• C. 2844-A-bis EPUB BUSIN Filippo, Relatore di minoranza per la Commissione VI Finanze - PRATAVIERA Emanuele, Relatore di minoranza per la Commissione X Attività Produttive

link alla fonte  |  scarica il documento in PDF

Atto a cui si riferisce:
C.2844 [Decreto Banche Popolari] Conversione in legge del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti
approvato con il nuovo titolo
"Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti"


Frontespizio Relazione
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2844-A-bis


DISEGNO DI LEGGE
presentato dal presidente del consiglio dei ministri
(RENZI)
dal ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
e dal ministro dello sviluppo economico
(GUIDI)
Conversione in legge del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti
Presentato il 24 gennaio 2015
(Relatori di minoranza: BUSIN, per la VI Commissione;
PRATAVIERA, per la X Commissione)


      

torna su
Onorevoli Colleghi! Il decreto-legge n. 3 del 2014, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, reca in sé non pochi rilievi critici, innanzitutto riguardo a profili di costituzionalità, ma sopratutto nel merito delle disposizioni previste dal provvedimento. Si esamineranno partitamente i profili riguardanti rispettivamente le competenze della Commissione VI (Finanze) e della Commissione X (Attività produttive).
      Riguardo alla presunta incostituzionalità, essendo questa già stata ampiamente argomentata nella pregiudiziale presentata dal Gruppo della Lega Nord, non si pone qui la necessità di ulteriori specificazioni, anche se è sempre opportuno ribadire come i presupposti di necessità ed urgenza addotti dal Governo per giustificare un simile intervento non possano essere condivisi né da un punto di vista formale né sostanziale. È pacifico ormai, come ha anche più volte ricordato la Corte costituzionale, che non si possa procedere ad una riforma di carattere ordinamentale per mezzo di decreto-legge, per cui, invece, non soltanto ex lege, ma soprattutto per ragioni di responsabilità politica, sarebbe più adeguato un intervento legislativo ordinario.
      Da tempo si assiste a un costante ricorso alla decretazione d'urgenza nel silenzio assoluto della maggioranza che siede in quest'Aula, immobile di fronte a una continua violazione del dettato costituzionale così come colpevolmente indifferente rispetto a scelte politiche poco avvedute e inadeguate.
      Per quanto riguarda, in particolare, la materia di competenza della Commissione VI (Finanze), la nuova disciplina prevista dal decreto in oggetto non può condividersi né nell’an né nel quantum, poiché non possono certo ritenersi sufficienti le ragioni presentate dal Governo circa la necessità di una simile riforma, ossia la presupposta inadeguatezza delle banche popolari al «mutato quadro europeo», la loro incapacità di attrarre capitali al fine di una congrua patrimonializzazione e l'esigenza di uniformare il nostro sistema bancario a quello degli altri Paesi della zona euro.
      Risulta evidentemente infondata l'argomentazione utilizzata dal Governo nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione, secondo cui «le banche popolari hanno solo la forma cooperativa e non la sostanza della mutualità». Motivo, questo, per cui le banche popolari non sarebbero tutelate dall'articolo 45 della Costituzione. Secondo questa interpretazione il carattere della mutualità non sarebbe necessariamente legato alla forma cooperativa delle medesime banche, ma un mero contenitore giuridico atto a nascondere finalità lucrative. Si è grossolanamente omesso, però, che l'articolo 45 vuole tutelare piuttosto «la funzione sociale della cooperazione» che lo Stato si impegna a promuovere e a favorire, ponendo il carattere mutualistico quale species all'interno di un unico genere. Il fenomeno cooperativo, infatti, raccoglie al suo interno sia cooperative a mutualità non prevalente sia cooperative a mutualità prevalente, secondo una ratio in cui il carattere delle mutualità prevalente costituisce esclusivamente un requisito per l'ottenimento di agevolazioni fiscali e non per la tutela costituzionale o l'appartenenza al genus cooperativo.
      La finalità sociale delle banche popolari è più che evidente: normalmente le banche popolari destinano ad interventi con finalità sociale una percentuale dell'utile netto che va dal 5 all'8 per cento. Percentuali che si sono tradotte in 140 milioni di euro destinati ogni anno ad interventi sociali sul territorio, per un totale di 1 miliardo di euro durante tutto il periodo della crisi.
