• Testo RISOLUZIONE IN ASSEMBLEA

link alla fonte scarica il documento in PDF

Atto a cui si riferisce:
C.6/00102 premesso che: sentite le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in merito alla riunione ordinaria del Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre 2014 il cui ordine del...



Atto Camera

Risoluzione in Assemblea 6-00102presentato daKRONBICHLER Floriantesto diMartedì 16 dicembre 2014, seduta n. 350

La Camera,
premesso che:
sentite le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in merito alla riunione ordinaria del Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre 2014 il cui ordine del giorno provvisorio prevede i seguenti punti:
1) politica economica e sociale: esame degli ulteriori sforzi da compiere per favorire la crescita, l'occupazione e la competitività europea e, ove opportuno, stabilire nuovi orientamenti: in tale contesto, discutere in particolare dell'iniziativa della Commissione destinata a mobilitare 300 miliardi di euro di investimenti nel periodo 2015-2017;
2) altre questioni in materia di relazioni esterne alla luce degli sviluppi del panorama internazionale, ed illustrazione delle misure adottate per rispondere alla crisi dell'Ebola;
premesso che, per quanto concerne la politica economica e sociale:
dobbiamo constatare che la crisi che dura da 7 anni, prosegue senza che all'orizzonte si possa scorgere un'inversione di tendenza, mentre i disoccupati in Europa sono diventati più di 27 milioni ed il loro numero continua ad aumentare;
la disoccupazione crescente rappresenta solo uno dei risultati negativi delle politiche dell'austerità perseguite con ottusità dagli organismi europei come più volte denunciato da molti eminenti economisti, dal FMI e dalla parte politica dei firmatari di questa risoluzione, ultimamente con la Risoluzione 6-00092 presentata in vista del precedente Consiglio europeo del 23-24 ottobre scorso e con la Relazione di minoranza alla legge di stabilità 2015 (AC 2689-bis-A – Relatore Melilla);
molti autorevoli economisti avevano avvertito che difficilmente una moneta unica che unisce Paesi molto diversi per livelli di competitività, produttività e inflazione avrebbe potuto essere un motore di Sviluppo, soprattutto in mancanza di una forte politica cooperativa e solidale a livello europeo. Le loro previsioni si sono purtroppo avverate;
il sistema della moneta unica divide più che unire i Paesi europei e, soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale, è diventato un freno per la crescita dell'Eurozona e di ogni singolo Paese. La moneta unica impedisce i riallineamenti competitivi (cioè le svalutazioni monetarie dei Paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti). Inoltre, in assenza di una politica fiscale comunitaria redistributiva, risulta inadatta alle esigenze di crescita di ciascun singolo Paese. Ne seguono squilibri commerciali e finanziari, in particolare all'interno dell'Eurozona;
a causa della rigidità intrinseca della moneta unica, i Paesi creditori, in primis la Germania, sostengono l'adozione di politiche depressive per i Paesi debitori come l'Italia, la Francia, la Spagna e altri Paesi del Sud Europa. Per garantirsi il recupero dei crediti, i primi hanno imposto austerità, riduzioni drastiche del costo del lavoro, tagli del welfare e aumenti delle tasse. I debiti pubblici denominati in una moneta che i singoli stati non controllano – e che di fatto appare quindi loro come una moneta straniera – forzano i governi ad adottare politiche pro-cicliche. Le economie meno competitive entrano quindi nella spirale della crisi e finiscono per trascinarvi quelle dei Paesi cosiddetti «virtuosi». L'euro, invece di spingere verso la convergenza tra i 18 membri dell'Eurozona, ne aumenta le divaricazioni e i conflitti;
l'Eurozona, e in particolare i Paesi mediterranei, si trovano in una situazione economica pesantissima: stagnano o calano i consumi e diminuiscono gli investimenti privati e pubblici. La BCE cerca di dare ossigeno monetario al sistema ma le banche dei diversi Paesi trattengono la liquidità e non offrono sufficiente credito all'economia reale, in particolare alle piccole e medie imprese. In pratica: non si investe, non si produce, non si consuma;
crescono massicciamente la disoccupazione e la precarietà del lavoro. Aumentano le divaricazioni territoriali e sociali. Sembra che l'Europa abbia dimenticato i suoi obiettivi originari di piena occupazione, sviluppo sostenibile e benessere per tutti i cittadini: la priorità dichiarata dagli organi della Unione europea è piuttosto mirata esclusivamente ad aumentare la competitività con politiche di austerità e le cosiddette «riforme strutturali»;
