provvedimento, malgrado siano state presentate come misure a favore dei lavoratori, arrecano agli stessi un grave danno economico. Infatti, prevedendo che la quota di TFR erogata in busta paga sia sottoposta a tassazione ordinaria anziché al regime di tassazione separata attualmente previsto, esse comportano un sostanziale innalzamento del carico fiscale su tali somme.


      Inoltre, si tratta sostanzialmente di misure volte ad ottenere risorse per la futura copertura finanziaria di altre disposizioni.

Articolo 11 – Ammortizzatori sociali.

      Il Governo ha incrementato in maniera del tutto insufficiente la dotazione del Fondo per la copertura degli oneri derivanti dall'attuazione del disegno di legge delega in materia di lavoro (istituito dallo stesso articolo 11), attualmente all'esame dell'Assemblea della Camera dei deputati (A.C. 2660-A, cd. Jobs Act) per un importo pari a 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016.

Articoli 12-bis – Esodati di Quota 96 e ferrovieri.

      Giulio MARCON (SEL) illustra l'articolo aggiuntivo Airaudo 12.06, volto a correggere un errore della legge Fornero, relativo all'accesso al pensionamento dei macchinisti ferroviari, attualmente fissato a 67 anni di età. Ritiene che tale previsione, oltre a penalizzare i lavoratori interessati, renda anche poco sicura la circolazione dei treni. Evidenzia, infine, che la disposizione comporta un onere annuo di circa 4 milioni di euro.
      Davide TRIPIEDI (M5S) ricorda che l'anno scorso il Governo accolse un ordine del giorno relativo alla soluzione del problema evidenziato dall'onorevole Marcon. Evidenzia che i macchinisti ferroviari hanno un'aspettativa di vita di 65 anni e possono andare in pensione solo a 67, mentre in Francia e in Belgio l'età per accedere al pensionamento è fissata a 58 anni. Raccomanda, pertanto, l'approvazione dell'articolo aggiuntivo Airaudo 12.06 o, quantomeno, di procedere al suo accantonamento.

Articolo 13 – Misure per la famiglia.

      Il bonus bebé da 80 euro al mese per i bambini nati o adottati nel 2015 e per i primi tre anni di vita del bambino, non verrà più corrisposto alle famiglie con un tetto di reddito di 90mila euro l'anno, ma a coloro che non superano un valore dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) di 25mila euro.
      L'importo viene raddoppiato per le famiglie in condizioni di povertà assoluta che percepiranno 160 euro mensili se hanno un valore ISEE sotto i 7mila euro l'anno.
      In pratica, la copertura resta identica ma si restringe la platea complessiva degli aventi diritto raddoppiando le risorse per le fasce più povere.
      L'emendamento riprende lo spirito dell'emendamento Fassina 13.70 (cofirmato anche da noi) che chiedeva che il figlio beneficiario appartenesse a un nucleo familiare il cui indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non fosse superiore a 15.000 euro.

Articolo 17 – Fondo per la non autosufficienza.

      Il comma 8, è stato modificato incrementando da 250 a 400 milioni di euro il Fondo per la non autosufficienza, compresa la Sla. L'incremento vale comunque solo per l'anno 2015, senza peraltro alcun vincolo di destinazione per i servizi di assistenza domiciliare. Dal 2016 il fondo resterà a 250 milioni.
      I 150 milioni in più sono finanziati riducendo le risorse (dai 298 milioni a 148 milioni) previste dall'articolo 13, comma 6, destinate per il 2015 per interventi a favore della famiglia.
      L'incremento a 400 milioni del Fondo per la non autosufficienza è certamente importante e positivo, ma va detto che:

          rimane comunque uno stanziamento insufficiente, e i 400 mil. sono solo per il 2015;

          non vi è più alcun vincolo di destinazione per i servizi di assistenza domiciliare;

          viene finanziato con la riduzione di risorse di un Fondo di nuova istituzione per interventi a favore della famiglia. Insomma una «lotta fra poveri», laddove la copertura finanziaria si sarebbe dovuta individuare in ben altre voci di spesa.