      Nate nel XIX secolo, sono ormai una particolarità del nostro Paese e come tali vanno mantenute, perché da anni svolgono una funzione sociale insostituibile per il territorio, con un'attenzione al sostegno alle famiglie e alle piccole e medie imprese che non ha eguali.
      Soprattutto in questi anni di negativo corso economico del nostro Paese, mentre le banche popolari aumentavano del 15,4 per cento i prestiti alla clientela, le banche costituite come società per azioni li diminuivano del 4,9 per cento e mentre i privati confermavano la fiducia nelle popolari conferendo loro i propri risparmi, sia sotto forma di depositi che di partecipazione al capitale, il Governo attuava un piano di salvataggio pubblico a favore di banche costituite in società per azioni attraverso lo strumento dei «Monti bond».
      Oggi siamo ad un punto cruciale per la vita economica del nostro Paese: appurato che la recessione si sia arrestata, bisogna iniziare a pianificare in maniera razionale la crescita. Per fare questo occorre dare credito alle PMI affinché investano e contribuiscano al rilancio dell'economia e dell'occupazione. Siamo sicuri che la trasformazione delle maggiori banche popolari italiane in Spa sia funzionale a questo scopo? La nostra grande preoccupazione è che non sia stato sufficientemente valutato l'impatto dei probabili movimenti speculativi sulle banche popolari trasformate in Spa da parte di operatori esteri che non hanno in nessun conto le esigenze di credito di imprese e famiglie. Distogliere queste banche dalle proprie funzioni sociali e territoriali equivarrebbe a imporre una fortissima battuta d'arresto negando una possibilità di ripresa alle aziende arrivate stremate in fondo alla crisi.
      Le popolari, infatti, nel solo periodo 2008-2014, hanno erogato finanziamenti alle PMI per un ammontare pari a 250 miliardi di euro, registrando una quota di mercato del 66 per cento nei sistemi economici a prevalenza di aziende di queste dimensioni.
      Le banche popolari hanno superato con successo la prova della crisi economica svolgendo una funzione anti ciclica nell'erogazione del credito e compensando in parte le misure di austerity attuate dagli ultimi Governi che hanno contribuito al calo della liquidità del sistema.
      Neanche riguardo alla solidità del patrimonio delle banche popolari, altra «forte» argomentazione portata a giustificazione della riforma, il gruppo della Lega Nord può trovarsi d'accordo. A ben vedere, infatti, tutte le banche popolari hanno superato positivamente gli ultimi Asset Quality Reviews e Stress Tests, a differenza di alcune banche organizzate in Spa che, come si ricorderà, hanno mostrato scarsa solidità patrimoniale. Anzi, le banche popolari possono vantare addirittura eccedenze, da un minimo di 30 a un massimo di 1.750 milioni di euro. In particolare le 8 banche popolari oggetto di esame della BCE hanno vantato un'eccedenza patrimoniale complessiva di più di 4 miliardi. Non si può invece ignorare come gli stessi Stress Tests abbiano scoperchiato il vaso di pandora di banche quali Monte dei paschi di Siena e del gruppo genovese di Banca Carige, che hanno dovuto rafforzare gli attivi di bilancio per un valore complessivo di 2,9 miliardi di euro.
      Nonostante il suo plauso alla riforma, la stessa Banca d'Italia ha rilevato come a settembre dello scorso anno «il patrimonio di migliore qualità (CET1) delle popolari maggiori era pari in media all'11,6 per cento, solo lievemente più basso di quello delle altre sei banche italiane “significative”, cioè sottoposte alla supervisione diretta del Sistema unico di vigilanza dell'area dell'euro (11,7 per cento)». La stessa Banca d'Italia, nella sua audizione, ricorda come negli anni di prolungata recessione sia dovuta intervenire in casi di difficoltà di banche, indifferentemente costituite nella forma di popolari, credito cooperativo o Spa. Di conseguenza, risulta evidente come non si possa collegare la mala gestione di un istituto alla sua forma giuridica, quanto piuttosto a responsabilità personali di chi lo amministra.