la crisi mette a rischio la sopravvivenza stessa di qualsiasi disegno di integrazione. L'economia europea è malata e rischia di infettare l'economia mondiale. In questo quadro di incertezza e di grave sofferenza sono possibili diversi scenari: la continuazione di una fase prolungata di stagnazione, o peggio di recessione e depressione; la ristrutturazione dei debiti dei Paesi dell'Europa mediterranea; la rottura caotica dell'Eurozona con l'uscita forzata di uno o più Paesi dall'euro e il crollo rovinoso del sistema europeo e dell'euro;
il Governo – dobbiamo constatare – non è riuscito a fare «cambiare verso» all'Unione europea malgrado i sei mesi di Presidenza italiana dell'Unione Europea: nel semestre italiano di presidenza dell'Unione Europea, infatti, si è ripetuto il seguente copione: il Governo, a Roma, tuona contro l'austerità ma a Bruxelles non ottiene nulla. Il Premier italiano, da un lato, invoca flessibilità e crescita, dall'altro promette che l'Italia rispetterà le regole del Fiscal Compact. Mentre dovrebbe scegliere: l'Italia non può investire se rispetta il Fiscal Compact; al contrario l'Italia per investire deve violare il Fiscal Compact. Da questo punto di vista il semestre italiano è stato un'occasione perduta;
secondo i dati Istat, nel terzo trimestre 2014, il PIL cala dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente e dello 0,5 per cento rispetto al terzo trimestre del 2013, mentre gli investimenti lordi sono diminuiti del 3,1 per cento rispetto ad un anno fa, la produzione industriale di ottobre in Italia è crollata del 3 per cento, la quarta frenata mensile consecutiva, tutte con il Governo Renzi, ed i disoccupati sono il 13,2 per cento della forza lavoro. In una situazione simile avremmo avuto bisogno di una vera manovra espansiva. Al contrario, il Governo non vara investimenti poiché teme una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo da Bruxelles;
ma in Europa ci sono due pesi e due misure: nel rapporto deficit/PIL la Francia arriverà al 4,5 per cento nel 2014. Sforerà anche nel 2015. Così la Spagna nel 2014 al 5,8 per cento, al 4,2 per cento nel 2015. Dunque, altri Paesi sforano e non succede nulla. Secondo la Commissione dell'Unione Europea non solo il nostro debito è eccessivo ma forse non raggiungeremo gli obiettivi di medio termine. Sono dunque da prevedere altri miliardi di tagli alle spese a marzo malgrado con la legge di Stabilità si stiano già facendo i salti mortali per rispettare il 2,6 per cento del PIL;
comparando dal 2008 il rapporto deficit/PIL di Roma e Parigi, si constata che: nel 2013 l'Italia sta al 3 per cento, la Francia sfora al 4,3 per cento; nel 2012 noi stiamo sempre al 3 per cento, la Francia sfora al 4,9 per cento; nel 2011 noi sforiamo al 3,9 per cento ma la Francia arriva al 5,2 per cento; nel 2010 noi arriviamo al 4,6 per cento ma Parigi ci surclassa al 7 per cento; nel 2009 Roma arriva al 5,5 per cento e Parigi sfonda al 7,5 per cento; nel 2008 noi stiamo al 2,7 per cento, la Francia comunque sfora al 3,3 per cento;
secondo l'analisi della Commissione europea, l'Italia pur rimanendo sotto il 3 per cento nel rapporto tra deficit e PIL, non ha tagliato sufficientemente il disavanzo con ripercussioni sul debito pubblico;
che anziché diminuire continua a crescere, l'anno prossimo al 133,8 per cento. Secondo Bruxelles il deficit strutturale scenderà solo dello 0,1 per cento invece del richiesto 0,5 per cento (il Governo sostiene che tale deficit scenderà dello 0,3 per cento). Si chiede dunque all'Italia uno sforzo maggiore entro marzo per ridurre il debito;
in cambio del voto dato a Juncker, il Governo avrebbe dovuto ottenere che l'Italia sia trattata dalla Commissione come la Francia. Viceversa Juncker ha dichiarato, rivolto in particolare all'Italia, che senza tagli aggiuntivi «le conseguenze saranno spiacevoli». Egli ha inoltre affermato che «noi abbiamo utilizzato – nei confronti dell'Italia-NdR – la più grande flessibilità mai attuata... Avremmo potuto attivare subito per l'Italia una procedura per debito eccessivo»;
finora il Premier ha ottenuto nel suo semestre di Presidenza dell'Unione Europea un solo reale risultato: il rinvio del giudizio definitivo della Commissione sulla nostra legge di stabilità a marzo 2015;
in ogni caso, porsi il problema, come ha fatto il Governo italiano, se i criteri di calcolo dell’output gap siano giusti o sbagliati, output gap sulla base del quale viene poi stabilita la distanza che ci separa dal raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale, è un approccio minimalista: il pareggio di bilancio è il vero problema da affrontare;
il Governo Berlusconi, spinto dalla fortissima tensione sui titoli di Stato italiani, nel 2011 assunse l'impegno di conseguire il pareggio di bilancio contabile entro il 2014, poi anticipato dallo stesso Governo al 2013. Questo obiettivo pur perseguito con energia dai governi che si sono man mano succeduti, non è stato finora conseguito, anzi il suo raggiungimento nel prossimo futuro risulta altamente improbabile, a causa della potente carica distruttiva sul PIL contenuta nelle stesse manovre messe in campo da quella data in poi per realizzarlo che non hanno reso possibile neppure acquisire il pareggio strutturale;