      Non è stato invece accolto l'emendamento Nicchi 17. 114 che stabiliva un aumento a regime da decorrere dal 2015 per tale Fondo. Infatti, non abbiamo accettato la riformulazione proposta dal Governo in quanto venivano sottratti fondi ad altre finalità sociali.

Articolo 17 – comma 12 – Missioni militari; Articolo 31 – risorse per F35.

      Ovviamente soppresso senza tentennamenti l'emendamento 17. 234 Duranti che proponeva di eliminare le risorse destinate alle missioni chiaramente aggressive e/o a direzione NATO:

          «Join Enterprise» che comprende la KFOR Mission, instaurata dal 2004 dopo la riorganizzazione della Nato nell'area balcanica (ex articolo 1 comma I del DL 109 del 1 agosto 2014);

          «MSU», missione di polizia ma posta alle dipendenze del comando KFOR, quindi comandante NATO, con partecipazione dei Carabinieri per l'Italia (ex articolo 1 comma I del DL 109 del 1 agosto 2014);

          «Active Endeavour», attiva dal 9 ottobre 2001 (ex articolo 1 comma VI del DL 109 del 1 agosto 2014);

          «ISAF Afghanistan», NATO dall'11 agosto del 2001 (ex articolo 2 comma I del DL 109 del 1 agosto 2014);

          «Ocean Shield», dal 12 giugno 2009 (ex articolo 3, comma IV del DL 109 del 1 agosto 2014).

      Si proponeva di ridurre il Fondo, per gli anni 2015 e 2016, da 850 milioni a 350 milioni annui (le missioni a direzione NATO costano 500 milioni annui).
      La maggioranza ha rifiutato di ridurre per lo meno del 50 per cento le risorse per gli F-35 (emendamento 31. 25 Marcon).
      Esso è stato predisposto in coerenza con una mozione parlamentare presentata da un esponente del Partito Democratico e sottoscritta da altri gruppi, con la quale si impegnava il Governo a dimezzare le disponibilità assegnate al programma F-35. Si ricorda che, in sede di discussione del disegno di legge di Bilancio, il Viceministro Morando ha dichiarato di non poter procedere a tale dimezzamento in ragione di impegni contrattuali già assunti e si chiede pertanto di conoscere il contenuto di tali impegni, dal momento che da fonti in possesso di SEL le risorse stanziate soddisfano impegni non ancora contrattualizzati.
      Continua, dunque, il pasticcio del Pd sugli F35. Il Pd e la maggioranza hanno bocciato un nostro emendamento alla legge di stabilità che chiedeva il dimezzamento dei fondi per l'acquisto degli F35. Dimezzamento deliberato dal Parlamento lo scorso settembre approvando una mozione del Partito democratico, a prima firma Scanu, a cui però sono seguiti i voti favorevoli anche alla mozione di FI per mantenere lo status quo. Una vera e propria truffa al Parlamento che ha evitato che passasse la nostra richiesta di cancellazione del programma d'acquisto. Come si vede in realtà il governo non ha nessuna intenzione di recedere dal programma degli F35. Il Pd ha perso l'ennesima occasione.

Articolo 17 – comma 21 – Iva al 4 per cento su E-book.