      Anche sulla supposta incapacità di attrarre capitali non c’è alcuna evidenza, se non in senso contrario, visto che negli ultimi tre anni le banche popolari hanno realizzato aumenti di capitale di oltre 9 miliardi di euro, tutti provenienti da soggetti privati, senza che si rendesse necessario un intervento statale, come è invece accaduto con i Monti bond.
      Egualmente, la motivazione riguardante la presunta rigidità e parzialità del sistema di governance delle popolari non sembra essere fondata, perché le accuse di capitalismo di relazione imputate a queste, attraverso cui si sarebbero fatti dei favoritismi nell'erogazione dei prestiti, posso essere mosse anche ad altri istituti di credito organizzati in Spa. Erano banche Spa quelle che hanno elargito finanziamenti ai vari Ligresti, Zaleski, Zunino, Ricucci, in presenza di conclamati conflitti di interesse, tanto che possiamo senza dubbio affermare che il capitalismo di relazione sia un male che affligge l'intero Paese, e non possa certo essere attribuito ad una particolare forma societaria.
      Le dubbie argomentazioni circa le possibili opacità relazionali tra soci e amministratori, derivanti da uno scarso ricambio dei soggetti apicali – suscettibili di poter portare a scelte dirigenziali non finalizzate all'utilità della generalità degli stakeholders, ma piuttosto a vantaggi personalistici – viene presto smentita dalle stime degli ultimi anni che vedono un ricambio della governance delle banche popolari pari al 90 per cento.
      Infine, non sembra comprovata la necessità sostenuta dal Governo di uniformare il nostro sistema bancario al nuovo quadro normativo europeo che, attraverso l'istituzione del Single supervisory mechanism (SSM), vuole dotarsi di un'efficiente macchina di gestione delle crisi bancarie. Innanzitutto perché in tutta Europa, tra cui anche in Francia e in Germania, che ha difeso il suo sistema di banche popolari con situazioni patrimoniali molto peggiori delle nostre, esistono modelli di banche a voto capitario il cui attivo va ben oltre la soglia degli 8 miliardi e in nessuno di questi Paesi si è proceduto con una legge che imponga una forma giuridica oltre una soglia arbitrariamente fissata. Secondariamente perché, oltre ai recenti studi della Consob, anche la Commissione europea, rinunciando ad imporre il principio di proporzionalità a livello europeo, ha rilevato come non vi sia alcuna dimostrazione empirica che attesti una migliore perfomance del modello Spa. Anzi, alcune risoluzioni del Parlamento europeo hanno avvalorato la maggior resilienza del modello delle banche popolari, a cui si aggiungono studi internazionali di autorevole provenienza, come quelli della Florida International University, che dimostrano la maggior capacità delle popolari, in momenti di crisi, ad adeguare i propri indicatori patrimoniali e di mantenere la propria compagine sociale più stabile nel tempo rispetto alle banche commerciali e a quelle d'investimento.
      Ci si domanda allora la vera ratio di un simile provvedimento. Senza farsi persuadere da facili macchinazioni complottistiche, si vuole qui ricordare come, l'11 febbraio scorso, il Presidente della Commissione nazionale per la società e la borsa Giuseppe Vegas, in sede d'audizione, abbia dichiarato come gli uffici di vigilanza dalla Consob avessero rilevato un abuso di informazioni privilegiate riguardo il contenuto del decreto banche popolari. Il 16 gennaio, ha affermato il Presidente, si può certamente assumere come data in cui il mercato ha avuto ragionevole contezza dell'intenzione del Governo di adottare un provvedimento sulla riforma delle banche popolari poiché soltanto in questa giornata, a mercati già chiusi, il Presidente del Consiglio ha dato annuncio del futuro decreto-legge. Presumibilmente però, alcune indiscrezioni erano già cominciate a circolare a partire dal 3 gennaio, quando è stato rilevato un aumento dei corsi delle banche popolari, saliti da un minimo dell'8 per cento per UBI ad un massimo del 57 per cento per la Banca popolare dell'Etruria e del Lazio. La Consob ha quindi osservato come, nonostante la performance negativa delle banche popolari, alcuni intermediari abbiano comunque eseguito delle operazioni potenzialmente anomale, ottenendo elevati margini di profitto, stimabili in circa 10 milioni di euro.