la strategia del pareggio contabile o strutturale mira essenzialmente a raggiungere l'obiettivo di frenare e/o bloccare la crescita del numeratore del rapporto debito/PIL, per migliorare nel tempo questo indicatore; nel presupposto che il PIL nominale possa crescere e svilupparsi in forma indipendente dalle misure di consolidamento del bilancio, per effetto delle cosiddette «riforme strutturali» e degli aiuti monetari che i Governi e le autorità preposte mettono in campo. Una concezione priva delle più elementari basi logico-razionali. Nessun Paese al mondo può crescere se tutti gli agenti nevralgici sono contemporaneamente orientati al ribasso: investimenti pubblici e privati, consumi pubblici e privati, credito bancario a famiglie e imprese, redditi disponibili e reddito d'impresa, dinamica dei prezzi e fiducia nel futuro;
allo stato attuale, senza cospicui investimenti pubblici, a poco potranno le nuove iniezioni di liquidità che la BCE ha in programma di realizzare per sovvertire un quadro così compromesso. La stessa BCE ha riconosciuto il fallimento delle due aste del maxi prestito alle banche europee denominato «TLTRO»; gli istituti di credito dovevano ricevere 400 miliardi di euro, ma ne hanno ritirato da settembre ad oggi solo 212 miliardi;
in questo contesto il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, ha proposto il suo nebuloso piano di circa 300 miliardi di investimenti. Partirebbe con un Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (EFSI) di 21 miliardi di euro: 5 di denaro vero della BEI, la Banca Europea degli Investimenti, 16 tra liquidità dell'attuale bilancio dell'Unione europea e garanzie. Successivamente la BEI concederebbe prestiti pari a tre colte il capitale iniziale: tali prestiti dorrebbero coinvolgere investitori privati con un ulteriore effetto moltiplicatore pari a cinque. E così si arriverebbe all'importo di 315 miliardi per i 28 Stati dell'Unione europea (con un moltiplicatore pari a 15). Una Task Force europea dovrebbe valutare quali progetti finanziare;
sono stati presentati dai 28 Paesi dell'Unione europea circa 2.000 progetti nazionali, per un totale di 1.300 miliardi, in competizione per ottenere i 21 miliardi di finanziamenti europei, mentre i finanziamenti dei privati sono tutti da verificare;
il fulcro del piano è la costituzione del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (European Fund for Strategie Investment-EFSI), organismo nuovo che si occuperà dei progetti di investimento e del loro finanziamento. Il piano dovrebbe essere operativo a partire dal giugno 2015, con un ruolo chiave della Banca Europea degli Investimenti (BEI), che affiancherà neonato Fondo per rafforzarne la capacità d'azione sui mercati finanziari internazionali;
la maggior parte di quei 21 miliardi verrà attinta da fondi già esistenti, come quello «Horizon 2020», il programma di 80 miliardi dell'Unione europea destinato alla ricerca e allo sviluppo. Insomma, non si mette in campo nessuna vera risorsa aggiuntiva. La ragione è da ricercarsi da un lato nella resistenza da parte dei Paesi del nord – Gran Bretagna in primis – ad aumentare di un singolo centesimo il loro contributo al budget europeo, dall'altro nell'insistenza della Germania per un coinvolgimento minimo della BEI per evitare il rischio che perda la «tripla A» da parte delle agenzie di rating;
il Piano Juncker serve a dare l'illusione all'opinione pubblica europea che qualcosa stia cambiando e che ci siano speranze per il futuro. Purtroppo, non è così: i 315 miliardi di euro di cui si parla sono costituiti da 21 miliardi veri che dovrebbero essere versati dagli Stati in un apposito fondo, il quale successivamente dovrebbe emettere obbligazioni per ottenere dal mercato le risorse mancanti, con una leva finanziaria di 1 a 15 assolutamente poco credibile. Non risulta, infatti, che fondi di investimento pubblico siano mai riusciti ad attivare una leva finanziaria superiore a 3, anche ai tempi della finanza allegra;
si ipotizza che gli investimenti da finanziare (essenzialmente infrastrutture) siano in grado di produrre un reddito sufficiente a remunerare gli investitori privati (banche) che dovrebbero partecipare all'operazione. Ciò significa che i progetti eventualmente finanziabili si riducono drasticamente di numero, restando escluse tutte le opere pubbliche non suscettibili di produrre un reddito direttamente quantificabile (per esempio quelle relative al recupero del territorio), mentre quelli che verranno accettati potrebbero tranquillamente trovare finanziamenti direttamente sul mercato. In sintesi, la proposta appare per molti aspetti come una sostanziale presa in giro. Già 300 miliardi di euro sono meno della metà di quanto servirebbe a rilanciare l'economia europea. Il fatto poi che debbano essere finanziati sul mercato e non in disavanzo secondo criteri di redditività privati conferma che non la crescita ma l'ossessione contabile dei Paesi nordici continua ad essere la vera bussola che orienta le scelte di Bruxelles;