      Grazie all'approvazione dell'emendamento 17.219 a prima firma Giordano proposto da SEL capofila e di altri emendamenti successivi analoghi presentati da Forza Italia, PD, Scelta Civita e infine il Governo, si modifica il comma 21, riducendo il rifinanziamento del Fondo per gli interventi strutturali di politica economica,

disposto dalla norma, di 7,2 milioni di euro annui (da 100 a 92,8 milioni per l'anno 2015 e da 460 a 452,8 milioni a decorrere dal 2016).
      Tale riduzione è funzionale a garantire la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall'introduzione del comma 31-bis nell'articolo 44, disposta dall'emendamento stesso, volto a includere nella categoria dei libri, sottoposti ad aliquota IVA al 4 per cento (cd. aliquota «super-ridotta») anche i libri in formato elettronico, che, determina una perdita di gettito su base annua di 7,2 milioni di euro. Peraltro, la proposta emendativa approvata evidenzia che la norma intende estendere l'applicazione di tale aliquota, oltre che ai libri, anche ai periodici in formato elettronico.

Articolo 44 – Web tax.

      SEL aveva presentato un emendamento (44. 311 – Paglia) respinto dalla maggioranza e che era finalizzato ad assicurare la tassazione in Italia del fatturato qui realizzato dalle grandi agenzie pubblicitarie del web, Google e Facebook sopra tutte. La cosiddetta web tax. Si tratta di cifre che riteniamo importanti, nonostante sia difficile persino conoscere esattamente il giro d'affari di queste multinazionali nel nostro paese. La maggioranza ha naturalmente deciso di bocciarlo, perché sarebbe un tema europeo. Peccato che il semestre italiano sia ormai alle spalle, senza che la Presidenza italiana abbia fatto nulla in questo senso, nonostante sia stata più volte richiamata a farlo. La realtà, ancora una volta, è che il Governo Renzi sceglie di mostrarsi debole coi forti, quanto forte coi deboli.
      Si sottolinea, innanzitutto, come la proposta emendativa in discussione non prevede, come prospettato erroneamente dagli organi di stampa, una nuova forma di tassazione attraverso l'imposizione di ulteriori imposte indirette.
      Si evidenzia, infatti, come le società multinazionali che svolgono attività connesse all'economia digitale, il cui giro di affari è di circa 25 miliardi di euro annui, eludano in Italia il pagamento delle imposte indirette. Nel ricordare come tali società stiano vivendo un periodo di grande crescita del proprio giro di affari e stiano soppiantando, in molti casi, le attività imprenditoriali di tipo tradizionale, ritiene che ciò determini un forte effetto distorsivo a danno del mercato.
      In tale contesto, si sottolinea come l'intervento del Parlamento sia indispensabile e come ciò potrebbe realizzarsi, grazie ad un impegno del Governo in tal senso nel corso dell'ultimo periodo di Presidenza italiana dell'Unione europea. In tale quadro, si cita infine l'esempio del dibattito in corso negli Stati Uniti d'America.

Articolo 44 – Riforma della Tobin tax.

      L'emendamento Marcon 44.269 respinto, riproduce peraltro il contenuto di analoga proposta emendativa, a prima firma Luigi Bobba, presentata al disegno di legge di stabilità dello scorso anno, sulla quale si era realizzato il consenso dei diversi gruppi parlamentari e che era stata successivamente ritirata per consentire la presentazione di un ordine del giorno poi approvato dall'Assemblea della Camera, con il quale si impegnava il Governo italiano, anche in sede europea, ad adoperarsi per un adeguamento delle norme, in precedenza introdotte, concernenti la tassazione sulle transazioni finanziarie, a nostro giudizio ritenute assolutamente inefficaci rispetto all'obiettivo di una reale politica di tassazione delle rendite finanziarie.
      Con riferimento all'esigenza, avvertita dalle forze politiche tanto di maggioranza quanto di opposizione, di procedere ad una correzione dell'attuale normativa della tassazione sulle rendite finanziarie, meglio nota come Tobin Tax, si ricorda

che su tale materia è stata presentata anche una specifica proposta di legge da parte del Gruppo SEL.

Articolo 44 – Tassazione Fondi pensione e Local tax.