      Lo stesso 11 febbraio è arrivata la notizia del commissariamento della Banca dell'Etruria e del Lazio, per cui, il Ministero dell'economia e delle finanze ha predisposto l'amministrazione straordinaria dell'istituto, su proposta della Banca d'Italia, i cui commissari sono arrivati proprio a consiglio di amministrazione in corso, durante la riunione in cui si sarebbero dovuti approvare i risultati del 2014 riportanti perdite per oltre 140 milioni di euro.
      In una nota, la banca aretina ha attribuito tale decisione del Ministero a «gravi perdite nel patrimonio» dovute a «consistenti rettifiche sul portafoglio crediti». In realtà, la Banca popolare era già stata oggetto di osservazione da parte dell'Autorità a causa dell'andamento anomalo di alcune operazioni successive al fallito tentativo volontario di trasformazione della popolare in Spa durante la scorsa estate, nella speranza di facilitare il salvataggio dell'istituto.
      A ridosso dell'insediamento dei due nuovi commissari straordinari, il Ministero dell'economia e delle finanze ha subito smentito qualsiasi collegamento tra la decisione di procedere all'amministrazione straordinaria della banca aretina e una possibile ipotesi di abuso di informazioni circa il contenuto del presente decreto da parte di alcuni vertici, vicini agli ambienti di Governo, ma proprio in sede di audizione, in riferimento alle sue considerazioni sui movimenti anomali registrati immediatamente prima del 16 gennaio, il Presidente Vegas ha illustrato come la Banca popolare dell'Etruria e del Lazio abbia avuto in quel periodo il maggior apprezzamento sui mercati, con un guadagno di oltre il 60 per cento.
      Concludiamo le considerazioni relative a questa prima parte del decreto-legge n. 3 del 2015 ribadendo la nostra contrarietà all'uso così disinvolto del decreto- legge, uno strumento adeguato esclusivamente a occasioni di eccezionale urgenza e necessità e che rappresenta invece, in questo caso specifico, un pericoloso salto nel buio, non solo per un limitato numero di banche popolari, ma per l'intero sistema creditizio italiano. Impossibile con questi tempi e con le semplificazioni insite nello strumento legislativo utilizzato prevedere gli effetti che esso produrrà e porre in essere le necessarie cautele. Le conseguenze saranno rilevanti, non solo perché lesive delle legittime aspettative degli azionisti e di chi ha affidato i propri risparmi alle banche popolari, ma in generale perché si corre il concreto rischio che la ricchezza prodotta e accumulata venga distolta dai territori che l'hanno generata.
*    *    *

      Per quanto riguarda le disposizioni del decreto-legge attinenti alla materia di competenza della Commissione X (Attività produttive), occorre rilevare in primo luogo che le stime di crescita del prodotto interno lordo per il 2015 fanno pensare ad una probabile ripresa dell'economia italiana che dovrebbe arrivare per effetto del ribasso del prezzo del petrolio, della svalutazione dell'euro rispetto al dollaro, ed infine dai tassi di interesse prossimi allo zero.
      Si tratta di fattori esterni che, se pure concedono una boccata di ossigeno alla nostra economia, da soli non hanno tuttavia la capacità di incidere direttamente sulla ripresa dei consumi interni e degli investimenti.
      Nel nostro Paese permangono infatti tutte le criticità legate ad una economia ormai da troppo tempo in stallo, prima fra tutte l'elevata disoccupazione.
      A nulla sono serviti gli interventi di questo e del precedente Governo nel tentativo di innescare la ripresa, dalle misure a contrasto dei ritardi di pagamento della pubblica amministrazione, al bonus di 80 euro in favore di alcuni lavoratori dipendenti, misura quest'ultima che ha avuto più un impatto propagandistico in favore del Governo Renzi che di efficacia.
      Bene che vada, dunque, nel 2015 si riuscirà forse a recuperare una parte di quello che si è perso nell'anno passato e se le previsioni fino al 2018 saranno rispettate,

per tale data si tornerà ai livelli di crescita del 2010.