gli economisti della Royal Bank or Scotland hanno calcolato che nell'eurozona gli investimenti siano crollati di 330 miliardi l'anno dall'inizio della crisi. Essi giudicano l'iniziativa di Juncker come sottodimensionata e tardiva. Secondo questi economisti, all'Europa servirebbero almeno 800 miliardi di euro di nuovo capitale, cioè gli investimenti persi nel corso della crisi. Ma l'area euro dovrebbe ripristinare non meno di 1.000 miliardi se consideriamo l'ammortamento e la crescita mancata tra il 2007 e il 2014, perché con la crescita, sia pure contenuta della produttività, non basta ripristinare quanto perduto per recuperare il livello di occupazione iniziale;
inoltre, il rischio è che ne traggano beneficio i Paesi e le regioni più dotati di capitali da investire. Ci si può legittimamente chiedere se un investitore straniero, puntando alla redditività, sceglierebbe di investire su un'infrastruttura in Baviera o in Calabria;
infatti, malgrado che il capitale della BEI sia stato aumentato di 10 miliardi nel 2012, i Paesi del Sud Europa, che pure hanno diligentemente sottoscritto le loro quote, non hanno avuto in cambio sostanzialmente nessun vantaggio, dal momento che gran parte dei fondi raccolti sono andati a finanziare progetti di Paesi quali la Germania;
ci sarebbe in astratto la possibilità per gli Stati nazionali di contribuire anch'essi all'iniziativa, ma sembra difficile che arrivino risorse da parte loro, anche perché non c’è nessuna garanzia che i fondi stanziati da un singolo Stato vengano ristornati allo stesso Paese;
in una situazione economica di stagnazione e deflazione in molti Paesi dell'Unione europea, ipotizzare un effetto moltiplicativo di questo genere assomiglia più a un atto di fede che una reale politica economica. Innanzi tutto i capitali privati si muovono se hanno profitti elevati – e la BEI ha abituato gli investitori privati alla «tripla A» delle agenzie di rating: cioè investimenti assolutamente sicuri, a redditività garantita. Non sembra che ci siano molti investimenti nell'economia reale che abbiano oggi queste caratteristiche in Europa. In secondo luogo, la stagnazione provocata dalle politiche di austerità è alla base della rinuncia degli investitori privati a investire – gli investimenti privati dal 2008 sono caduti in tutta Europa molto di più del PIL. Non si riesce a capire perché mai dovrebbero credere adesso in una ripresa della domanda quando la spesa pubblica è ferma e le esportazioni sono rallentate come mai nei vent'anni passati;
in un contesto in cui le aspettative degli investitori privati erano atterrite – esattamente come lo sono oggi – dallo stato comatoso della domanda pubblica e privata, John Maynard Keynes negli anni trenta reclamava un intervento pubblico «vero» – fatto di risorse pubbliche immediatamente immesse nell'economia per realizzare nuovi beni e servizi – e non aveva illusioni sulla conversione alla ripresa di finanziatori privati chiusi nella trappola di un denaro liquido che non si trasforma in investimento;
nella migliore delle ipotesi – ossia nell'eventualità in cui il piano riesca veramente a raccogliere la cifra auspicata – si tratterebbe comunque di un regalo agli investitori, in cui l'autorità pubblica si accollerebbe il rischio, fornendo ai privati il denaro a copertura delle eventuali perdite sul capitale investito, lasciandogli gli eventuali profitti, secondo la logica dei partenariati pubblico-privato;
considerato, inoltre che, per quanto riguarda le relazioni esterne all'Unione europea:
negli scorsi giorni è stato chiuso il più grande porto di carico del petrolio in Libia, a Es Sider, al confine fra Tripolitania e Cirenaica. In queste ore i capi militari e tribali di Zwara, una comunità che sorge ad Ovest, lungo il percorso del gasdotto che alimenta l'Italia, stanno decidendo se bloccare o meno il gasdotto nella stazione di Mellita dove viene introdotto nel gasdotto che attraversa il canale di Sicilia e introduce il gas in Europa con il rischio di provocare gravi ripercussioni, anche economiche a tutto il continente;
nei dintorni infuria la battaglia fra i miliziani della Petroleum Protection Guard del capo-milizia Ibrahim Jadran e quelli della coalizione Misurata-Islamisti che da agosto controlla Tripoli; in Libia i combattimenti si spostano freneticamente in quasi tutto il Paese e la crisi libica rischia anche di destabilizzare anche i Paesi dello Sahel, come ha anche affermato in una recente audizione al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, l'inviato speciale nella regione, Guebre Sellasie, il quale ha aggiunto: «Se la situazione in Libia non verrà rapidamente messa sotto controllo, numerosi Paesi della regione potrebbero venire destabilizzati in un futuro prossimo: le voci riguardanti dei presunti campi di addestramento dello Stato islamico in Libia sono particolarmente preoccupanti»;