      Per quanto concerne le proposte emendative segnalate riferite all'articolo 44 del provvedimento e relative all'incremento dell'aliquota di tassazione sulle forme di previdenza complementare, il relatore ha proposto il loro ritiro. Ciò, in ragione del fatto che il Governo, pur manifestando la volontà di porre in essere un intervento complessivo sulla questione concernente il livello di tassazione sui fondi pensione, si è tuttavia riservato, non avendo ancora concluso i necessari approfondimenti istruttori, di presentare specifiche proposte correttive durante il successivo esame del provvedimento presso l'altro ramo del Parlamento.
      Lo stesso dicasi per la tassazione locale sugli immobili. L'intento del Governo è quello di verificare la possibilità di introdurre modificazioni significative al testo originario nel corso dell'esame della manovra al Senato.

VI.    CONCLUSIONE

      Sono state approvate modifiche molto parzialmente migliorative del testo, ma nell'insieme si è trattato di cambiamenti secondari e marginali rispetto alla filosofia di fondo di questa manovra che punta tutto su sgravi fiscali e contributivi alle imprese nella speranza che ciò rilanci la crescita e l'occupazione.
      Il guaio, oltre alla poca credibilità di queste misure già ampiamente sperimentate in passato senza risultati tangibili se non il miglioramento dei dividendi per gli azionisti e senza che ne scaturissero investimenti e nuovi posti di lavoro, è che queste minori entrate sono state compensate con tagli alla spesa pubblica ed in particolare alle spese sociali, determinando nel complesso un effetto pro ciclico, e dunque depressivo, della manovra.
      Si tratta in buona sostanza di una subalternità politica ed economica alle imposizioni dei Trattati europei che stanno mettendo a serio rischio la costruzione dell'Europa unita e la solidità dell'euro, e di subalternità culturale alle teorie neo liberiste (spesso nella loro peggiore vulgata) con 30 anni di ritardo rispetto al blairismo, e dopo la grande crisi che le stesse hanno provocato a partire dal 2008, ed il loro conseguente fallimento.
      Il tutto condito con un certo «nuovismo» provinciale ed un giovanilismo che riecheggia per certi versi cascami del futurismo nell'esaltazione della velocità del «riformare», quando in realtà siamo in presenza dell'accelerazione di un disegno contro riformatore sponsorizzato dai poteri forti a detrimento dei ceti popolari, cercando di dividere le generazioni e i vari segmenti del mondo del lavoro, e di conseguenza inasprendo i conflitti sociali.
      Questo disegno si completa con l'approvazione del cd. «Jobs act» che porta alla Commissione UE (ed ai centri finanziari europei) lo «scalpo» dell'articolo 18 e del diritto del lavoratore alla propria dignità.
      Non a caso sono state respinte tutte le proposte di modifica che, anche a parità dei saldi, proponevano di ampliare lo spettro degli investimenti pubblici per la difesa del suolo, la messa in sicurezza delle scuole, l'innovazione e la ricerca, e di promuovere l'equità fiscale, tramite la rinuncia a spese per armamenti ed a grandi opere inutili, l'introduzione di un'imposta patrimoniale, di una «web tax» e di una riforma della tassa sulle transazioni finanziarie.
      Sono state ridotte, nei fatti, le risorse per gli ammortizzatori sociali: il Governo ha incrementato in maniera del tutto insufficiente la dotazione per un importo pari a 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016, portandola a 2.200 milioni annui solo per questi due anni. Il 2015 è destinato, a diventare un anno critico poiché la permanente necessità di ricorrere agli ammortizzatori in deroga

sarà indebolita dall'entrata in vigore dei nuovi criteri restrittivi per l'ammissione. La scopertura è tanto più grave se si considera che negli anni 2013-2014 la spesa media annua per i soli ammortizzatori in deroga è stata pari a circa 2,5 miliardi di euro.
      Non si è voluto poi affrontare il problema degli esuberi (si parla di 17mila unità) derivanti dalla privatizzazione di Poste SpA. Così come rimane irrisolto il problema degli «esodati» determinati dalla «riforma» Fornero delle pensioni.
      Questioni significative sono state comunque rinviate dal Governo al Senato, tra le quali:

          la tassazione dei Fondi pensioni;

          la questione del canone RAI e delle risorse per le TV locali;

          la modifica dell'articolo 5 (quello sull'IRAP);

          la tassazione locale sugli immobili (la cd. «Local Tax»);

          l'accordo con le Regioni;

          la definizione di specifiche norme che accompagnino la mobilità del personale delle province verso il sistema delle regioni e dei comuni.