      Una traguardo questo di cui ci si potrebbe accontentare qualora fosse effettivamente raggiungibile, ma purtroppo non sarà così. E questo non solo perché i Governi, con il fine di influenzare il clima di fiducia dei cittadini, hanno adottato l'abitudine di fornire stime di crescita maggiori di quanto poi siano effettivamente, ma sopratutto perché l'immobilismo dei questa maggioranza di Governo, il cui pensiero più grande è rivolto alla propaganda e a giustificare le manovre per la stabilità dei conti pubblici, non infonde fiducia in tal senso.
      Tutto ciò nonostante che lo stesso Presidente della Repubblica, nel suo discorso al Parlamento, abbia ritenuto indispensabile accompagnare al consolidamento finanziario una robusta iniziativa di crescita, rivolgendo un pensiero a tutte quelle realtà che nel nostro Paese non hanno ancora trovato piena espressione, e tra queste in prima linea le imprese che, nonostante le difficoltà, hanno ancora il coraggio di innovare e competere sui mercati internazionali.
      Le aspettative di queste imprese purtroppo vengono costantemente tradite.
      Il Governo non è stato in grado fino ad ora di dare risposte concrete a quel tessuto della piccola e media impresa che ancora oggi si rende protagonista della flebile crescita del Paese e che ha deciso di rimanere nei propri territori di origine, continuando ad investire in Italia e creando ricchezza e occupazione.
      Orbene, gli sforzi di queste imprese non vengono affatto premiati ed anzi la mancanza di interventi strutturali nei loro confronti ne sta mortificando lo sviluppo fino a comportare per molte di esse il fallimento.
      Poco o nulla infatti è stato fatto per garantire loro un più facile accesso al credito e una riduzione dei carichi fiscali, sociali e burocratici.
      Questa condotta sta producendo, oltre all'impoverimento del tessuto produttivo, anche la stagnazione degli investimenti in innovazione, rischiando di lasciare sempre più indietro il livello tecnologico delle nostre aziende, nei diversi distretti produttivi, rispetto ad altre realtà europee.
      Nelle bozze il decreto-legge, secondo indiscrezioni, avrebbe posto le basi per ridisegnare un organico intervento industriale a sostegno dell'economia del Paese, volto a stimolare gli investimenti e creare nuove prospettive di crescita per le imprese.
      Guardando al testo in esame non si riscontra nulla che possa andare nella direzione annunciata: anzi, le poche misure in esso contenute in materia di sviluppo economico si giudicano marginali, non in grado di introdurre significativi cambiamenti per le piccole e medie imprese, le quali vengono sacrificate di fronte alla necessità del Governo di vedere soddisfatti altri interessi, primo fra tutti la trasformazione in Spa delle banche popolari, misura questa che addirittura contrasta con il fine di garantire il sostegno alle imprese e di conseguenza ai territori che le ospitano.
      Diversi sono stati gli annunci del Governo sulla necessità di rilanciare gli investimenti ma fino ad oggi nessun provvedimento è riuscito nell'intento. Anzi il proliferare di interventi in materia, compresi in diversi provvedimenti legislativi, non fa altro che creare incertezza normativa a discapito della produttività e difficoltà per gli imprenditori ad adeguarsi ai continui cambiamenti.
      Il nostro gruppo, da sempre attento alle problematiche che investono il mondo delle imprese, ha quindi presentato diversi emendamenti a sostegno di queste realtà produttive, con lo scopo di dare un serio contributo alla modifica del testo in esame.
      In particolare, all'articolo 3, del presente decreto-legge, che riconosce alla società SACE Spa l'esercizio del credito diretto a sostegno dell'internazionalizzazione, ci si è preoccupati di garantire un canale privilegiato di accesso al credito delle piccole e medie imprese che, dato il pubblico a cui si rivolge la SACE, caratterizzato in prevalenza da grandi imprese, risultano penalizzate dalla norma, lasciandole di fatto sempre più sole.
      Sempre in quest'ottica si è poi voluto precisare che gli interventi diretti di SACE non andassero a finanziare iniziative di delocalizzazione della produzione, mettendo un freno in questo modo all'ondata di deindustrializzazione che sta attraversando il Paese.
      Per quanto concerne l'articolo 4, esso introduce la definizione di «PMI innovativa», estendendo a tale tipologia di impresa alcuni benefìci finora riservati alle start-up innovative. Per accedere a tali benefici le PMI innovative devono possedere specifici requisiti ed in particolare almeno due dei seguenti: un certo volume di spesa in ricerca e sviluppo, e adesso anche in innovazione, l'impiego di personale altamente qualificato e la titolarità di almeno una privativa industriale.