la regione del Sahel è particolarmente strategica. Attraverso il Sahel, passano infatti, 20 mila armi da fuoco provenienti dalla Libia, e secondo recenti dati, passano per la regione la maggior parte delle 18 tonnellate di cocaina che giungono in Africa Occidentale;
l'area è inoltre minacciata dalle violenze del gruppo terroristico Boko Haram nel nord della Nigeria a dalle crisi in Mali e nella Repubblica Centroafricana, nonché dalle minacce interne, con un numero di bambini denutriti che ha superato i 6 milioni, mentre gli sfollati sono raddoppiati nel corso dell'ultimo anno e sono attualmente 3.3 milioni;
la recente comparsa del virus Ebola in Mali, rischia di compromettere sensibilmente la regione anche alla luce degli insufficienti aiuti internazionali per prevenire e combattere l'epidemia; in Libia la situazione è drammatica. Oltre ai diffusi combattimenti in tutto il Paese, l'Alto Commissariato delle Nazione Unite per i Rifugiati stimava, che solo nello scorso mese, almeno 106.420 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case, il che significa che, da maggio scorso, sono oltre 400 mila le persone sfollate a causa delle violenze in Libia;
nel frattempo, per via delle violenze e dei conflitti diffusi, notevoli difficoltà si riscontrano nelle operazioni umanitarie, per cui la stima degli sfollati è soltanto approssimativa e potrebbe di dimensioni ancora più grandi;
secondo gli ultimi dati diffusi dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sono oltre 51 milioni gli sfollati nel mondo e rappresenta il dato più alto nel mondo dal 1945;
secondo le stime, soltanto in Siria e Iraq, Paesi dove sono in corso i principali conflitti e dove è in corso la campagna dei Paesi occidentali contro l'ISIS, gli sfollati sarebbero più di 14 milioni;
in Iraq la maggior parte degli sfollati ha trovato rifugio all'interno del Paese, mentre la grande maggioranza dei rifugiati siriani ha trovato riparo in Libano, Giordania, Iraq e Turchia che ne ospita circa 1 milione e mezzo all'interno di campi profughi allestiti prevalentemente nel Kurdistan turco; nel 2014 hanno tentato la fuga via mare oltre 348 mila persone, di cui 207 mila sono riuscite a completare la traversata. Un numero di quasi tre volte più alto rispetto al precedente picco di 70 mila nel 2011, quando la guerra civile libica era in pieno svolgimento; la componente dei richiedenti asilo rappresenta la componente maggioritaria di questo flusso e i restanti sono persone beneficiarie di protezione internazionale;
l'offensiva jihadista, da cui gli sfollati scappano, secondo dati recentemente diffusi dalla BBC ed elaborati dal King's College di Londra, ha prodotto soltanto nel mese di novembre, 5.042 vittime, la cui grande maggioranza erano civili (2.079), il Paese in cui si è registrato il maggior numero di vittime è stato l'Iraq, al secondo posto la Nigeria seguita dall'Afghanistan;
con l'idea di fondo che sarebbero diminuiti gli approdi via mare con l'inizio della stagione invernale, dal 1o novembre l'operazione Mare Nostrum è stata sostituita dall'operazione dell'Unione europea Triton che ha soltanto compiti di soccorso entro le 30 miglia;
tuttavia se si paragona il numero di arrivi a novembre scorso, mese di avvio della missione Triton, con quelli registrati a novembre 2013 si scopre che il numero dei profughi arrivati in Italia è quasi quintuplicato;
nel novembre 2013 i profughi soccorsi sono stati 1.883, mentre un anno dopo i profughi arrivati sono stati 9.134, con un aumento del 485 per cento nonostante il ridimensionamento della missione: questi numeri confermano la grandezza del fenomeno delle migrazioni, che sarà sempre più vasto come affermato anche dall'ultima riunione del Consiglio dell'Unione europea «Affari Esteri», che ha preso conoscenza della necessità di una nuova strategia globale dell'Unione europea che vada oltre la sorveglianza delle frontiere, come accade ora con l'agenzia Frontex e affronti la questione dei rifugiati, garantendo accoglienza e standard uniformi in tutti i Paesi in linea con quanto previsto dalla convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati;
occorre altresì una politica estera forte dell'Unione europea, improntata sul rafforzamento della capacita degli strumenti di prevenzione diplomatica, mediazione e gestione non violenta dei conflitti, anche considerato il numero dei conflitti che vanno espandendosi sempre di più ai confini del continente, la cui espressione, la PESC – Politica europea e di sicurezza comune, rimane inefficace e a volte incomprensibile, troppo subordinata alle scelte dell'Alleanza Nord Atlantica e degli Stati Uniti d'America;