      La manovra, non volendo affrontare una vera discussione sulla revisione dei parametri di bilancio stabiliti dalla UE, rinvia ai prossimi anni le scelte più dolorose ed impegnative. Dopo le misure aggiuntive concordate con la Commissione UE, sommando le clausole di salvaguardia Letta e Renzi, si è determinata una mostruosa clausola di salvaguardia.
      Infatti, si tratterà di ottenere con aumenti dell'Iva e delle accise e con tagli alle detrazioni d'imposta, risorse per 728 milioni nel 2015, 17.544 milioni nel 2016, 26.951 milioni nel 2017 e 29.995 milioni nel 2018.
      Queste clausole, se esercitate, avrebbero un forte effetto recessivo di diversi punti di PIL nel triennio 2016-2018 dovuto ad una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per alcuni miliardi.
      Come ha giustamente osservato Pierluigi Ciocca, questa manovra nel 2015 «mira a ridurre l'indebitamento netto rispetto al PIL, mira altresì a contenere la spesa pubblica in misura analoga al contenimento programmato dell'imposizione, ma il “demoltiplicatore” della domanda legato alla minore spesa supera il “moltiplicatore” della minore fiscalità».
      La manovra pertanto risulta restrittiva o nel migliore dei casi neutrale, in ogni caso non è espansiva, come il Governo si affanna a dire confidando nel miracolistico ritorno di fiducia delle imprese e delle famiglie con una propensione alla spesa.
      Considerata la gravità della recessione in Italia, la spinta dovrebbe essere particolarmente forte, dell'ordine del 2,5 per cento del PIL, cioè di 40 miliardi di euro. In questo modo il PIL del 2015 potrebbe crescere del 3 per cento, invece che dei pochi decimali previsti dal Governo che nella stima dell'Ocse precipitano allo 0,2 per cento.
      Il disavanzo pubblico italiano sarebbe analogo a quello della Francia. I pugni sui tavoli di Bruxelles vanno battuti su punti di PIL e non su pochi miliardi di euro, come ha fatto Renzi.
      L'Italia non può immolarsi su regole di Bilancio di una era storica lontana. Un eccesso di disavanzo pubblico rispetto al tetto del 3 per cento è giustificato dalla gravità della recessione. Il consolidamento del debito pubblico anche per tranquillizzare i mercati finanziari deve fondarsi su un rigoroso Programma di lotta alla evasione fiscale (raccogliendo le proposte di Vincenzo Visco), di contenimento delle principali voci di spesa corrente e non sociale, e di tassazione dei grandi patrimoni.
      L'economia non può uscire da sola dalla trappola della deflazione. Solo un rilancio rapido e coraggioso della domanda globale può accrescere, insieme e su solide basi, produzione, occupazione e produttività.
      Per tutto questo, noi ci opponiamo a questo disegno con la proposta di una politica economica alternativa che mette al

suo centro la creazione di lavoro, gli investimenti pubblici, la redistribuzione del carico fiscale a favore dei redditi da lavoro e da pensione e la rimessa in discussione delle politiche europee di austerità.
      La maggioranza è andata dritta per la sua strada che noi riteniamo fallimentare. Ci auguriamo che gli italiani tolgano al più presto il loro consenso a tale impostazione politica che riteniamo esiziale per il bene del nostro Paese, ed in particolare per le nuove generazioni.

Gianni MELILLA,
Relatore di minoranza.