      La norma ha subìto diverse modifiche durante l'esame in Commissione ed in particolare nella definizione di imprese innovative sono state ricomprese anche quelle che investono in innovazione. La modifica trova il favore del nostro gruppo che peraltro ha presentato emendamenti simili a quello approvato.
      Avremmo, tuttavia, preferito che oltre all'innovazione si tenesse conto anche di altri fattori che per le aziende sono ritenuti comunque innovativi. Infatti, l'introduzione di nuovi sistemi di produzione che permettano di rivoluzionare il processo produttivo di un bene o di un servizio, l'adozione di nuovi modelli di business, di marketing e di gestione aziendale debbono, a nostro avviso, essere considerati investimenti innovativi, rientrando a tutti gli effetti tra i requisiti caratterizzanti le imprese innovative.
      Per quanto riguarda gli altri requisiti gli stessi non si giudicano esaustivi.
      Non si tiene conto, ad esempio, che la professionalità si acquisisce anche attraverso la capacità e l'esperienza maturate al servizio di aziende innovative. Si ritiene quindi che anche l'esperienza debba essere considerata, forse più del titolo di studio, un requisito determinante ai fini dell'accesso ai benefici di cui al presente articolo.
      Nella definizione di «PMI innovativa» dovrebbero poi essere incluse anche le imprese che dimostrino una reale innovazione di prodotto o di ciclo di prodotto nel processo di ricambio generazionale, sostenendola nel passaggio rivoluzionario del suo ciclo di vita. Oltretutto si deve tener conto che il sistema produttivo italiano è prevalentemente costituito da micro e piccole imprese con altissimo valore aggiunto, presso le quali è occupata buona parte della forza lavoro esistente.
      Nel solo segmento dimensionale «micro» dell'intero comparto industriale, la partecipazione degli imprenditori e dei loro familiari all'attività di impresa supera il 50 per cento del totale degli addetti.
      Tuttavia, da una analisi dei dati relativi alle imprese familiari e ai passaggi generazionali emerge che appena il 31 per cento di tali imprese arriva in salute alla seconda generazione e soltanto il 15 per cento alla terza. Molto spesso per rilanciare queste aziende basterebbero investimenti in grado di introdurre elementi innovativi nel processi di produzione e di gestione aziendale.
      Il Governo purtroppo non ha ritenuto di accogliere le nostre proposte, lasciando incompleta una riforma che, se pure si giudica propositiva, è tuttavia destinata a rimanere inefficace a causa degli eccessivi oneri richiesti alle imprese innovative per essere riconosciute come tali.
      Con altri emendamenti si è voluto, infine, rendere più trasparente l'operato della Società di servizio per la patrimonializzazione e la ristrutturazione delle imprese. Tale Società, ai sensi dell'articolo 7 del presente decreto-legge, è stata costituita per intraprendere iniziative di rilancio di imprese che, se pure momentaneamente in crisi, presentano adeguate prospettive industriali. L'obiettivo della Società è quindi quello entrare nel capitale di queste imprese, risollevarle per poi cederle sul mercato.
      In tal senso la nostra preoccupazione è stata quella di evitare che attraverso la costituzione di questa Società si potesse procedere alla svendita del patrimonio industriale del nostro Paese.
      Guardando al provvedimento nel suo insieme si è certamente lontani dal raggiungimento di quegli ambiziosi cinquanta punti programmatici del piano «Destinazione Italia», elaborato dal Governo Letta, per attrarre nuovi investimenti e ridare competitività al sistema produttivo del Paese.
      In realtà, nel decreto-legge di investimenti poco si parla se non nel titolo. Esso si presenta quindi come l'ennesimo palliativo alla risoluzione delle questioni che investono il mondo delle imprese, prima fra tutte quella legata alle difficoltà di accesso al credito, che adesso sarà ancora più marcata rispetto al passato, segnando il destino di molte realtà produttive presenti nei nostri territori.

Filippo BUSIN,
Emanuele PRATAVIERA
Relatori di minoranza