manifestazione palese di questa incomprensibile subordinazione è la crisi ucraina dove l'atteggiamento europeo di puntare sul muro contro muro con Mosca è apparso totalmente sbagliato e noncurante degli storici errori commessi dall'Unione a partire dagli anni 90 che hanno portato in sequenza a conflitti, aperture diplomatiche, minacce reciproche e logoramento delle relazioni;
la partita geopolitica è stata giocata principalmente sul terreno della «sicurezza» e la mossa principale dell'allargamento ad Est della Nato e le trattative per l'ingresso dell'Ucraina nell'Unione europea, sono state una scelta strategica sbagliata così come la gestione della crisi e le conseguenti sanzioni, di cui l'Europa e i suoi Stati membri pagano un prezzo elevato;
ulteriormente la crisi ucraina rischia di riaprire la corsa al riarmo nucleare tra Nato e Russia con l'Alleanza atlantica sempre più determinata a rafforzare la propria capacità di deterrenza tattica attraverso l'acquisizione e il dispiegamento, in varie basi in Europa, tra cui quella di Ghedi, di nuovi sistemi d'arma a proiezione nucleare;
ora l'Italia, che ha anche il massimo esponente della politica europea e di sicurezza comune, dovrebbe avere il coraggio di porre le questioni cruciali a partire dal promuovere una soluzione del conflitto Israelo-Palestinese come ha già fatto la Svezia e come hanno fatto i Parlamenti di Irlanda, Spagna, Belgio e Francia, ossia di proporre il riconoscimento dello Stato di Palestina così come si riconosce lo Stato di Israele come contributo di politica estera per la ripresa dei negoziati sulla posizione «due popoli, due Stati», da sempre la posizione dell'Italia e dell'Unione europea;
appare questa iniziativa l'unica possibile anche alla luce dell'aggravamento del conflitto dopo l'uccisione del Ministro Palestinese Ziad Abu Ein, avvenuto nei giorni scorsi da parte dell'esercito israeliano e anche considerate le recenti prese di posizione del Primo Ministro israeliano Netanyahu, il quale ha dichiarato che Israele non accetterà mai il ritiro entro i confini del 1967, nonché la ripresa delle violenze a Gerusalemme Est;
osservato, infine che, in merito alla crisi dell'Ebola:
per diversi anni si è cercato di convincere l'Organizzazione mondiale della Sanità a promuovere la ricerca sull'Ebola, ma per troppo tempo si è continuato a considerarla una malattia focale, di focolai virulenti, capaci di estinguersi da soli;
solamente quest'estate l'OMS ha riconosciuto Ebola come un'emergenza internazionale. Un virus che uccide fino all'80% dei soggetti che si ammalano;
le proiezioni pubblicate a metà dello scorso settembre dell’US Centre for Disease Control and prevention (CDC) di Atlanta sono drammatiche. Solo in Sierra Leone e in Liberia, più di 20 mila nuovi casi potrebbero emergere nelle prossime settimane e qualcosa come 1,4 milioni entro gennaio 2015 se il contagio continuasse a propagarsi ai ritmi attuali;
i Paesi colpiti dall'epidemia, Liberia, Siena Leone, e con una estensione contenuta Nigeria e Senegal, vanno supportati e va soprattutto scongiurato il loro isolamento per non compromettere lo sforzo degli aiuti internazionali e non aggravare la frattura sociale ed economica;
l'epidemia del virus Ebola rappresenta una seria minaccia alla salute da considerarsi come una minaccia globale. La lenta e inadeguata risposta della comunità internazionale ha amplificato le dimensioni di un dramma che poteva essere contenuto;
il 23 ottobre 2014 Barroso, ex presidente della Commissione europea, dichiarava: «nei confronti dell'Ebola abbiamo ingaggiato una corsa contro il tempo, dobbiamo affrontare la situazione di emergenza ma anche trovare risposte a lungo termine». E poi annunciava un ulteriore finanziamento per velocizzare alcune delle più promettenti ricerche per lo sviluppo di vaccini e di cure;
pochi giorni dopo la suddetta dichiarazione di Barroso, si è tenuta una riunione dell'OMS con i rappresentanti di Governi, dell'industria, di donatori, di ricercatori medici e delle organizzazioni di soccorso, anche per discutere dell'accesso e il finanziamento dei vaccini per l'Ebola;
come chiesto da Bertrand Draguez, direttore medico di Medici senza Frontiere, alla suddetta riunione dell'OMS deve però «seguire un'azione urgente per veder realizzare quelle promesse in Africa occidentale nel più breve tempo possibile. A questa azione deve seguire la distribuzione massiccia dei vaccini alla popolazione, non appena la loro efficacia sarà stato provata. È fondamentale che il personale dei sistemi sanitari locali, delle organizzazioni umanitarie e presso la comunità, impegnato nella risposta all'epidemia e nel garantire cure mediche di base, sia protetto. Quasi ovunque le risorse sono al limite»;
lo stanziamento di 24.4 milioni di euro stanziati dalla Commissione europea per la ricerca sull'Ebola, è un passo importante ma insufficiente. Come sottolineato da Manica Balasegaram, direttore esecutivo della Campagna di Medici senza Frontiere per l'accesso ai farmaci, per tentare di arginare l'epidemia, sono fondamentali vaccini e trattamenti. I governi e l'industria devono svolgere un ruolo chiave. L'industria deve assumersi dei rischi, mentre i governi devono sostenerla attraverso incentivi e riduzioni al minimo di tali rischi. Servono urgentemente investimenti e incentivi sufficienti per lo sviluppo di farmaci specifici per l'Ebola;
in questo ambito l'Unione europea avrebbe potuto, e dovrebbe avere, un ruolo più centrale; peraltro l'Unione europea e la comunità internazionale si dovranno attivare per evitare che i vaccini e i farmaci in via di sperimentazione da parte di industrie farmaceutiche, vengano introdotti a prezzi troppo elevati. Sotto questo aspetto è indispensabile poter negoziare con le industrie il prezzo dei dispositivi medicali,

impegna il Governo:

a) per quanto concerne la politica economica e sociale:
a creare un fronte comune con i governi disponibili a porre con forza negli organismi della governance europea, il tema della revisione dei trattati europei a partire dal fiscal compact, corregendo i vincoli del 3 per cento e del debito al 60 per cento che sono del tutto arbitrari ed assurdi, ottenendo la convocazione di una Conferenza europea per definire le necessarie modifiche;
a proporre, nell'ambito di tale Conferenza, un negoziato sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 a favore della Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra, prevedendo la rinegoziazione del debito che eccede il 60 per cento del Pil;
ad adoperarsi negli organismi europei per consentire nel frattempo lo sforamento del limite del deficit del 3 per cento e per ottenere la moratoria, per almeno un quinquennio, sull'applicazione delle misure obbligatorie di abbassamento del debito prevista dal fiscal compact nonché la modifica delle modalità di calcolo dei saldi corretti per il ciclo che penalizzano soprattutto Paesi come il nostro in prolungata recessione;
a proporre con determinazione di non conteggiare nei saldi validi ai fini dei Trattati dell'Unione europea i finanziamenti degli investimenti pubblici finalizzati a misure per la crescita dell'occupazione e al co-finanziamento dei Fondi europei;
a proporre un Green New Deal continentale (un Piano europeo per l'Occupazione) il quale stanzi almeno 1.000 miliardi di euro con risorse pubbliche nuove ed aggiuntive rispetto a quelle già stanziate (diversamente da quanto previsto dal cosiddetto «Piano Juncker»), per dare occupazione a 5-6 milioni di disoccupati o inoccupati (di cui un milione in Italia): tanti quanti sono quelli che hanno perso il lavoro dall'inizio della crisi, definendo una politica industriale a livello europeo, dando priorità a interventi che rispettano il diritto ad un ambiente sano e integro, al contrario di quanto fanno molte grandi opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione, agevolando la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili, la creazione di un'agricoltura biologica e multifunzionale, il riassetto idrogeologico dei territori, la valorizzazione non speculativa del patrimonio artistico, il potenziamento dell'istruzione e della ricerca, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, l'innovazione tecnologica, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese, e altro);
e, qualora tali proposte non abbiano esito positivo:
a) ad assumere urgentemente, pur nel contesto dell'euro, iniziative autonome e sovrane per rilanciare l'economia e l'occupazione, come lo sforamento del 3 per cento per il rapporto deficit/PIL;
b) a valutare l'opportunità di predisporre misure finanziarie nazionali, come previsto, ad esempio, dalla proposta di alcuni economisti favorevoli alla creazione di una quasi-moneta nazionale complementare all'euro tramite la diffusione a favore dei lavoratori dipendenti e autonomi, delle imprese e dei disoccupati, di Certificati di Credito Fiscale ad utilizzo differito ed all'emissione di BTP fiscali, oppure altre soluzioni che salvaguardino i nostri interessi nazionali;
c) a predisporre anche con le risorse che ne deriverebbero un Piano nazionale per il lavoro secondo le linee direttrici sopra enunciate per il Green New Deal continentale;
a porre in essere entro la fine del mese corrente e, quindi, nel contesto della Presidenza italiana del semestre europeo, ogni iniziativa di competenza finalizzata, a far approvare in via definitiva le disposizioni del regolamento del made in già approvate dal Parlamento europeo in data 15 aprile 2014 dando seguito agli impegni assunti ormai da diversi mesi attraverso l'approvazione delle mozioni n. 1-00524, 1-00526, 1-00527, 1-00528, 1-00529, 1-00530 e 1-00532, presentate da tutti i Gruppi Parlamentari alla Camera dei Deputati, potenziando al contempo i sistemi di vigilanza e di repressione dei fenomeni di contraffazione dell'agroalimentare, del made in Italy, ovvero dell’italian sounding, che ha purtroppo raggiunto livelli di gravità inammissibile come pure evidenziato da numerose inchieste recentemente pubblicate dalla stampa nazionale e rilanciate da significativi servizi di approfondimento ed informazione da parte dei media televisivi;
b) per quanto concerne le relazioni esterne all'Unione europea:
a sostenere la convocazione di una conferenza internazionale che veda coinvolti tutti Paesi della regione, Arabia Saudita, Iran, Iraq, Turchia in primis, e che affronti anche il conflitto siriano, al fine di mettere a punto un approccio regionale alla crisi e di isolare economicamente e politicamente ISIS e le forze jihadiste che operano in quelle aree, dando applicazione alle decisioni in merito adottate dal Consiglio di Sicurezza ONU;
ad attivarsi prontamente presso il Consiglio europeo e presso i competenti organi delle Nazioni unite per l'invio in tempi rapidi di un contingente internazionale di peace enforcement con il contributo dell'Unione europea, sotto il comando del segretario generale delle Nazioni Unite e previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza o qualora si renda necessario dell'Assemblea Generale, che si attenga strettamente alle regole del diritto internazionale e che operi esclusivamente a difesa dei civili minacciati dall'avanzata di ISIS;
a proporre nelle competenti sedi europee un'iniziativa tesa a sospendere l'applicazione del regolamento cosiddetto «Dublino III» e a sostenere la necessità di una sua revisione, che ponga al centro:
a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, fornendo loro un'adeguata assistenza fisica, psicologica e legale, nonché un adeguato percorso di integrazione;
b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, che estenda ai richiedenti asilo ed ai rifugiati i diritti previsti per i cittadini europei dal Trattato di Schengen, permettendo così un'allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
c) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati;
a farsi portatore in sede europea di un'iniziativa che porti al definitivo superamento del sistema Frontex, affinché quelle risorse siano finalizzate in primis ad organizzare un efficiente sistema di monitoraggio e soccorso e l'apertura di canali di «accesso protetto»;
a promuovere una soluzione diplomatica della crisi ucraina che coinvolga tutte le parti in conflitto e svolgendo, in tale direzione, un ruolo di primo piano anche in considerazione dei consolidati rapporti che intercorrono tra i due Paesi, lavorando per garantire l'integrità territoriale dello Stato ucraino ed il rispetto della sua sovranità in quanto principio internazionale inviolabile, nel rispetto della sicurezza della popolazione civile e al contempo per garantire i diritti delle minoranze e delle nazionalità, l'autonomia amministrativa, l'uso della lingua delle minoranze nelle scuole e nelle istituzioni pubbliche, la presenza di esponenti delle diverse nazionalità nel Governo centrale e di forme di contrappeso istituzionale tali da garantire tutte le nazionalità;
a rivedere la posizione dell'Italia riguardo alla partecipazione degli accordi di nuclear sharing della Nato a partire dalla decisione di non permettere il dislocamento in Italia delle nuove testate nucleari B-61-12 e la riconfigurazione dei velivoli dell'aeronautica militare al fine di renderne possibile il trasporto e l'uso;
ad assumere in sede di Consiglio europeo un ruolo propulsore per una soluzione definitiva al conflitto arabo-palestinese anche promuovendo una iniziativa in sede europea affinché gli Stati membri dell'Unione europea riconoscano lo Stato di Palestina;
c) in merito alle misure da adottare per rispondere alla crisi dell'Ebola:
ad attivarsi nei confronti degli altri partner europei al fine di coinvolgere la comunità internazionale per incrementare le risorse da destinare alla ricerca clinica di terapie e di farmaci sperimentali;
a farsi promotore in ambito UE, anche attraverso la collaborazione con le ONG, di un'implementazione della cooperazione sanitaria verso i Paesi africani colpiti dal virus, in termini di invio di risorse, personale medico specializzato, attrezzature idonee e medicine;
a sostenere la ricerca farmaceutica relativamente allo studio di farmaci sperimentali e vaccini, attraverso incentivi adeguati;
ad attivarsi in ambito UE e quindi in ambito internazionale, per evitare che i vaccini e i farmaci in via di sperimentazione da parte di industrie farmaceutiche, vengano introdotti a prezzi troppo elevati, anche attraverso la negoziazione con le industrie farmaceutiche, del prezzo dei dispositivi medicali.
(6-00102) «Kronbichler, Pannarale, Scotto, Marcon, Melilla, Palazzotto, Nicchi, Matarrelli, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Fratoianni, Paglia, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaccagnini, Zaratti».